3 CAPITOLO TERZO: ADOLESCENZA E ADHD
3.7 Le problematiche di autostima dei ragazzi con ADHD
La psicologa dello sviluppo Harter (1985) si è occupata dello sviluppo dell’autostima durante l’infanzia e l’adolescenza ed ha identificato e descritto tre componenti di ciò che ha definito come “sistema del sé”:
• concetto di sé
• autocontrollo
• autostima.
La capacità di autocontrollo è strettamente collegata all’autostima, poiché il bambino capace di governare le proprie attività ed espressioni emozionali può sentirsi “competente”; un bambino che riesce a rendere il proprio comportamento socialmente
accettabile ed adeguato avrà maggiori probabilità di ricevere approvazione e considerazione positiva dagli altri.
Alcuni studi hanno mostrato che i bambini provvisti di un’alta autostima hanno anche un forte senso di efficacia personale e di controllo (Harter, 1985).
Secondo (Kanfer, 1970) il processo di autocontrollo sembra articolarsi in tre fasi:
• l’automonitoraggio: essere osservatori delle proprie azioni
• l’autova1utazione: sapere se un dato comportamento è o non è accettabile
• l’autorinforzamento: ricompensare se stessi per aver tenuto un comportamento accettabile
I bambini, in età differenti, saranno in grado di eseguire ciascuno di questi compiti in modo più o meno efficace.
Come descritto precedentemente, il bambino con ADHD non riesce a regolare il livello di motivazione, la fiducia nell’impegno e nel suo sforzo: egli sviluppa scarsa opinione di sé ed una bassa autostima in conseguenza alle ripetute esperienze di insuccesso e alla sua difficoltà di valutare i propri risultati in base allo sforzo compiuto. Secondo quanto riporta Vio (in Vio, Marzocchi e Offredi, 1999, pag. 73) “alcuni bambini ADHD hanno un livello
di autostima molto fluttuante: possono dire di essere dei veri campioni in una cosa che riesce loro bene, mentre affermano di essere del tutto incapaci e di non saper fare niente non appena incontrano una difficoltà”
Come già specificato, se le relazioni con i pari sono negative esse possono avere un effetto negativo e duraturo sull’autostima.
3.7.1 L’impotenza appresa
I ragazzi che presentano problemi di autostima, se non vengono adeguatamente supportati, possono sviluppare uno stile di “Learned helpnessless” o impotenza appresa (Cornoldi, 1996).
Questo concetto venne introdotto da Seligman all’inizio del 1965: assieme ai suoi colleghi, egli studiò il rapporto tra la paura e l’apprendimento, attraverso esperimenti di condizionamento classico, il cui scopo era quello di esaminare la condizione in cui i cani non possono evitare la punizione.
Nel corso dell’esperimento, un primo cane viene sottoposto a una serie di scosse evitabili, un secondo a una serie di scosse identiche, ma impossibili da sfuggire e infine un terzo cane viene utilizzato per controllo e non riceve alcuna scossa. Successivamente si utilizza una gabbia divisa in due parti da una barriera bassa, in modo che al momento della scossa il cane può saltare dall’altra parte della gabbia ed evitare la scarica elettrica.
Il primo cane, che ha precedentemente imparato a controllare le scosse, salta la barriera e anche il terzo cane, che non ha subito alcuna scossa nella prima fase, reagisce allo stesso modo. Il secondo cane invece, che ha fatto esperienza dell’inefficacia delle sue reazioni, non fa alcun tentativo di scappare nonostante possa facilmente vedere la bassa barriera che lo separa dalla zona libera da elettricità e miseramente si arrende, rimanendo sdraiato e subendo passivamente le scosse. In tal modo non riuscirà mai a scoprire che le scariche elettriche si sarebbero potute evitare semplicemente saltando la barriera.
La conclusione che scaturisce da questi esperimenti è che solamente gli eventi per i quali non c’è possibilità di fuga causano sottomissione: una volta appresa la fallacia delle proprie azioni la tendenza è quella di rinunciare a reagire. Risulta quindi possibile “apprendere l’impotenza”.
La teoria dell'impotenza appresa è stata poi estesa anche al comportamento umano ed ha fornito un modello per spiegare la depressione, patologia dell'umore caratterizzata da un insieme di sintomi cognitivi, comportamentali, somatici ed affettivi che, nel loro insieme, sono in grado di diminuire in maniera da lieve a grave il tono dell’umore, compromettendo il “funzionamento” di una persona, nonché le sue abilità ad adattarsi alla vita sociale9. Le persone depresse sviluppano questa patologia perché “hanno imparato” a essere impotenti, sanno di non avere alcun controllo sulla loro vita e che ogni loro sforzo è inutile.
Di fronte ad una serie di errori o di fallimenti, il soggetto rischia quindi di sviluppare un sentimento di rassegnazione (Seligman, 1991). Anche in ambito scolastico, la motivazione all’apprendimento diminuirà allora pericolosamente, comportando un calo delle prestazioni che provocherà a sua volta, come in un circolo vizioso, una diminuzione della motivazione all’apprendimento, e così via.
Il lavoro della Dweck (2000) è costituito intorno all’idea che le persone sviluppano delle convinzioni (meaning systems) in base alle quali organizzano il loro mondo e danno significato alle loro esperienze. Secondo il modello dell’impotenza appresa quando il ragazzo sbaglia, la situazione diventa ingestibile e nulla può essere fatto per modificarla.
9 Galeazzi A. e Meazzini P. (2006); Mente e comportamento. Trattato italiano di psicoterapia
Questo modello include tutte le reazioni che gli studenti mostrano quando si imbattono nell’insuccesso tra le quali:
• disprezzo per la propria capacità e intelligenza a causa degli errori commessi
• demotivazione
• incapacità di utilizzare strategie
• stati d’animo negativi
• minor persistenza
• peggioramento della prestazione
I ragazzi che sviluppano questo stile di pensiero rinunciano troppo rapidamente a risolvere il compito, colpevolizzano le proprie incapacità e precipitano in uno stato d’animo depresso e preoccupato, che può ostacolare l’apprendimento di nuove materie scolastiche. La risposta di impotenza è una delle meno adattive, poiché non corrisponde ad una precisa valutazione della situazione, ma è una reazione all’insuccesso che comporta implicazioni negative per il sé e indebolisce la capacità degli studenti di utilizzare le proprie capacità in modo efficace (Dweck e Legget, 1988).
Al contrario, il modello definito “di padronanza” è caratterizzato da una risposta fortemente motivata davanti all’insuccesso: in questo caso gli studenti rimangono concentrati sul proprio compito e si sforzano di padroneggiare la situazione nonostante le difficoltà.
I ragazzi con ADHD possono essere aiutati strutturando ed organizzando l’ambiente in cui vivono. Innanzitutto, genitori e insegnanti devono essere dei buoni osservatori, devono imparare ad analizzare ciò che accade intorno al bambino prima, durante e dopo il comportamento inadeguato o disturbante e a rendere comprensibili le conseguenze delle sue azioni e permettere al bambino iperattivo di ampliare il proprio repertorio interno di informazioni, regole e motivazioni.
Per aiutare un bambino con ADHD genitori ed insegnanti dovrebbero acquisire le seguenti abilità (Linee Guida, 2002):
• potenziare il numero di interazioni positive col bambino
• dispensare rinforzi sociali o materiali in risposta a comportamenti positivi
• aumentare la collaborazione dei figli usando comandi più diretti, precisi e semplici
• prendere provvedimenti coerenti e costanti per i comportamenti inappropriati Si tratta di insegnare ai bambini modalità di organizzazione e pianificazione, non solo per contenere il loro comportamento, ma per offrire loro strategie diverse di autocontrollo e per correggere alcune modalità relazionali disfunzionali che spesso si sono consolidate fra adulto e bambino.