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Il ruolo della famiglia nel trattamento

Nel documento UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TRIESTE (pagine 45-48)

2 CAPITOLO SECONDO: COME SI INTERVIENE NELL’ADHD

2.2 Il ruolo della famiglia nel trattamento

È stato più volte fatto cenno all’importanza della famiglia per quanto concerne il contesto educativo e relazionale nel quale vive il ragazzo con ADHD. Bisogna sottolineare che la famiglia non è necessariamente una famiglia con problemi psicopatologici e con disordini gravi e che non è vero che i genitori sono incapaci di utilizzare strategie educative adeguate per quel tipo particolare di ragazzo. È importante quindi che la famiglia non venga colpevolizzata, ma che sia, al contrario, costantemente coinvolta e sollecitata a collaborare per promuovere dei miglioramenti nel figlio.

Spesso i genitori attribuiscono genericamente ai problemi del figlio quelle caratteristiche comportamentali che sfuggono al loro controllo: possono vedere il figlio come portatore di un problema su cui loro non hanno alcun potere sul piano educativo: “è fatto così”; “assomiglia a...”. Talvolta, al contrario, non riescono ad intravedere nel figlio caratteristiche specifiche del problema e si addossano la colpa dell’insuccesso educativo come unica causa. Spesso il genitore non ha aspettative: egli non crede che il bambino potrebbe comportarsi adeguatamente e in modo diverso e sottolinea ostinatamente una serie di cattive condotte, sempre le stesse, ignorando altri aspetti positivi del ragazzo che possono diventare invece un punto di forza per creare un rapporto più sereno, non caratterizzato da continui rimproveri che instaurano circoli viziosi. Avere la collaborazione dei genitori, attraverso un attento e misurato coinvolgimento, si dimostrerà di estremo vantaggio quando sarà necessario che il ragazzo trovi un adeguato supporto e

incoraggiamento nell’applicazione pratica delle regole di autocontrollo nella vita quotidiana. Talvolta i genitori vivono con un senso di impotenza la loro incapacità di controllo sul comportamento del figlio e per questo motivo sarà necessario:

• rivedere le attribuzioni dei genitori relative alle cause del problema del figlio;

• formare i genitori nella gestione del figlio per aiutarlo a governare e risolvere le sue difficoltà;

• aiutarli a ottenere collaborazione da parte del figlio.

2.2.1 Il Parent training

Il Parent training, trattamento introdotto in maniera sistematica da Hanf (1969), è un intervento basato sulla modificazione del comportamento dei genitori di bambini non cooperativi, oppositivi e aggressivi (Vio, Marzocchi, Offredi, 1999). Il percorso terapeutico prevede, inizialmente, la sensibilizzazione dei genitori verso i comportamenti positivi del figlio ignorando quelli lievemente disturbanti e secondariamente l'introduzione dell’uso del “Time out” una tecnica punitiva per ridurre i comportamenti inappropriati4

. Il Parent training si fonda sulla teoria dell’apprendimento sociale ed è stato sviluppato per aiutare i genitori ad acquisire un ruolo attivo nell’organizzazione della vita sociale del bambino e a facilitare l’accordo fra adulti nell’ambiente in cui il bambino vive. Ai genitori viene insegnato a dare chiare istruzioni, a rinforzare positivamente i comportamenti accettabili, a ignorare alcuni comportamenti problematici e a utilizzare in modo efficace le punizioni. Il problema del bambino viene quindi considerato in un’ottica relazionale e anche il genitore diviene parte integrante dell’intervento.

Uno dei più diffusi modelli di Parent training è quello sviluppato da Barkley (1987), che prevede un percorso di 9-12 incontri settimanali da attuarsi con un gruppo di genitori di bambini con ADHD ed un terapista specificamente formato. Il programma delle sessioni è focalizzato al miglioramento della comprensione da parte dei genitori delle caratteristiche del bambino con ADHD e nell’insegnamento di abilità che permettano di gestire e migliorare le difficoltà che tali caratteristiche comportano; nell’ambito di tale training

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La tecnica è efficace per interrompere la sequenza di comportamenti inadeguati: il bambino viene fatto sedere su una sedia per alcuni minuti, senza che egli si impegni in alcuna attività. Al termine del tempo stabilito viene riformulata la richiesta alla quale il bambino non ubbidiva; se viene eseguita il comportamento viene rinforzato, altrimenti si ricomincia la procedura (Vio, 1999, pag 127).

vengono pianificate inoltre anche le attività di mantenimento dei risultati acquisiti di prevenzione delle ricadute (Barkley, 1998; Pelham, 1992; Vio, Marzocchi e Offredi, 1999). Gli obiettivi del Parent training sono:

• fornire informazioni relative alle caratteristiche del disturbo e al programma per i genitori;

• favorire la comprensione delle modalità di interazione genitore-bambino;

• insegnare al genitore a stare con il bambino in modo non direttivo;

• insegnare a prestare attenzione ai comportamenti positivi in particolare quando viene manifestata autonomia e collaborazione;

• concordare con il bambino un sistema di rinforzo a punti;

• utilizzare il "costo della risposta" e di "Time out";

• generalizzare l’uso del "Time out" ad altri comportamenti negativi;

• gestire il comportamento del bambino nei luoghi pubblici;

• prevedere probabili e future difficoltà comportamentali;

• mettere in atto un richiamo e un ripasso delle tecniche apprese.

Questo tipo di programma formativo è applicabile sia con un gruppo che con singole coppie di genitori. Si può affermare che gli incontri individualizzati permettono una più rigorosa applicazione delle tecniche educative ed una maggiore puntualità nella valutazione delle reazioni della famiglia alle proposte contenute nel training, ma gli incontri di gruppo si rivelano più efficaci nell’alleviare il senso di frustrazione e di isolamento che spesso vivono i genitori di bambini con difficoltà comportamentali. Tra i vantaggi offerti dall’intervento collettivo vi è la possibilità di confronto di situazioni e di tecniche da utilizzare. In letteratura viene inoltre consigliata la presenza al training di entrambi i genitori (Vio, 1999).

Kendall e Braswell (1993) sottolineano la necessità che i genitori comprendano gli scopi dell’intervento terapeutico e maturino delle aspettative adeguate rispetto ai risultati che il loro figlio può raggiungere. Solo se essi condividono la loro rappresentazione del problema sarà possibile trovare le strategie adeguate, per apportare significativi cambiamenti alla rappresentazione stessa e al comportamento del genitore rispetto al figlio. All’interno della loro ricerca Kendall e Braswell (1993) evidenziano il fatto che l’influenza

dei genitori diminuisce con l’età del figlio. Da uno studio condotto da Barkley (2004) risulta che nei bambini al di sotto degli 11 anni vi è un miglioramento nel 65-75 % dei casi, mentre per gli adolescenti questa percentuale scende a 25-30%.

L’operatore, che deve stabilire con i genitori un’alleanza terapeutica, dovrebbe possedere delle buone conoscenze empiriche e abilità interpersonali, utilizzare un linguaggio semplice e facilmente comprensibile dalla famiglia e trasmettere il messaggio che l’intervento è un potente aiuto se attuato con la collaborazione di tutti. Il contributo di ognuno permetterà di aumentarne i benefici, aiuterà a sostenere la fatica, potrà essere utilizzato e in seguito generalizzato per ogni situazione problematica della vita quotidiana del ragazzo.

Se da un lato questo tipo di intervento può risultare estremamente rigido e complesso, dall’altro è necessario sottolineare che l’apprendimento e il cambiamento non sono processi facili, diretti e di semplice attivazione e che solamente l’impegno e la costanza potranno condurre a dei cambiamenti significativi e duraturi.

Nel documento UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TRIESTE (pagine 45-48)