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2 CITTÀ, TERRITORIO, MORFOLOGIA, FORMA URBANA

3.2 La ricostruzione post-bellica

Il periodo della ricostruzione va dal 1940 (in fase di conflitto) all’inizio degli anni ’60. Per ricostruzione post-bellica si intende il ripristino delle aree colpite dagli eventi - nella permanenza dei diritti di proprietà o di godimento del suolo - e il mantenimento delle tradizioni urbane dei luoghi (volontà di ricostruire il preesistente andato distrutto). È evidente come le due casistiche rappresentate siano tra loro differenti in forma sostanziale e come le stesse si differenzino nettamente dalle pregresse esperienze urbanistiche di fondazione o di espansione della città.

La situazione di riferimento

3.2.1

Il conflitto mondiale interessò, in misura più o meno rilevante, quasi l’intera nazione e comportò la distruzione di 1.700.000 vani, il danneggiamento di circa 1.000.000 vani e il lieve danneggiamento di 3.500.000 vani, pari al 6,5% dei vani esistenti. Le aree dei centri storici e le zone monumentali - documento eloquente della stratificazione della civiltà - subirono danni: molte operazioni militari furono infatti mirate ai luoghi simbolo di appartenenza ed identità civile delle comunità militarmente avversarie.

Va inoltre considerato che fu la prima situazione in cui venne persa simultaneamente una gran parte del costruito. Nello stesso tempo vennero a determinarsi “vuoti urbani”, nella fattispecie costituiti dal patrimonio immobiliare distrutto dagli eventi bellici, che necessitavano di adeguato studio e capacità progettuale per poter essere adeguatamente colmati, anche in considerazione del loro enorme valore simbolico.

L’operazione di ricostruzione portò anche a delle scelte, riguardanti il rapporto tra presente e futuro, che la collettività dovette effettuare in tempi ristretti. Fu chiaramente una condizione eccezionale dove si vennero a sovrapporre due diverse esigenze: affrontare coscientemente una situazione contingente, connotata da forte valore simbolico, e procedere ad una rifondazione dei tessuti urbani destinata a durare nel tempo.

La ricostruzione si presentò come una importante occasione per validare le teorie urbanistiche sulla città ed il conseguente dibattito culturale sembrò avere piena coscienza di tale situazione contingente. La comunità sociale, politica e scientifica si interrogò sull'opportunità e sulle modalità di ricostruzione delle aree distrutte e, soprattutto, sul significato simbolico del rifacimento quale atto rispettoso della tradizione.

Molte ipotesi vennero formulate al riguardo. La situazione di tabula rasa costituì una occasione ottimale da sfruttare, ma non condusse a visioni o a strategie unitarie e neanche ad esiti concordi. Furono ritenuti possibili due approcci: uno, che promuoveva l’“innovazione prudente”, basato su forme di confronto realistiche dettate dalla situazione contingente e l’altro che auspicava la ricostruzione della città mirando a idee progettuali radicali, non altrimenti realizzabili in situazioni ordinarie.

Al primo indirizzo di pensiero appartennero coloro che sostennero l’ipotesi - anche definita del “com'era e dov'era” - del mantenimento del centro storico nella sua originaria conformazione. In altri casi gli interventi di ricostruzione furono più banalmente riconducibili ad una mancanza di idee e di creatività, oppure rappresentarono un atteggiamento critico poco costruttivo nei confronti delle possibili trasformazioni ambientali.

L’introduzione di una sorta di compromesso innovativo attuato su molte ricostruzioni, nel segno della continuità e della modernizzazione introdotta e non dissimulata, fu voluto da coloro che intesero la ricostruzione come elemento di recupero della storia della città e guardarono alla trasformazione come evoluzione delle strutture urbane.

Di diverso avviso fu una parte di pensiero urbanistico che intese rompere col passato, in quanto la distruzione fu considerata una irreversibile perdita di parte della struttura storica

a seguito di un evento eccezionale. Con riferimento all’identità della città, attraverso questa tendenza venne auspicato il mantenimento di ciò che era rimasto intatto e la ricostruzione, con principi moderni e di funzionalità, di ciò che era andato distrutto. L’alternanza nuovo/vecchio, ossia ricostruito/mantenuto divenne il campo dove si assistette a stili sì differenti, ma non a falsificazioni introdotte sotto forma di ricostruzione.

Una posizione che contrappose, dunque, da un lato rigidi principi storici e dall’altro la considerazione che la città era la rappresentazione di un ciclo. Questo atteggiamento, partendo dalla considerazione che fu indispensabile procedere alla ricostruzione della città, non volle privarsi della possibilità di introdurre il rinnovamento delle forme urbane, e pertanto lo considerò come momento di miglioramento. Il particolare contesto fu di scottante attualità, perché nella prassi quotidiana sovente si assistette ad una sorta di compromesso con il passato urbano che vide da un lato il mantenimento degli assetti storici e dall’altro il perseguimento di forme urbane innovative (per soddisfare le mutate esigenze delle nuove generazioni).

Ultimo aspetto riguardò la diatriba tra chi intendeva procedere alla ricostruzione tramite iniziativa privata e coloro i quali sostennero la pianificazione centralistica (necessaria per preservare le caratteristiche culturali dei luoghi attraverso una adeguata attività programmatoria e progettuale).

In considerazione che la necessità di riedificazione coinvolse la coscienza collettiva, fu evidente che l’operazione di ricostruzione64 non si limitò ad un “rimettere le cose a posto”, ma recò con se tutta una serie di intenti e di programmi che vollero soddisfare il desiderio di riscatto degli abitanti. Venne pertanto avviato un processo di ricostruzione, nel senso che si incrociò e si sovrappose l’esigenza della ricostruzione dei centri e delle aree distrutte con quella di ampliamento e sviluppo della forma urbana.

Contestualmente si avvertì anche l’esigenza politica di rinnovamento degli uomini, dei governi e delle istituzioni.

I provvedimenti e gli strumenti per la ricostruzione

3.2.2

La ricostruzione in Europa iniziò già con i primi eventi bellici e proseguì per tutta la durata del conflitto. Alcuni paesi (Francia, Inghilterra e Germania) avviarono i propri processi pianificatori in anticipo rispetto ad altri, fra i quali l’Italia. La diversa organizzazione dei paesi nell’affrontare il problema della ricostruzione, determinò un diverso grado di preparazione.

Relativamente agli aspetti normativi, essi saranno trattati nel presente capitolo solo per memoria, mentre la loro trattazione sarà oggetto del successivo capitolo 4.

Il 17 agosto del 1942 venne approvata la Legge urbanistica n. 1150 che costituì il primo organico riordino della strumentazione urbanistica del nostro Paese, attraverso la redazione di Piani Regolatori Generali (P.R.G.).

Il provvedimento legislativo non poté essere messo in relazione diretta con la ricostruzione post-bellica, ma rappresentò la presa di consapevolezza politica dell’inefficacia degli strumenti urbanistici degli anni precedenti e dell’urgenza di fronteggiare le crescenti difficoltà economiche. Le autorità civili non si preoccuparono infatti di predisporre uno strumento concettuale ed operativo per avviare l’opera di ricostruzione nel dopoguerra, tanto che la Legge urbanistica assunse la connotazione di “Legge ordinaria per una situazione ordinaria”: fu dunque il provvedimento terminale di un processo avviato già da tempo, che maturò naturalmente il proprio iter, incurante degli eventi e senza cambiare l’ottica iniziale. Si trattò comunque di piani estremamente generici e principalmente

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L’operazione di ricostruzione è chiaramente diversa da quella di risanamento e riqualificazione. I presupposti del risanamento e della riqualificazione sono ovviamente conseguenti al lento degrado insito nel tessuto urbano e determinati dal trascorrere del tempo.

orientati a regolare la crescita urbana.

Già nella fase finale del periodo bellico si pose all'evidenza del governo Bonomi il problema della ricostruzione. Vennero emessi i primi Decreti Legge (D.L.) sulle riparazioni urgenti dei danni della guerra: il Decreto Legislativo Luogotenenziale (D.L.Lgt.) n. 154 dell’1 marzo 1945 che introdusse i Piani di Ricostruzione (P.Ri.).

I P.Ri. furono resi obbligatori per alcuni Comuni compresi in elenchi ministeriali, ed ebbero carattere esecutivo con durata di 10 anni. I P.Ri. nei Comuni maggiori furono considerati subordinati allo strumento urbanistico principale ed estesero l’operatività di quest’ultimo fino ad avvenuta esecuzione delle opere comprese nelle zone da ricostruire; ciò comportò che piani di fatto già superati mantennero la loro validità. Per quanto riguardò i Comuni medi e minori, sprovvisti di P.R.G., il P. Ri. si pose come uno stralcio di quest’ultimo e come strumento da utilizzare nell’immediatezza. Esso fu comunque quasi una scelta obbligata, anche in considerazione che gli stessi Comuni non ebbero i mezzi finanziari né per la stesura dei piani né per la loro attuazione. Furono adottati circa 400 P.Ri.

I Comuni italiani, se da un lato avviarono con prontezza l’opera di ricostruzione, dall’altro non furono altrettanto solerti nel procedere alla redazione degli strumenti urbanistici richiesti dall’attuazione della norma urbanistica di cui alla L. n. 1150, tanto che fu necessario un intervento del Ministero dei Lavori Pubblici che obbligò dapprima circa 100 Comuni, nel 1954, a dotarsi di P.R.G. entro due anni e, sei anni dopo, ulteriori Comuni a fare lo stesso, per un totale di circa 600 municipalità interessate dall’intervento. Ma questi provvedimenti rimasero parzialmente inattuati, tanto che, nel 1963, solo 65 Comuni ebbero un loro piano urbanistico generale.

Peggiore fu la situazione dei piani urbanistici territoriali o intercomunali, che sostanzialmente non furono mai approntati. Ciò sia per le complesse procedure urbanistiche per la loro approvazione, sia per la mancanza di una programmazione economica di riferimento. La conseguenza delle carenze nella formulazione dei piani urbanistici si tradusse, in pratica, in uno sviluppo urbano assolutamente disordinato; a causa dell’insufficienza degli strumenti urbanistici, furono saturate le aree limitrofe ai centri urbani e le periferie, attuando logiche riconducibili esclusivamente al profitto e non, come più opportunamente auspicabile, ad un ordinato e concreto sviluppo urbanistico. La crescita urbana interessò vaste aree di campagna e non considerò, nei tessuti insediativi, spazi da utilizzare per il verde ed i servizi; ciò fu causato sia dalla forte spinta speculativa sia dall’inefficacia degli strumenti urbanistici.

Oltre a proposte in campo normativo, anche in campo culturale e metodologico si registrarono importanti iniziative.

Il 16 dicembre 1945 venne organizzato a Milano il I° Congresso nazionale per la ricostruzione edilizia. Mario Zocca, a nome dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU), tenne nella sede congressuale un interessante intervento nel quale, attraverso un confronto tra la ricostruzione avvenuta in Francia e in Gran Bretagna e quella in Italia, evidenziò le carenze della pianificazione urbanistica statale, causate dall’inefficacia degli strumenti normativi per il regime dei suoli e delle strutture di coordinamento e salvaguardia dei Piani.

Contestualmente al Congresso, fu avviata una stagione di confronti teorici fra gli addetti ai lavori. Si svilupparono due posizioni antitetiche: da una parte una pianificatoria, che vide protagonisti gli appartenenti alla cultura architettonica ed urbanistica e dall’altra una liberista, voluta dagli imprenditori e funzionari della proprietà edilizia. Nessuna di queste posizioni, in ambito congressuale, prevalse sull’altra.

Ad analoghe risultanze si giunse anche nel Convegno nazionale di Roma, avvenuto dal 12 al 14 dicembre 1946. La situazione politica statale, di diffusa sfiducia nelle capacità pianificatorie dell’apparato pubblico, portò al prevalere del modello liberistico che aveva avuto facile presa sull’opinione pubblica cavalcando le problematiche connesse al bisogno di case e di lavoro. In questo processo di liberalizzazione, la cultura urbanistica statale restò estranea ai processi in atto, assumendo un atteggiamento di critica basato sull’accurato

studio delle esperienze che maturarono nelle analoghe politiche urbanistiche delle altre nazioni.

Nel luglio 1947 l’INU partecipò all’esposizione internazionale di urbanistica di Parigi, un’importante occasione per fare il punto della situazione e dello stato dell’arte in materia. L’INU evidenziò la condizione di diffusa carenza di alloggi esistente in Italia e la limitazione qualitativa e quantitativa della produzione urbanistica quale concreta conseguenza dell’insufficienza degli strumenti legislativi. La partecipazione ebbe un successo evidente, con conseguente eco sulla stampa internazionale.

Un dibattito più efficace in merito alla situazione dell’urbanistica italiana avvenne in concomitanza del II° Congresso nazionale, tenutosi a Roma tra il 17 e il 21 giugno 1948. Fra gli argomenti in agenda, furono discussi i nuovi ordinamenti urbanistici introdotti nel mutato quadro costituzionale, l’applicazione dei piani territoriali e dei piani regolatori, la situazione dell’attività edilizia. In conclusione del Congresso, il Ministro Tupini, compendiando le risultanze dei lavori, prese l’impegno, per conto del governo, di dare impulso all’edilizia abitativa.

In tale periodo l’urbanistica statale espresse da una parte una forma di inerzia e dall'altra i primi tentativi dei singoli Comuni di avviare la propria pianificazione. Per quanto riguarda l'aspetto culturale, o meglio lo sviluppo dei contenuti e metodi, si avvertì una ripresa della ricerca grazie all'impulso politico di Adriano Olivetti, che divenne il riferimento per gli urbanisti. Sempre nel 1948 cominciarono ad affermarsi le idee economiche sulla partecipazione dei lavoratori ai benefici dell'impresa: tali idee rispecchiarono la visione globale e radicale dello sviluppo della società industriale di Olivetti, secondo cui i settori produttivi si facevano carico di realizzare le condizioni ottimali per un ordinato sviluppo sociale è pertanto provvedevano anche alla realizzazione delle case dei dipendenti, dei servizi assistenziali, sociali ed educativi e di ogni altra attività che andasse in direzione della collettività.

Sulla base delle spinte ideologiche di Olivetti, nel 1949, si riaprì il dibattito urbanistico statale sulle pagine dell’INU; attraverso la rivista “Urbanistica”, da una parte venne avviata un’opera di sensibilizzazione nei confronti degli organi politici ed amministrativi per l'attuazione di una più incisiva politica in campo urbano, e dall'altra si agevolò uno sviluppo scientifico che considerasse la materia quale strumento necessario allo sviluppo della città. L’operazione di ricostruzione del patrimonio edilizio statale - largamente insufficiente in seguito alla distruzione o danneggiamento del 6,5% dei vani esistenti - venne avviata con l’emanazione di provvedimenti statali rivolti all’incentivazione della popolazione. Furono istituiti nel 1946 l’United Nations Relief and Rehabilitation Administration – Comitato Amministrativo Soccorsi Ai Senzatetto (UNRRA-CASAS) e nel 1949 l’ Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA) CASA con l’incarico di realizzare alloggi in luogo di quelli sinistrati, con fondi provenienti dagli aiuti internazionali.

Il 3 novembre 1952, con la L. n. 1902, vennero introdotti alcuni provvedimenti di salvaguardia che riguardarono i periodi tra l’adozione e l’approvazione dei piani. Contestualmente fu avviata l’applicazione della Legge urbanistica, in concomitanza con l’esaurimento dell’istruzione ed approvazione, da parte del Min. LL.PP., dei P.Ri.

Nel 1954, per volere del ministro Romita, venne compilato un elenco di 100 Comuni obbligati alla redazione del P.R.G., anche se i Sindaci, appositamente convocati, rappresentarono le loro remore in merito all’applicazione dei provvedimenti, dovute principalmente a motivazioni finanziarie e procedurali. Ma l’applicazione della Legge procedette con estrema lentezza anche perché, nel 21 dicembre 1955, venne promulgata una Legge, la n. 1357 che, per i Comuni obbligati al P.R.G., prorogò la validità dei piani previgenti e di quelli di ricostruzione fino all’approvazione del piano regolatore.

Nel periodo considerato tutti gli interventi voluti dal Piano Marshall, anche quelli di importanza per la ricostruzione e l’assetto della città ed i cui fondi di investimento furono distribuiti sia ad Enti pubblici che a privati, avvennero al di fuori di una concreta politica di intervento statale. L’Urbanistica italiana mostrò dunque di essere in stato di arretratezza.

Lo confermò Giuseppe Samonà,65 nel 1959, che sintetizzò come i processi di ricostruzione venivano attuati nell'ambito dei singoli paesi.

Riflessioni sugli elementi di criticità della prassi per la ricostruzione

3.2.3

Nell’Italia post-bellica, come detto, la L. n. 1150/’42 non venne applicata in quanto, per avviare con maggiore immediatezza l’opera di ricostruzione, si preferì procedere mediante provvedimenti aventi carattere di emergenza e non inseriti in un contesto di pianificazione, sicuramente più razionale, ma che avrebbe richiesto tempi più lunghi di attuazione.

Si consideri anche che buona parte dei luoghi danneggiati era costituito, durante la prima parte del conflitto, da centri di piccola dimensione nel Sud della penisola e per di più le distruzioni risultarono circoscritte. Nel contempo non era nota quale sarebbe stata la situazione del Nord al termine del conflitto, proprio perché gli episodi bellici erano in corso di svolgimento. Ma se da un lato gli interventi sottoposti ai provvedimenti di emergenza furono improntati a maggiore rapidità di esecuzione, dall’altro, non essendo stati adeguatamente approfonditi progettualmente, diedero vita a soluzioni peggiorative e soprattutto non consentirono di cogliere l’occasione per risolvere situazioni di carenze generalizzate ataviche presenti nelle aree da rifunzionalizzare. Si avviò, in buona sostanza, una fase di ripresa edilizia prettamente speculativa e pertanto orientata alla massimizzazione della rendita fondiaria. Va comunque considerato che, nella situazione economica dell’Italia post-bellica, quelli tratteggiati furono gli unici investimenti in grado di attrarre i carenti capitali.

Il D.L.Lgt. n. 154/’45, come detto, ritardò l’applicazione della L. n. 1150/’42; le riforme necessarie per lo sviluppo della trasformazione urbana non poterono pertanto essere avviate. I provvedimenti di emergenza furono in antitesi con tutti i principi innovativi - frutto di faticosa crescita dottrinale - contenuti nella L. n. 1150/’42; essi, nella maggior parte dei casi, perseguirono l’obiettivo di ripristinare lo stato dei luoghi precedente all’azione di distruzione bellica, con miglioramenti viabilistici ed igienici, inoltre riguardarono solo le opere edilizie e pubbliche e di fatto esclusero una complessiva verifica strutturale dell’intero comparto edificato e dell’assetto urbano, che avrebbe potuto dare l’avvio ad importanti interventi di ricostruzione. Questo modo di procedere, di fatto costituì un passo indietro negli strumenti urbanistici. Il D.L.Lgt. andò nella direzione di coloro che osteggiarono la L. n. 1150/’42, ritenendo che essa desse grosse autonomie locali (che potevano essere dirette agli interessi immobiliari della proprietà privata), avulse da un rigido centralismo ministeriale. Ciò è insito proprio nello stesso Decreto che di fatto limitò gli interventi alle sole zone da ricostruire, proprio per evitare che si venissero a ricreare le condizioni per una incontrollata crescita della pressione insediativa.

Un esempio di ricostruzione: Firenze

3.2.4

Emblematico fu il caso della ricostruzione del quartiere attorno al Ponte Vecchio di Firenze. Il 4 giugno 1944 le truppe tedesche, in fase di ritirata, distrussero sistematicamente tutti i ponti di Firenze, con l'eccezione di Ponte Vecchio; anche le costruzioni esistenti su entrambe le rive del Ponte Vecchio furono distrutte. L'intervento di ricostruzione, avviato al termine del conflitto, promosse un'accesa disputa in merito alla tipologia di intervento di ricostruzione da avviare, disputa cui presero parte molte autorevoli personalità dell'epoca (B. Berenson, R. Bianchi-Bandinelli, R. Papini, C. L. Ragghianti e G. Michelucci). La voce della

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popolazione fu resa nota dal quotidiano “La azione del Popolo”, che pubblicò gli esiti di un referendum esplorativo proposto ai lettori.

Nel 1944, la Commissione Urbanistica fiorentina abbandonò la progettazione di un P.Ri. e predispose un concorso a livello statale, emanato da lì a poco, per gestire la ricostruzione del ponte e dell’area circostante. Il bando non fu basato su un preciso quadro infrastrutturale e funzionale, ma lasciò ai progettisti ampia facoltà di porre le proprie proposte, anche perché, nel frattempo, la Sopraintendenza aveva avviato un’opera di ricostruzione che di fatto incideva sull’area mediante una serie di interventi puntuali diluiti nel tempo.

Nell’ottobre 1947 vennero presentati 22 progetti, di cui tre premiati ex equo al primo posto e due al secondo. Il gran numero di spunti rilevabili dai progetti selezionati, fece sì che si decise di nominare una commissione, di cui fecero parte sia i progettisti dei lavori selezionati sia alcuni componenti della giuria, per realizzare una proposta che prendesse spunto un po’ da tutte le altre.

Questa commissione, dopo circa sei mesi di lavoro, presentò pubblicamente un piano definitivo, approvato parzialmente dal Consiglio comunale alla fine del 1947 ed emendato dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici nel 1948.

Nonostante la complessa genesi del piano, esso venne attuato in forma frammentaria, ed inoltre, in carenza di efficaci norme di salvaguardia urbanistica, l’unica tutela efficace rimase quella della Soprintendenza.

Ciò non fece altro che denotare come i risultati urbanistici perseguibili non fossero completamente soddisfacenti, anche se la mancanza dei risultati fu più da attribuire alla scarsa efficienza delle componenti sociali e civili che all’inadeguatezza degli strumenti urbanistici.

Ma i limiti del caso Firenze non furono solo normativi o strutturali; essi evidenziarono più propriamente l’inefficacia del pensiero urbanistico dell’epoca e l’arretratezza culturale, anche perché il piano può essere considerato un provvedimento collegiale che coinvolse diverse forze politiche, sociali e culturali.

3.3 I piani della seconda generazione: piani di espansione urbana

Negli anni ’50 e ’60 iniziò una grande migrazione che portò un italiano su tre a cambiare