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5. LA STRATEGIA TERAPEUTICA OPTOGENETICA

5.1 LE TECNICHE OPTOGENETICHE

Questa tecnica nasce all’inizio del XXI secolo dall’indagine di alcuni meccanismi eziologici alla base di patologie retiniche come la retinite pigmentosa e la maculopatia degenerativa senile, legate alla progressiva perdita dei fotorecettori (le cellule che trasformano lo stimolo luminoso in segnale elettrico); in queste patologie, le altre cellule nervose retiniche sono invece sane e la funzionalità del nervo ottico è in genere preservata. L’optogenetica è stata usata e si è dimostrata efficace in modelli animali di retinite pigmentosa in cui il transgene per la canalrodopsina-2 (ChR2, ChannelRhodopsin-2: canale ionico con azione depolarizzante che si attiva aprendosi in risposta alla luce blu) è stato introdotto nel genoma delle cellule gangliari retiniche ripristinandone la sensibilità alla luce blu. Sostanzialmente, quindi, l’espressione di una rodopsina come ChR2 in un neurone consente di sfruttare uno stimolo luminoso a cui questo è sensibile per trasformarlo in un segnale elettrico. Proprio ChR2 è una delle opsine ingegnerizzate (proteine di membrana derivanti da opsine naturali sensibili alla luce che traslocano ioni attraverso la membrana plasmatica in risposta alla stimolazione luminosa a specifiche lunghezze d'onda) più comunemente utilizzate come sonde optogenetiche (Carter and Lecea, 2011). In generale, queste si possono classificare in tre diverse tipologie (Figura 17):

- Sonde depolarizzanti

Il principale esempio di questa categoria à Channelrhodopsin-2 (ChR2), canale cationico non specifico naturalmente prodotto dall'alga verde Chlamydomonas Reinhardtii; ChR2 assorbe la luce blu (picco di assorbimento di 480 nm), e questo induce un cambiamento conformazionale dal complesso cromoforo trans-retinale a 13-cis-retinale; ciò provoca un successivo cambiamento conformazionale nella proteina transmembrana opsinica, che si apre e permette la diffusione passiva all’interno della cellula di ioni H+, Na+, K+ e Ca2+ attraverso la membrana. Il fatto che il 13-cis-retinale ritorni alla forma trans entro pochi millisecondi, chiudendo il poro e bloccando il flusso di ioni in ambiente intracellulare, fa sì che questo canale si presti ad essere impiegato come sonda (i potenziali di azione possono essere generati con un breve impulso di luce blu, senza effetti residui di stimolazione prolungati). Inoltre, ChR2 è fisiologicamente codificata, perciò non dovrà esserne inserito il gene all’interno del genoma cellulare. In seguito alla caratterizzazione di ChR2 come sonda neurobiologica, sono state adottate altre strategie per espandere le

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proprietà delle sonde optogenetiche. Una strategia ricerca i genomi di organismi microbici che presentano proteine regolate dalla luce. Da questo approccio è stata scoperta Volvox Channelrhodopsin-1 (VChR1), derivante dall'alga verde multicellulare Volvox carteri, la quale assorbe luce con una lunghezza d'onda di 535 nm (fotostimolazione dei neuroni con luce gialla). VChR1 penetra più in profondità nel tessuto neurale e può essere usato in combinazione con ChR2 per stimolare separatamente ma simultaneamente due popolazioni neurali nello stesso animale. Un'altra strategia consiste invece nella modificazione genetica. Ad esempio, in alcuni esperimenti si stimolano i neuroni per lunghi periodi di tempo (da secondi a minuti) senza un'illuminazione che sia costante, e questo può provocare un riscaldamento cerebrale indesiderato. Convertendo la Cys128 della ChR2 in Thr, Ala o Ser, sono state ottenute tre opsine che, in risposta ad un singolo breve impulso di luce blu, causano una variazione stabile del potenziale di membrana fino a 30-60 secondi prima che il canale si chiuda, mentre un singolo impulso di luce gialla chiude immediatamente il canale. Attraverso altre mutazioni del ChR2 è possibile poi migliorare i limiti temporali propri del canale: la combinazione chimerica di ChR2 e ChR1 (un altro canale di C. reinhardtii), definita ChEF, subisce solo il 33% di inattivazione durante la stimolazione della luce blu persistente rispetto alla ChR2 (77%); l'ulteriore mutazione di ChEF, ossia il canale ChIEF, accelera la velocità di chiusura del canale pur mantenendo un'attivazione ridotta (che produce risposte più intense quando stimolata sopra i 25 Hz). Infine, il canale ChETA, un’altra mutazione di ChR2 in cui Glu123 viene sostituito da Thr, riduce sensibilmente i picchi aggiuntivi in risposta alla luce blu. Attualmente, solo il ChR2 è stato utilizzato in vivo, ma le future indagini utilizzeranno la più ampia varietà di sonde optogenetiche disponibili. Inoltre, la scoperta di ulteriori canali cationici attivati dalla luce e le tecniche di ingegneria genetica su varianti di canali noti, con alterate proprietà cinetiche, amplierà la possibilità di sviluppare sonde optogenetiche che possono influenzare con precisione la depolarizzazione della membrana in risposta a varie frequenze, lunghezze d'onda, e intensità luminose.

- Sonde iperpolarizzanti

La prima opsina microbica dotata di attività inibitoria neurale ad essere individuata è stata la Alorodopsina (NpHR), naturalmente espressa dall’ alobatterio

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Natronomonas Pharaonis. NpHR pompa attivamente ioni Cl- nelle cellule in risposta alla luce gialla (assorbimento di picco a 570 nm). Come la ChR2, NpHR sfrutta come cromoforo il trans-retinale e quindi può essere utilizzato in sistemi di vertebrati senza cofattori esogeni. A differenza di ChR2, è però necessario un processo di mutagenesi per raggiungere sufficienti livelli di espressione nel neurone; modificando la sequenza del peptide segnale e aggiungendone una di esportazione del reticolo endoplasmatico, è stata ottenuta una seconda generazione di NpHR, Enhanced Halorhodopsin (eNpHR), che ha migliorato il trafficking di membrana. Con una terza generazione di sonde iperpolarizzanti (eNpHR3.0) si è duplicato il potere iperpolarizzante della membrana rispetto a eNpHR aggiungendo sequenze di trafficking di membrana.

Sono state inoltre scoperte delle proteine derivanti da batteriorodopsine che si sono dimostrate essere in grado di inibire l'attività neurale in risposta alla luce (Chow BY, et al, 2010): queste proteine funzionano come pompe protoniche a luce controllata. La pompa protonica Archaerhodopsin-3 (aR-3 o "Arch"), espressa da Halorubrum Sodomense, consente un silenziamento quasi totale dei neuroni in vivo in risposta alla luce gialla/verde (530-590 nm), con efficienza paragonabile a eNpHR3.0. Altre due rodopsine batteriche, la proteina Mac di Leptosphaeria maculans e la Bacteriorodopsina (BR) di Halobacterium salinarum insieme al suo derivato potenziato di seconda generazione, eBR, consentono di ridurre al minimo l’attività neuronale in risposta alla luce blu-verde.

Anche in questo caso, quindi, gli strumenti optogenetici iperpolarizzanti presentano due possibili spettri (sia lo spettro luminoso blu-verde e sia quello giallo), e questo permette la dissezione combinatoria di due sottotipi neurali simultaneamente. - Sonde che modulano la segnalazione intracellulare

Un’altra possibilità fornita dalle sonde optogenetiche è la modulazione del neurone attraverso i processi di segnalazione intracellulare innescati dai recettori di membrana; in questo caso sono coinvolte non solo le variazioni dell'attività elettrica neuronale, ma anche l’espressione genica, la plasticità sinaptica e le cascate biochimiche a valle. Poiché le rodopsine appartengono alla famiglia dei recettori accoppiati a proteine G (GPCR), è possibile progettare chimere sintetiche rodopsina/GPCR che combinino gli elementi reattivi alla luce della rodopsina con

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una specifica funzione di segnalazione biochimica del GPCR; la prima sviluppata, definita Opto-XR, ha introdotto la sensibilità alla luce blu al recettore 𝛼1-adrenergico

accoppiato a proteina Gq e al recettore 𝛽2-adrenergico accoppiato a proteina Gs. Questa stessa strategia è stata applicata anche per sviluppare un Opto-XR che controllasse la segnalazione serotoninergica attraverso il recettore 5𝐻𝑇1𝐴, e sono in corso di studio altre proteine chimeriche che consentano il controllo selettivo di altri pathway di segnalazione GPCR.

Figura 17

Rappresentazione schematica delle famiglie di strumenti optogenetici e chemiogenetici attualmente utilizzati nei BG.

A: lunghezze d'onda di attivazione (nm), ioni trasportati e vie di segnalazione sono indicate per la depolarizzazione di channelrhodopsin-2 (ChR2) e C1V1, per l’iperpolarizzazione di alorodopsina (NpHR) e archaerodopsina (ArchT) e per l’alterazione del pathway del segnale interno [Opto-XRs, rodopsina accoppiata a proteine G di recettori GPCR chimerici […]. Da “Viral vector-based tools advance knowledge of basal ganglia anatomy and physiology” Rachel J. Sizemore, Sonja Seeger-Armbruster, Stephanie M. Hughes, and X Louise C. Parr-Brownlie

Dal punto di vista strutturale, le microsonde optogenetiche presentano una particolare conformazione tubulare di fibra ottica [filamenti di materiali vetrosi o polimerici, realizzati in modo da poter condurre al loro interno la luce (propagazione guidata)] o dotata di un LED terminale, con l’estremità di forma conica, di dimensioni di 500 nm (circa venti volte più piccola di una cellula neuronale) e che emette luce ad una determinata lunghezza d’onda. Questa struttura è stata progettata per fare in modo che la sonda sia una guida ottica in grado di adattare il fascio di luce alla regione cerebrale di interesse senza che il dispositivo venga spostato, grazie alla sua grande flessibilità.

La sonda optogenetica viene direttamente montata al cranio e consente così di “illuminare” determinate aree cerebrali con lunghezza d’onda specifica, in modo alternato, secondo direzioni prestabilite e con tempi e frequenza variabili. In questo modo è possibile analizzare in vivo la trasmissione elettrica tra specifici microcircuiti neuronali, caratterizzando la

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relazione tra l’attività elettro-chimica neuronale e il comportamento nei modelli animali. La precisione spaziale e temporale senza precedenti di questi strumenti ha permesso progressi sostanziali nel chiarire la struttura e la funzione di circuiti neurali precedentemente sconosciuti.

Il mezzo con cui comunemente avviene l’introduzione del gene dell’opsina microbica è rappresentato dai vettori virali recanti il transgene di interesse, soprattutto virus adeno- associati e, meno frequentemente, lentivirus. La procedura consiste generalmente nella trasfezione della cellula neuronale con all'interno l'elemento genetico somministrato per via virale e in cui è stata inserita una specifica sequenza di promotori; il principale limite di questo metodo è che il promotore non deve superare determinate dimensioni in modo da essere contenuto all'interno del genoma virale. In alternativa, il gene somministrato per via virale può essere espresso in presenza una ricombinasi, cioè un enzima in grado di regolare la ricombinazione genetica; la ricombinasi più comunemente utilizzata è la Cre (Figura 18), una topoisomerasi di tipo I proveniente dal batteriofago P1, ma è possibile anche sfruttarne diverse, come la Flp e la RecA (Rossi et al. 2015).

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Strategia per l'espressione Cre-dipendente di opsine. L'esempio mostrato utilizza la strategia della cornice di lettura

aperta invertita a doppio flox. Il virus di codifica per la opsina può essere iniettato in un topo transgenico che esprime Cre- ricombinasi in un sottogruppo di cellule molecolarmente definito. In presenza di Cre-ricombinasi, la regione di codifica dell’opsina è invertita, consentendo la traduzione in proteine funzionali all'interno di queste cellule. PR, promotore onnipresente. Da “Spotlight on Movement Disorders: What optogenetics has to offer” Mark A. Rossi, Nicole Calakos, and Henry H. Yin

Esistono poi altre strategie che non prevedono la trasfezione cellulare con vettori virali (Carter and Lecea, 2011). Ad esempio, i costrutti optogenetici possono essere utilizzati direttamente in topi generati con tecnologie transgeniche; oppure può essere sfruttata l’elettroporazione uterina (dove l’elettroporazione è una repentina scarica elettrica, operata in un cuvetta contenente molecole di DNA o altre molecole in sospensione liquida, che apre la membrana plasmatica cellulare in numerosi punti, permettendo alle molecole di penetrare) per introdurre transgeni optogenetici per un’opsina secondo specifici tempi di sviluppo nei neuroni inibitori striatali e ippocampali; infine, è possibile specificare l'espressione dei transgeni optogenetici utilizzando il targeting cellulare anatomico. Nel loro insieme, queste tecniche di targeting genico virale, transgenico, fisico e anatomico offrono molteplici possibilità per mettere a punto sonde optogenetiche adatte a specifiche popolazioni neurali. Una volta individuata la strategia di targeting cellulare più opportuna, è necessario stabilire le modalità con cui la luce dovrà essere fornita. L'erogazione della luce in vitro (a neuroni in coltura o fettine di cervello) prevede l’impiego di sorgenti luminose convenzionali come le lampade alogene o allo xeno, diodi emettitori di luce (LED) e laser. L'erogazione della luce in vivo è invece resa difficoltosa dalla necessità di operare stereotassicamente in posizione adiacente alle regioni bersaglio in seguito a craniotomia; la luce deve essere fornita il più vicino possibile alle aree cerebrali target (poiché l’opacità del tessuto cerebrale diffonde la luce in maniera esponenziale: nell’arco di 500 μm dalla sorgente luminosa, solo il 10% dell’intensità fornita è mantenuto). Inoltre, i sistemi di emissione della luce non devono essere eccessivamente ingombranti e pesanti per consentire all’animale di muoversi e comportarsi normalmente. Un altro limite rilevante è rappresentato dal fatto che l’impianto della sonda provoca una reazione infiammatoria nel sito in cui il corpo estraneo è posizionato, con accumulo di cellule gliali. Attualmente, il metodo più comune per fornire luce in vivo è impiantare una cannula guida per il posizionamento di un leggero cavo in fibra ottica (Figura 19a). I topi possono tollerare fibre con diametro fino a 300 μm e i ratti fino a 400 μm. Per evitare il rischio di rottura della fibra durante i ripetuti inserimenti nella cannula

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guida e per limitare il rischio di infezioni (dovute all’esposizione ambientale della cannula), un segmento di fibre corte è impiantato permanentemente al sito bersaglio ed è collegato tramite un opportuno connettore ad una fibra più lunga accoppiata ad un laser. Le fibre ottiche sono generalmente collegate ad una fonte luminosa esterna, che può essere un LED o, più spesso, ad un laser a diodo. La luce può anche essere erogata utilizzando sorgenti luminose generate localmente, come la luminopsina (Berglund et al. 2013) o un diodo impiantabile su microscala (Kim TI et al. 2013).

Per la modulazione ottica dei neuroni corticali superficiali, piccoli LED possono essere montati sopra il cervello sopra una finestra di vetro cranica (Figura 19b) per fornire luce a tutte le regioni corticali.

Figura 19

Strategie per fornire luce ai neuroni trasdotti in vivo. (a) Una cannula guida viene impiantata stereotassicamente in una

regione bersaglio per il successivo posizionamento di una fibra ottica. La fibra è collegata a un diodo laser, che può essere collegato a un computer oppure a un generatore di impulsi per protocolli di stimolazione automatica. (b) Una finestra ottica viene impiantata stereotassicamente in una regione bersaglio. Un diodo ad emissione luminosa (LED) viene posizionato sopra la finestra per illuminare i neuroni di superficie ed è collegato a un computer per i protocolli di stimolazione automatica. Da “Optogenetic investigation of neural circuits in vivo. Matthew E. Carter and Luis de Lecea”

La lettura dei dati provenienti da queste indagini avviene con tecniche compatibili con il metodo optogenetico. Quella che monitora più efficacemente e con maggiore risoluzione temporale l'attività elettrica di grandi popolazioni di neuroni, ex vivo e in vivo, è l'imaging VSD (Voltage Sensitive Dye o del colorante sensibile al voltaggio): i VSD sono molecole lipofile le cui proprietà di assorbimento o emissione ottica dipendono dal potenziale elettrico di membrana. L'imaging VSD permette di misurare variazioni dell'attività elettrica nei neuroni sulla scala temporale del millisecondo. Una seconda strategia di lettura consiste nel

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controllo in vivo di parametri elettrici e comportamentali secondo precisi protocolli sperimentali (Zhang et al. 2010).

Il più comune tipo di esperimento optogenetico condotto per studiare i circuiti neuronali consiste nella trasduzione di una popolazione di neuroni con un transgene optogenetico e nella successiva osservazione dell'effetto (stimolazione o inibizione cellulare diretta) sul comportamento animale o sull'attività neurale in una regione cerebrale a valle. Spesso, comunque, è possibile stimolare non il soma delle cellule trasfettate con il transgene optogenetico ma le loro proiezioni distali, per poi valutare l’attività post-sinaptica dei neuroni a valle; questa strategia di stimolazione delle fibre piuttosto che del soma si rivela utile nel determinare se gli effetti comportamentali dovuti alla stimolazione di una specifica popolazione di neuroni sono mediati da specifiche connessioni sinaptiche con un’altra popolazione a valle (ad esempio, uno studio recente ha evidenziato che la stimolazione di entrambi i motoneuroni dello strato V della corteccia motoria o delle loro proiezioni afferenti al nucleo subtalamico è sufficiente per alleviare i sintomi della malattia di Parkinson). Inoltre, nel caso in cui due diverse tipologie neurali proiettano sulla stessa area, è possibile selezionare il loro ruolo funzionale a livello comportamentale e anatomico trasfettando ciascuna con ChR2 o VChR1 ed utilizzando la tecnica dell’optogenetica combinatoria (poiché le due sonde optogenetiche sono attivate da diverse lunghezze d'onda della luce). È infine possibile indagare se l’attività di una popolazione di neuroni influenzi quella di un'altra popolazione neurale; ad esempio, se una tipologia di neuroni induce un determinato comportamento proiettando verso una regione a valle, potrebbe essere possibile trasdurre i neuroni di interesse con ChR2 e la regione a valle con eNpHR: la tecnica optogenetica potrebbe stimolare una regione e contemporaneamente inibire l'altra.

La grande eterogeneità delle strategie optogenetiche, grazie alle ricerche condotte negli ultimi anni, ha consentito l’estensione della loro applicazione anche a diversi trattamenti terapeutici, dalle lesioni del midollo spinale fino a malattie neurodegenerative e neurologiche. I dati disponibili sono attualmente limitati a modelli animali, ma sono comunque molto promettenti. La futura applicazione sull’uomo di queste stesse tecniche dipenderà dalla possibilità di introdurre in sicurezza transgeni nelle cellule somatiche umane e dallo sviluppo di fonti luminose che possano essere impiantate in modo non invasivo.

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