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II CATERINA PERCOTO

II.4 Uno spaccato sociale

II.4.1 Le classi subalterne tra auspicio e constatazione

Innanzitutto, la questione popolare dibattuta con intenso fervore nel panorama italiano non è assolutamente aliena a Percoto. Per avvalorare la tesi, è proficuo avvalersi di una lettera a Pompilj, nella quale la contessa propone il tema del popolo correlandolo alle nuove istanze delle lettere:

sulla letteratura attuale ho un pensiero che voi forse non dividerete. Parmi che uno dei suoi principali caratteri sia appunto di non dare nulla di duraturo. Né me ne dolgo. Il tempo delle grandi individualità, io lo tengo passato. Sulla scena del mondo è ormai comparso un personaggio, che non troviamo in nessuna istoria. Questo personaggio ancora fanciullo,

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Gioachino Brognoligo ritiene che nonostante la precaria condizione economica, Caterina Percoto non può essere considerata “campagnola tra i campagnoli” poiché l’appartenenza al ceto nobiliare pone un’infrangibile barriera di classe. L’opinione è riportata in Piero De Tommaso, op. cit., p. 114.

137 Infatti, all’amica scrittrice Luigia Codemo che le chiede quali sono i segreti della sua scrittura, Percoto risponde: «sa Ella lavora come la povera Percoto? Immagino un fatto, prendo sempre dal vero i personaggi che fingo attori, li metto in un paese a me noto, e poi tiro via a correre colla penna come se si trattasse di fare un racconto in conversazione. Ecco tutta l’arte mia e la prego a non ridere né di me né di quelli che mi lodano». Si tratta di una lettera del 24 gennaio 1865, cit. in Le umili operaie. Lettere di Luigia Codemo e

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dimanda incessantemente d’istruirsi, di sentire; ed è per lui che lavora un grande scrittore che colla sua penna infaticabile abbraccia tutti i generi, dal dramma all’umile novellina138

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Il magistero di Tenca non è perso e, se si rammenta il saggio tenchiano Delle condizioni

dell’odierna letteratura in Italia (1846) e lo si accosta a questo frammento di lettera, sono

riconoscibili indubitabili punti di convergenza ideologica, tanto da poter sostenere che i due passi appaiono sovrapponibili e dimostrano la corposa coscienza che Percoto ha in merito ai mutamenti occorsi nella società e nella letteratura.

In secondo luogo, la “sacerdotessa della natura” Percoto comprende che la problematica determinazione della società si mostra nelle sue più gravi sfaccettature soprattutto nelle campagne popolate da una massa contadina succube di sistemi produttivi prevaricanti e di possidenti terrieri inadeguati a contribuire ad un miglioramento economico e sociale.

Il meccanismo che soggiace a molti testi ascrivibili al genere rusticale tende a far risaltare tramite attributi positivi le qualità del “buon popolo” di campagna, formulando dei

clichés139 che decretano la supremazia del tono idealizzante a discapito di una reale rappresentazione dei contadini.

Anche nella narrativa di Percoto è possibile riscontrare che, ad esempio, le popolane sono fanciulle discrete, oneste e soavi come Adelina, personaggio topico eletto a più riprese protagonista dei racconti percotiani. La nipote del parroco140 ne fornisce un ritratto esclusivo e disegnandola come «orfana dai primi anni, avvezza al dolore, malaticcia [la cui] fisionomia aveva un non so che di malinconico»141 allude alla sua naturale inclinazione al bene, maturata grazie alla nascita nel mondo agreste che ne ha arricchito l’interiorità instradandola verso le azioni caritatevoli «visitando un vecchio mendico, o un qualche malato in lontano casolare»142.

138 Lettere inedite di Caterina Percoto al Dott. Gioacchino Pompilj, cit., p. 114. La lettera di Percoto è datata 4 ottobre 1853.

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Bruno Maier, op. cit., p. 26.

140 Caterina Percoto, Adelina, in «La Favilla», 16 marzo 1844, a. IX, pp. 57-59. Si cita da EAD., La nipote del

parroco, in EAD., Racconti, cit., pp. 77-80.

141 Ivi, p. 78. 142

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Una medesima caratterizzazione è presente nell’Adelina che il proscritto Giovanni menziona come il lietissimo ricordo dei tempi passati in campagna, ed infatti il «dolce sorriso poteva ravvivare tutti gli oggetti che la circondavano»143. Ma l’insidia è sempre vicina e in I gamberi, nonostante la buona indole, Adelina è in grado di comprendere il privilegio del vivere in campagna soltanto dopo la diserzione che l’ha portata a bramare i fasti della città. Recuperato il senso della propria presenza nel mondo, Adelina ritorna nella campagna dove viene accolta con assoluta clemenza dagli altri contadini poiché ha appreso che

non erano i modi composti e misurati di quell’elegante civiltà, che ella aveva un tempo troppo ammirata; ma in quella vece era l’abbondanza del cuore, e la sua parola franca, sempre specchio dell’animo144

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Oltre al topos della campagna come luogo dell’idillio e della città come fonte di corruzione, è importante rilevare che, a differenza di Menica de La fila, il precoce pentimento per aver osato l’infrazione permette ad Adelina di salvarsi e di riconoscere il significato della propria vita giacché nella campagna è possibile

vivere nella solitudine colla buona gente che lavora, nella semplicità de’loro costumi e del loro affetto, vivere tranquilla, operosa, ed ignorata145.

La campagna non è quindi presentata soltanto come sito ameno, ma è anche il luogo in cui la fanciulla entra in simbiosi con la natura e con i contadini che confermano l’archetipo di un popolo rurale operoso, sereno e privo di contrasti. Inoltre, è interessante rilevare che le donne sono indiscutibilmente centrali nella narrativa percotiana ed in questo senso si è valutato che nella pagina della friulana si dichiara l’esistenza di uno spazio femminile fisico e sociale146. La letteratura di genere che impegna Caterina Percoto ha quindi

143 Caterina Percoto, Il refrattario, cit., p. 102. 144 Caterina Percoto, I gamberi, cit., pp. 129-130. 145 Ivi, p. 131.

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manifestazione non soltanto nella sua produzione prettamente pedagogica rivolta alle donne, ma anche all’interno della letteratura rusticale dell’autrice, poiché la presenza costante ed interclassista dei personaggi femminili sancisce lo sguardo vigile di una scrittrice impegnata nell’etnologia al femminile.

Quindi, l’efficacia e l’inusualità del “ciclo di Adelina” decreta e riassume l’assoluta centralità della donna nelle laboriose campagne di Percoto, ma in senso opposto rientra nei ranghi del canone rusticale connotando il mito del “buon popolo” che non si pone il problema della propria condizione sociale prevaricata, e, anzi, sembra essere capace di assorbire le aporie dell’esistente senza ribellione alcuna.

Una rappresentazione esemplare di quanto sostenuto sinora è ricavabile in Il cuc147, in cui la presentazione delle deprecabili condizioni del popolo non funge da elemento che si intende criticare, bensì da «lente di ingrandimento della […] bontà e moralità»148 dei subalterni.

Il racconto si presenta come una breve prova incentrata su una numerosa famiglia di campagna in cui tutti sono proverbialmente «adunati in cucina intorno a un bel fuoco, aspettando che si riversasse la polenta»149. Attorno al focolare domestico si radunano quindi i componenti di una famiglia contadina e patriarcale che è riuscita ad ottenere una sufficiente solidità economica grazie al buon operato dei cognati Valentino e Domenico.

La vicenda di Domenico è emblema di un’ascesa sociale ed economica. Nato orfano e in una famiglia in cui «regnava […] lo stento, la miseria e il lavoro non retribuito»150, il colono Domenico ha la chance di condurre miglior vita quando trova del denaro in una giubba. Ma appropriarsi del bottino sarebbe un’opportunità illecita, un frutto malato di una provvidenza che qui si configura come la diabolica tentatrice che gli fa gustare per qualche istante il profumo del denaro, tanto che «le idee della sua mente presero subito un altro corso»151. Nonostante questo breve cedimento, la rettitudine di Domenico lo porta a

147 Il racconto apparve in «Giunta domenicale del Friuli» in due puntate datate il 5 gennaio 1851 e il 12 gennaio 1851. Si cita da Caterina Percoto, Il cuc, in EAD., Racconti, cit., pp. 407-421.

148 Marinella Colummi Camerino, Caterina Percoto e la narrativa sociale del romanticismo, cit., p. 48. 149 Caterina Percoto, Il cuc, cit., p. 408.

150 Ivi, p. 410. 151

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restituire i quattrini al legittimo proprietario, il futuro cognato Valentino, anch’egli di condizioni assai precarie. I due intraprendono un’assidua frequentazione che permette a Valentino di conoscere ed innamorarsi di Lucia, la sorella di Domenico. Ma Lucia è anche corteggiata da un giovane più abbiente, la cui ricchezza non è motivo di ribellione per Valentino, ma semplicemente di amara constatazione della propria inferiorità, tant’è che:

sentì, suo malgrado, che la Lucia avrebbe dovuto apprezzarne l’omaggio [dei fiori], tanto più che si trattava d’una buona fortuna. Egli invece, povero figliuolo senza famiglia, che cosa avrebbe potuto offrirle? […] Chiederla in isposa egli meschino bracciante che non aveva di suo che la vita?152.

Lo sposalizio con un uomo agiato consentirebbe infatti a Lucia di migliorare la propria condizione, ma i contadini che pensano al matrimonio153, visto come dimensione in cui esprimere appieno il proprio essere al mondo, sono in grado di discernere il buono ed il giusto senza azioni improprie o inaspettate. Poiché Valentino si è dimostrato un giovane onesto, Domenico gli consiglia di sposare Lucia, di diventare «fratelli per la vita e per la morte»154 mettendo «in comune tutti i loro beni e tutti i loro mali»155, confidando nella provvidenza divina che irradia i suoi indulgenti effetti su chi si è comportato correttamente. L’integrità morale di Valentino e Domenico permette infatti che la provvidenza garantisca prosperità e nell’explicit i meccanismi di mutuo soccorso di Valentino e Domenico fanno sì che costituiscano quella famiglia agiata e «senza contrasto»156 che era stata dipinta nell’apertura del racconto.

Il cuc è infatti un compendio degli attribuiti conferiti ai contadini: essi sono spesso

provvisti di virtù che le condizioni avverse esaltano, si realizzano compiutamente nell’onesto lavoro che permette loro una nobilitazione economico-sociale e nella famiglia intesa come custode delle tradizioni e dei valori morali. Infine, non tentano di riscattarsi tramite azioni inique, bensì comportandosi correttamente hanno fiducia nell’operato della

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Ivi, p. 418.

153 Antonella Iacobbe, op. cit., p. 61. 154 Caterina Percoto, Il cuc, cit., p. 421. 155 Ibidem.

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provvidenza che punisce gli ingiusti e premia i giusti. Quindi, accettando il proprio status i contadini possono compiere l’ascesa sociale che si situa all’interno delle mura della stessa società. Infatti, più che dell’analitica rappresentazione del mondo agreste, prevale la sua rappresentazione di «luogo privilegiato per l’idoleggiamento di un mondo arcaico»157 mosso dai buoni sentimenti.

La rappresentazione del contado non è comunque soltanto posta in questi termini e di frequente si riscontra una pervicace analisi del mondo rurale e delle dinamiche che lo governano. I contadini che popolano le pagine percotiate si appressano ad essere i futuri protagonisti della scena politica. Tuttavia i tempi non sono ancora maturi e Percoto tenta invece di rappresentare le masse subalterne della campagna stabilendo il nesso che lega la loro esistenza al progresso economico e sociale della comunità.

Infatti, è stato precedentemente rilevato che l’economia agricola seminava i principi per il cosiddetto capitalismo all’italiana che se favorì lo sviluppo del sistema produttivo italiano ed un suo adeguamento con i paesi europei più avanzati, portò con sé anche delle mutazioni agrarie e delle pesanti ricadute nella società. Di queste nuove dinamiche si occupò parte della pubblicistica risorgimentale e anche Percoto apportò alla riflessione un personale ed originale contributo, presentando anche i diversi status degli abitanti della campagna, fittavoli, contadini, braccianti e sottani che popolavano le campagne locali. È opportuno rammentare che è della dimestichezza che ella ha con la campagna che nascono pagine come quella che si accinge a riportare e che testimoniano una profonda aderenza al tessuto economico friulano e alle sue trasformazioni. La prospettiva che se ne ricava scaturisce da un approccio “sociologico” al tema rurale nel quale domina l’osservazione che avverte le faglie di sistema, stabilendo le connessioni tra i mutamenti occorsi ed il mondo del lavoro:

i sottani, cotesta piaga delle nostre campagne, sono la più meschina e la più infelice delle classi della società; quella su cui pesa maggiormente il lavoro senza compenso, e dalla quale scaturiscono i mendicanti, i vagabondi, e spesso anche i ladri e gli assassini. I possidenti che

157 Marinella Colummi Camerino, Idillio e propaganda nella letteratura sociale del romanticismo, cit., p. 233.

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vanno in rovina danno sovente origine alla loro esistenza, perché cominciano dall’alienare i fondi produttivi, e in ultimo affittano o vendono le case mezzo diroccate a una specie di speculatori che poi le subaffittano a dei miserabili, che, o per disgrazie, o per discordie domestiche divisi, non hanno più la possibilità di condurre una colonia. Questi speculatori, per lo più possidenti di fresca data, a tali orribili tuguri, uniscono uno o due campicelli, dei quali esigono affitti spropositati. Coloro che accettano, sanno che se anche l’annata andasse propizia, l’assiduo lavoro e la più industriosa diligenza non faranno mai che il fondo produca tanto da soddisfare al debito assunto [...] Malattie, tempi burrascosi, mancanza di lavoro, sono poi disgrazie ch’essi non prevedono, o che certo non entrano nei loro calcoli. Colui che affitta sa bene anch’egli che il suo campo, se anche fosse la terra promessa, non potrebbe giammai dargli il provento che richiede; ma egli spera d’aver a fare con gente avveduta che sappia ingegnarsi e profittargli, e, purché paghi, il modo non importa […] Così gli sciagurati, che si trovano nella necessità di abbracciare tal vita miserabilissima, passano d’uno in altro tugurio sempre più nudi, finché, spogli di tutto, vanno ad ingrossare la schiera dei mendici e dei vagabondi158.

L’“idealità” scompare e l’acutezza della scrittrice sta anche nell’individuazione del meccanismo di causa-effetto che lega la speculazione rapace dei possidenti terrieri ed il depauperamento ai fenomeni di delinquenza deprecati dalla società. Questa pagina di notevole valore testimoniale è pure di denuncia considerato che, come si vedrà in seguito, è inserita all’interno di un racconto in cui si respira un’atmosfera patriottica. Ciò permette di rilevare sin d’ora che per la scrittrice la dinamica locale è indice di quella nazionale, soprattutto per il problema delle condizioni delle masse rurali, in un’ottica unitaria laddove lo sfruttamento locale si fa exemplum di quello dell’Italia tutta, ad indicare come questo punto è focale per la determinazione risorgimentale secondo Percoto. Infatti, l’autrice guarda al popolo contadino come realtà storica potenzialmente agente e non come massa indistinta ed inerte.

Dunque, accanto alle pagine che pongono la campagna friulana come cornucopia e come luogo in cui i contadini sono provvisti di caratteri eminentemente positivi, convivono frammenti che conferiscono alla letteratura campagnola dell’autrice una maggior veridicità

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determinata dall’assenza della prospettiva idilliaca. In questo senso, una maggiore aderenza al tessuto sociale com’è e non come si auspica che esso possa essere, permette a Percoto di presentare il popolo non in maniera immobile, bensì pluridimensionale.

Il popolo rappresentato dalla scrittrice, si è già detto, è composto dai contadini friulani che devono fare fronte ad una natura non sempre benevola. Esemplare in questo senso è la prosa Un episodio dell’anno della fame: la novella testimonia la dura condizione in cui versano i contadini, la cui sventura, suggerisce l’autrice, è dovuta a «l’inclemenza delle stagioni, le guerre antecedenti, e l’improvvidenza di un governo affatto nuovo»159

che causano la totale perdita dei mezzi di sostentamento. Infatti, il periodo compreso tra il 1813 e il 1817, in cui è situata la vicenda, è significativo della scelta di evitare gli interventi della censura austriaca, poiché si tratta di un’età remota in cui proiettare il male160

, ma soprattutto testimonia la volontà di documentare un tempo impresso come ricordo indelebile nel popolo friulano. Sono infatti gli anni che sconvolsero il Friuli sotto molteplici punti di vista; innanzitutto la fluida situazione politica vedeva l’avvicendarsi del governo francese con quello asburgico. In secondo luogo, il periodo fu caratterizzato dal crollo della produzione agricola, causata dalla perdita dei raccolti per un’intensissima piovosità e per un clima molto rigido, tanto che turbe di poveri e mendicanti invadevano le campagne e si accalcavano nei centri abitati; la situazione si aggrava con il diffondersi dell’epizoozia e delle epidemie, così che gli anni bui del Friuli ebbero esiti laceranti anche nella sfera sociale161. È proprio nel 1816, l’anno più duro della carestia, che Percoto situa Un episodio

dell’anno della fame, in cui documenta con spietato realismo la situazione economica e le

ripercussioni sulla collettività.

La miseria colpisce la famiglia di Pietro che appartiene alla schiera dei braccianti162, ossia i lavoratori in maggiore difficoltà in situazioni di precarietà. Costretti a rivolgersi alla

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Caterina Percoto, Un episodio dell’anno della fame, cit., p. 134. 160 Tommaso Scappaticci, op. cit., p. 64.

161 Si rinvia a Furio Bianco, Nobili, castellani, sottani. Accumulazione ed espropriazione contadina dalla

caduta della Repubblica alla Restaurazione, Udine, Casamassima, 1983, pp. 141-142. Inoltre, si veda

Luciana Morassi, Il Friuli, una provincia ai margini (1814-1914), in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a

oggi, Il Friuli-Venezia Giulia, a cura di Roberto Finzi, Claudio Magris e Giovanni Miccoli, Torino, Einaudi,

2002, vol. I, pp. 87-90.

162 Entrano a più riprese come protagonisti delle novelle percotiate. Si veda quanto soprascritto a proposito de

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famiglia presso la quale aveva prestato servizio la moglie di Pietro, Maria, essi hanno modo di provare «l’immensa muraglia che il destino ha posto tra il ricco e il povero»163

e nonostante l’umile esitazione ed il pudore di fronte all’agiata famiglia, essi sono indotti a barattare gli ultimi bachi da seta in cambio di cibo per sfamarsi. Sull’insufficienza del sostentamento e sull’impietoso inverno che colpisce Manzinello si indugia fortemente senza alcun tratto di pietismo, ma soltanto di cruda desolazione:

erano alla vigilia di Natale, e nella madia neanche una presa di farina. Il freddo si faceva sentire aspramente, pochi i vestiti, niente da bruciare, e lo stomaco vuoto. Pietro aveva portato a casa alcuni cavoli, ma le donne non avevano con che cuocerli. […] Nei giorni precedenti avevano un po’ alla volta abbruciate le tavole del letto, le sedie, una botte e tutti gli utensili che non era stato possibile di vendere164.

La miseria, più che il destino avverso, provoca in Pietro l’esigenza di rubare e l’azione del bracciante viene rappresentata dall’autrice senza la formulazione di alcun giudizio, a rimarcare come al centro della narrazione vi sia la fame, che in un meccanismo di oppressione e perdita di speranza determina, come la scrittrice ha osservato altrove, la «necessità di abbracciare tal vita miserabilissima», mentre ad agire nella psicologia di Pietro è il cattolico senso di colpa:

era una bella notte stellata, ma un freddo così vivo che rodeva le viscere. Il vento s’era quetato, ma invece spirava di quel fino fino che taglia le orecchie e penetra sotto le unghie; la luna non ancora spuntata; tutta in silenzio la campagna. Ei si diresse verso un campo, dov’erano di molte viti giovani appoggiate a dei pali. Prima di mettersi all’opera, posò il cappello in un solco; ma pensando che poteva dimenticarlo, e che trovato servirebbe di spia, lo riprese e lo nascose dietro il tronco d’un vinciglio, […] Aveva liberato un sette carracci, quando gli parve udire una pedata; tornò a guardare, e s’accorse di uno che veniva […] riuscì a togliersi di via prima che i suoi persecutori lo chiudessero in mezzo, ma inciampò in uno sterpo e cadde boccone: non era appena rialzato, che udì suonare per terra una tale

163 Caterina Percoto, Un episodio dell’anno della fame, cit., p. 136. 164

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mazzata, che guai! se lo avesse colto. Intanto che il galantuomo che lo inseguiva si riebbe dallo sforzo fatto nel menargli quel colpo, egli aveva potuto guizzargli di mano e saltato il fosso era sulla via e correva salvo a casa; ma aveva lasciato il cappello nel campo, e per soprappiù avea perduto anche la sua berretta di maglia […] Tutti si sarebbero accorti del ladro; e Pietro, che per la prima volta costretto dal bisogno s’era posto a quella mala via, sentiva tutta la vergogna dell’essere scoperto165

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Per aver dimenticato il cappello, Pietro è costretto a ritornare nel campo e nonostante