La parte dedicata alla governance nel Protocollo è il Titolo II.
Gli articoli del Protocollo riguardanti la governance possono essere ricondotti a tre criteri essenziali.
Il primo criterio riguarda la composizione degli organi. Vengono definiti i limiti temporali alla permanenza in carica dei componenti degli organi sociali, al fine di assicurare un ricambio e dunque un elevato grado di responsabilità nei confronti del territorio, in coerenza con il d.lgs. n. 153/99.
Le regole sulla durata dei mandati rispondono a un “rinnovamento qualitativo” degli organi di governo degli enti. Un rinnovamento che si realizza tramite l’indicazione dei requisiti richiesti per l’assunzione delle cariche e una puntuale procedimentalizzazione delle modalità di nomina. Viene poi posto un limite anche al numero di mandati. Ciò richiama un principio già enunciato nella normativa primaria e richiamato dalla Carta delle Fondazioni. Secondo Vella (2016), merito del Protocollo è quello di prevedere e ribadire una specifica declinazione (quella del mandato non rinnovabile per più di due volte consecutive e un adeguato “periodo di raffreddamento”) compiendo in questo modo una scelta equilibrata. Tale scelta da un lato garantisce necessari requisiti di stabilità negli indirizzi di governo, ma dall’altro contribuisce a una maggiore apertura della governance delle fondazioni, evitando che si consolidino e si
cristallizzino posizioni di potere del tutto incompatibili con i parametri di democraticità che debbono connotare qualsiasi ente non profit.
La selezione dei comportamenti degli organi deve svolgersi in base a principi guida quali: (i) il rispetto delle pari opportunità; (ii) la professionalità delle persone; (iii) la territorialità, ovvero la presenza di una qualificata rappresentanza delle realtà territoriali; (iv) l’uso limitato dello strumento della cooptazione; (v) procedure di nomina dirette ad assicurare le quote di genere. Il Protocollo, quando fa riferimento all’esigenza di assicurare negli organi professionalità, competenza, autorevolezza, nonché “processi di nomina funzionali a salvaguardare l’indipendenza e la terzietà dell’ente” (art. 8), si colloca su un piano di coerenza con i principi già richiamati nella Carta delle Fondazioni e con una prassi statutaria oramai diffusa. Ma quando affida le modalità di nomina ad un regolamento “nel quale sono tra l’altro specificate le competenze e i profili professionali richiesti, che sono idonei ad assicurare una composizione degli organi che permetta la più efficace azione della Fondazione nei settori e nell’ambito territoriale indicati nello statuto” (art. 8) impone uno sforzo: la puntuale e dettagliata articolazione dei criteri in rapporto al “cosa” la fondazione fa (attività) e al “come” lo fa (assetto operativo e organizzativo) con una procedura trasparente e verificabile. Spetterà quindi ad un regolamento individuare le competenze e le specifiche professionalità richieste in rapporto alla concreta operatività della Fondazione (Vella 2016).
Non solo gli organi devono essere competenti e di professionalità, ma devono anche essere vicini ai cittadini. L’art. 8 infatti richiede che “i soggetti designati siano rappresentativi del territorio e degli interessi sociali sottesi all’attività istituzionali delle Fondazioni”. Ciò in molti casi è già disposto con alta probabilità negli statuti, ma il Protocollo fa un passo in più, richiedendo che le fondazioni promuovano uno o più incontri con gli enti, pubblici o privati espressivi delle realtà locali, disciplinando specificamente le modalità di convocazione, i soggetti destinatari e gli obblighi di rendicontazione e pubblicizzazione del processo valutativo. Vella (2016) pur riconoscendo gli enormi vantaggi di ciò, sottolinea anche un possibile rischio: la creazione di “fenomeni di cattura” da parte di specifici interessi locali volti a curvare il potere decisionale dell’ente verso finalità non sempre corrispondenti ad una necessaria visione d’insieme di tutti gli stakeholder. Non solo, dotarsi di professionisti del territorio non sempre permette una visione oggettiva e distaccata. Talune volte, infatti, uno “sguardo dall’alto” può rappresentare un utile contributo.
Si fissano anche dei limiti (in termini numerici) per la definizione dei corrispettivi per gli organi. In ogni caso, in via generale, essi devono essere “di importo contenuto, in coerenza con la natura delle fondazioni di origine bancaria e con l’assenza di finalità lucrative” e “commisurati all’entità del patrimonio e delle erogazioni”. Sono previsti tetti parametrati al patrimonio, per i
compensi complessivamente corrisposti a tutti i membri degli organi. Ad esempio, il compenso del Presidente delle fondazioni con patrimonio superiore a un miliardo di euro non potrà superare il tetto massimo di 240.000 euro. Tale disposizione si ispira in qualche modo alla tendenza legislativa recente a imporre tetti massimi ai compensi degli amministratori di enti e società pubbliche (Clarich M. in Sala G., Meruzzi G., 2016).
Infine, si declinano con precisione le regole di incompatibilità e ineleggibilità al fine di garantire la piena autonomia, imparzialità e indipendenza delle decisioni delle fondazioni rispetto sia alla politica che alla banca conferitaria. Quello dell’incompatibilità è un sistema che risponde all’esigenza di assicurare una discontinuità temporale – pari almeno ad un anno – tra il ruolo politico in precedenza ricoperto e la nomina in uno degli organi della fondazione (lo stesso periodo deve intercorrere nell’ambito dei rapporti con la società bancaria conferitaria).
Se si pensa alla realtà delle fondazioni di origine bancaria, requisiti quali l’onorabilità e regole di incompatibilità risultano ancora più importanti: i patrimoni gestiti non sono propri, ma quasi sempre creati da persone che non vi sono più e che non possono più esercitare alcun controllo, come invece può avvenire direttamente nelle fondazioni donative e indirettamente nelle testamentarie (Pinza in Sala G., Meruzzi G. 2016).
I criteri appena descritti, prevedendo uno iato temporale di almeno un anno, hanno l’obiettivo di prevenire il classico fenomeno delle revolving doors, ossia il passaggio immediato da componente di un organo della fondazione a componente di organi della banca conferitaria (e viceversa). In confronto con la Carta delle Fondazioni, essa lasciava decisamente più ampio spazio richiedendo “opportune misure” (Vella 2016).
Il secondo criterio stabilisce le modalità per garantire che le attività delle fondazioni si conformino al principio di trasparenza, attraverso (i) la declinazione in regole puntuali che assicurino adeguata diffusione delle principali decisioni alla collettività di riferimento, (ii) l’obbligo di rendere pubbliche le informazioni sull’attività “in modo chiaro, facilmente accessibile e non equivoco” (art. 11).
Infine, il terzo criterio stabilisce che le fondazioni, nella prospettiva del perseguimento di una gestione basata sull’efficienza e sull’economicità, possano valutare il ricorso a forme di cooperazione e di aggregazione per il perseguimento di obiettivi comuni. Le fondazioni che a causa delle loro ridotte dimensioni patrimoniali non riescono a raggiungere una capacità tecnica, erogativa e operativa adeguata, possono attivare forme di collaborazione per gestire, in comune, attività operative oppure possonoprocedere a fusioni tra Enti (art. 12)81.
81 Per maggiori informazioni si veda anche Ipsoa (2015), Ventesimo rapporto sulle fondazioni di origine bancaria e Clarich M., L’autonomia delle fondazioni di origine bancaria e vigilanza statale dopo il Protocollo d’intesa Acri/Mef in Sala G., Meruzzi G., 2016.
Si tratta anch’essa di un’apertura ispirata alla tendenza legislativa più generale a promuovere forme di cooperazione e di razionalizzazione, ad esempio tra i comuni di dimensione minore. Caprara A. (in Sala G, Meruzzi G., 2016) nell’esporre spunti interpretativi dell’art. 12 del Protocollo, mette in rilievo i possibili benefici derivanti dall’attuazione della cooperazione e aggregazione.
Le fondazioni infatti possono: (i) godere di una maggiore omogeneità di azione e di organizzazione dei diversi patrimoni; (ii) attrarre investimenti delle imprese; (iii) godere di una maggiore flessibilità nell’organizzazione; (iv) essere sintesi efficiente e non mera somma dei fini degli aderenti e dei mezzi da ciascuno di essi predisposti; (v) veicolare con maggior efficacia i valori solidali in soluzioni concrete.
Secondo Caprara A., le fondazioni di origine bancaria – grazie alle intese di cui all’art. 12 del Protocollo – potrebbero superare il modello grant making e sviluppare in maggior misura il modello dell’operating foundation. In questo modo le fondazioni abbandonerebbero la natura di grant e divenendo “poli economico-finanziari destinati alla realizzazione di programmi condivisi e coordinati di utilità sociale” (p. 212).
A distanza di due anni dal Protocollo, le prime due fondazioni a muoversi in tal senso – avviando un percorso di collaborazione – sono la Fondazione C.R. di Cuneo e la Fondazione C.R. di Bra. A fine anno 2017 hanno ammesso di essere al lavoro per creare una commissione congiunta che possa avviare una riflessione all’interno di entrambe le fondazioni, e approfondire i dettagli tecnici necessari per avviare il percorso che potrà portare all’integrazione dei due enti. Questo rappresenta un primo modello sperimentale, “apripista” che – auspicano le fondazioni – potrà “rendere le attività più efficaci e allargare il raggio territoriale d’azione”, al fine di andare nella direzione di una “sempre più incisiva capacità di rispondere alle esigenze delle comunità di riferimento, conciliando la salvaguardia delle identità con le sfide del cambiamento” (Greco F., 2017).
Un’analisi accurata sui contenuti e sull’effettiva applicazione del Protocollo d’intesa Acri-Mef in tema di governance è presente nel seguito del presente elaborato, attraverso l’analisi, confronto e commento degli statuti delle 88 fondazioni di origine bancaria italiane.