• Non ci sono risultati.

La legge ostacola gli istituti professionali per l'industria

Nel documento Cronache Economiche. N.331, Luglio 1970 (pagine 35-40)

Pietro Merlonghi

E largamente noto, anche al di fuori degli ambienti della scuola, come gli Istituti profes-sionali, operanti ormai da oltre un ventennio, manchino ancora della cosiddetta legge istituti-va, da tempo invocata a gran voce da quanti in essa vedono il mezzo per dare inizio al risana-mento di una situazione che — specialmente per gli istituti ad indirizzo industriale — si va facendo, di anno in anno, più difficile per 10 scarso afflusso di allievi e più intricata per 11 sorgere di sempre nuove difficoltà organiz-zative e tecnico-didattiche.

Su quella che è stata chiamata « la crisi » degli Istituti professionali fiumi di parole e di inchiostro sono corsi, le possibili cause ripetu-tamente analizzate e molti rimedi proposti; non sarebbe quindi il caso di ritornare sull'ar-gomento.

Ci sembra però che il recente Convegno nazionale di studi sulla formazione e la matu-rità professionale tenutosi a Venezia lo scorso mese di aprile a cura di quel Consorzio provin-ciale per l'istruzione tecnica, abbia tra l'altro, il merito di avere esaminata la situazione sotto una visuale del t u t t o nuova, quella delle respon-sabilità del potere politico, responrespon-sabilità che deriva sia da mancati interventi sia da inter-venti non appropriati.

I politici, fors'anche perché costretti ad operare sotto lo stimolo dell'urgenza posta dal sorgere di situazioni non previste, hanno adot-tato una serie di provvedimenti legislativi i quali ingenerano il fondato dubbio che nel corso della loro elaborazione sia stata persa di vista la ragione fondamentale per la quale la scuola vive ed opera: educare i giovani e — nel nostro caso — preparare ad una attività di lavoro qualificato.

Per trovare conferma a tale dubbio è suffi-ciente considerare l'influenza decisamente nega-tiva che taluni di quei provvedimenti h a n n o esercitato ed esercitano t u t t o r a sull'efficienza degli Istituti professionali, s o p r a t t u t t o su quelli ad indirizzo industriale.

È certo che elementi fondamentali di tale efficienza sono la formazione ed il manteni-mento di un adeguato corpo docente; agli Isti-tuti professionali per l'industria interessa, sopra ogni altra cosa, assicurarsi I T P molto prepa-rati e perfettamente padroni della tecnologia e della pratica delle lavorazioni, in quanto ad essi incombe un compito estremamente difficile, che non consiste solo nello svolgimento delle esercitazioni pratiche, ma anche nel coordina-mento di tale pratica con la teoria (tecnologia, disegno, matematica), il che fa di loro l'elemento base per la formazione di quell'esecutore intel-ligente di cui l'industria ha bisogno.

Sotto il profilo del personale insegnante, t u t t a la scuola italiana è considerata carente; ma la scarsa preparazione degli I T P assume particolare evidenza sia a causa delle caratte-ristiche peculiari degli insegnamenti fra loro affidati, sia per la immediatezza del giudizio che il mondo del lavoro può dare sui giovani provenienti dagli Istituti professionali.

Il problema, t u t t ' a l t r o che nuovo, è stato agitato più volte e avrebbe dovuto stimolare il legislatore a predisporre un mezzo atto ad accertare la capacità di questa categoria di insegnanti prima di immetterli nell'insegna-mento.

È invece a t u t t i ben noto che, per il confe-rimento degli incarichi agli I T P non di ruolo (cioè a quasi tutti), la legge (1) considera il possesso del diploma di perito come condizione necessaria e sufficiente a garantirne l'idoneità all'insegnamento, il che non risponde alla realtà dei fatti, visto che nei programmi mini-steriali degli Istituti tecnici industriali (2) si specifica: « Le esercitazioni nei reparti di lavo-razione hanno lo scopo essenziale di applicare ed integrare dal punto di vista sperimentale quanto è insegnato nel corso di tecnologia e

(1) V. Legge 15-2-64, n. 354.

(2) La parte fra virgolette è relativa al perito metal-meccanico.

pertanto gli alunni, più che acquistare una effettiva capacità esecutiva qualificata, devono raggiungere un adeguato grado di esperienza nelle lavorazioni e soprattutto nell'applicazione dei principi scientifici, nella critica delle lavo-razioni di lavoro e nel controllo dei risultati ».

Se la capacità esecutiva qualificata è so-stanzialmente estranea alla preparazione del perito, è pacifico che egli non può insegnarla e farla acquisire all'allievo dell'Istituto profes-sionale.

Il miglior maestro del mondo difficilmente riesce a trasferire al discepolo t u t t o il suo sapere e se poi il maestro non conosce la materia og-getto d'insegnamento, c'è da chiedersi che cosa imparerà l'allievo. Date queste premesse, ri-mane difficife comprendere come possano essere profìcuamente impiegate le 1600-1650 ore di officina che in realtà gli orari assegnano alle esercitazioni pratiche negli Istituti professionali.

È ormai provato che questo criterio di recluta mento degli I T P ha dato risultati nega-tivi, ma vi si insiste; di anno in anno l'appli-cazione della norma si fa più rigida ed i presidi, volenti o nolenti, debbono fare le loro scelte tra i periti, anche se hanno a disposizione per-sone particolarmente idonee sotto il profilo

professionale. Sono ben note le acrobazie alle quali essi devono ricorrere per conservarsi quello sparuto nucleo di esperti, senza i quali si bloccherebbe il funzionamento di interi istituti.

Ai danni provocati da tale norma non c'è via di scampo: i Consigli di amministrazione, ai quali compete di formulare i requisiti ri-chiesti agli aspiranti I T P , sono costretti a dar valore al pezzo di carta, pur sapendone il valore nullo.

L'esecuzione di una prova pratica è vietata e chi volesse imporla commetterebbe un abuso.

In tal modo gli Istituti professionali ogni anno si arricchiscono — per cosi dire — di personale destinato ad insegnare una materia che non ha imparato né a scuola né — salvo eccezioni — successivamente; per di più le nomine a tempo indeterminato, portano alla conseguenza della pratica inamovibilità anche

nei casi di rendimento o capacità minimi. Questo traballante sistema, già di per sé produttivo di conseguenze negative, ha rice-v u t o il colpo di grazia con l'immissione tout court degli I T P delle cessate scuole di

avvia-mento negli Istituti professionali, provvedi-mento che sta all'origine di una serie di reazioni a catena che, nel loro insieme, hanno portato all'allontanamento dagli Istituti professionali di molti I T P idonei all'insegnamento ed alla loro sostituzione con altri generalmente non all'altezza di tale compito.

Gli I T P dell'avviamento, abituati a trattare con bambini dai 10 al 13 anni, a semplicissime esercitazioni di falegnameria, di aggiustaggio al banco, o similari, non usi all'impiego di macchine, hanno trovato nei professionali un mondo nuovo, allievi dal carattere e dalla personalità già formata, impegno di esercitazioni di ben altro livello e contenuto, da eseguire con il rispetto di precise norme tecniche, con la necessità di impiegare macchine ed attrez-zature che — nella migliore delle ipotesi — non toccavano da anni, o che addirittura non cono-scevano affatto per essere periti chimici, edili, minerari e persino agrari.

A rendere ancora più difficile la vita dei capi d'istituto sotto il profilo organizzativo-didat-tico è intervenuta la legge n. 1122 che, limi-tando a 18 ore settimanali l'orario degli ITP, « compreso il tempo di preparazione e della cura delle attrezzature » (formula di compro-messo), in pratica ha esonerato gli I T P di occu-parsi di tale pur importantissimo aspetto della loro attività.

Da t u t t o questo gli Istituti non sono eerto usciti rafforzati e molti ne risentono — e ne risentiranno a lungo — le conseguenze; situa-zione probabilmente non estranea al calo del numero degli iscritti, iniziatosi proprio in quel tempo.

È ovvio che, di fronte all'urgenza di siste-mare oltre 16.000 tra I T P ed altri insegnanti avendo a disposizione poco più di 12.000 posti, era pur necessario e doveroso fare qualcosa, ma quello che stupisce, leggendo gli atti parla-mentari relativi ai provvedimenti di cui sopra, è il fatto che mai nessuno dei politici interessati di fronte a questo massiccio trasferimento di personale dell'avviamento agli Istituti pro-fessionali abbia mai sollevato il dubbio sul-l'idoneità degli interessati ai nuovi compiti e sui possibili contraccolpi sulla funzionalità degli Istituti stessi.

Questo non può che significare due cose: o gli scopi, i programmi, i livelli ed i contenuti della formazione degli Istituti professionali indu-striali non erano conosciuti dai parlamentari, oppure sono stati deliberatamente ignorati per dare precedenza assoluta all'aspetto sindacale ed u m a n o del problema, senza tener conto che la capacità educativa della scuola è un bene di tale inestimabile valore da dovere essere gelosamente tutelato e conservato ad ogni costo.

E, nella fattispecie, il costo non sarebbe stato molto elevato e non avrebbe sacrificato nessuno; la Confederazione dell'industria aveva proposto — prima ancora che i trasferimenti avessero luogo in forma massiccia — l'orga-nizzazione di corsi di aggiornamento; l'Unione

industriale di Torino aveva messo a disposi-zione attrezzature e personale della Scuola Camerana, mentre l'Assolombarda era pronta ad inviare alcune équipes nell'Italia centro-me-ridionale per facilitare l'organizzazione dei corsi i quali, malgrado l'insistenza delle organizza-zioni industriali — non nel chiedere, ma nel-l'offrire —-, hanno potuto avere inizio solo due anni più tardi a danno ormai fatto.

L'ottima riuscita dei corsi, testimoniata so-prattutto dai partecipanti, era servita all'in-dustria torinese per proporre al Ministero della pubblica istruzione la creazione di un Magi-stero professionale per gli I T P del settore meccanico, iniziativa rimasta politicamente sen-za successo; anzi, in uno dei tanti mutamenti di Governo, il nuovo Ministro della pubblica istruzione soppresse i corsi, aumentando cosi il numero degli errori politici commessi a danno degli Istituti professionali.

A questa iniziale carenza di capacità di insegnamento imposta dalla legge agli Istituti professionali (quanto detto per gli I T P vale, in gran parte, anche joer gli insegnanti di teoria), si potrebbe porre rimedio rendendo obbligatoria la frequenza a corsi di aggiorna-mento od abilitanti di almeno 6-8 mesi; il legislatore in proposito, appare ancora incerto e non è infondato il timore che si orienti a corsi di contenuto prevalentemente od esclusiva-mente pedagogico, senza tenere nel dovuto conto per la preparazione degli insegnanti in tale campo — senza dubbio della massima importanza — per essere profìcua deve inne-starsi su una sicura preparazione a stretto carattere professionale, quella che appunto costituisce il punto debole del sistema.

Per completare il quadro si pensi alla insuf-ficienza del servizio ispettivo — didattico, il quale — al di fuori della capacità e della atti-vità, invero assai intensa, degli ispettori in carica — è nella materiale impossibilità di assicurare, per il settore industriale, quel con-tinuo controllo e quel coordinamento dell'at-tività didattica degli Istituti che, già in una situazione normale, sarebbe necessaria: né si può pretendere lo facciano due ispettori per ben 222 Istituti e -126 scuole coordinate (3).

In una situazione del genere è logico aspet-tarsi che i responsabili corrano ai ripari, det-tando norme idonee a ripristinare o potenziare l'efficienza del sistema; i politici hanno invece ritenuto fosse sufficiente affermare, con a t t o d'imperio (4), la piena validità degli insegna-menti impartiti negli Istituti professionali, im-ponendo ai datori di lavoro il riconoscimento della qualifica dopo tre mesi di inserimento in azienda.

Ciò benché l'allievo degli Istituti professio-nali italiani faccia, ripartite in tre anni, 1600-1650 ore effettive di officina (frequente-mente ridotte in misura drastica, ad esempio, per insufficienza di attrezzature) che salgono a 2.100-2.200 con le 500-550 dei tre mesi di inserimento, mentre in Germania ed in Sviz-zera, tanto per fare un esempio, per giungere allo stesso livello di formazione, con programmi identici, il futuro qualificato passa in officina non meno di 5.200 ore, più del doppio. In Svezia, con un sistema misto di Scuola (bien-nale) più apprendistato (un anno), si giunge ancora sulle 5.000 ore.

Crede proprio il legislatore che i nostri isti-tuti ed i nostri allievi siano cosi bravi da otte-nere gli stessi risultati conseguiti all'estero impiegando metà tempo ? Oppure non ha dedi-cato sufficiente attenzione a questo aspetto della formazione professionale ?

La Legge n. 754 sulla sperimentazione negli Istituti professionali è stata, ed è, presentata come una innovazione destinata a portare sicuro benefìcio all'intero sistema di formazione pro-fessionale; non è evidentemente il caso di anticipare valutazioni definitive prima di cono-scere i risultati della sperimentazione in atto, ma è pur sempre possibile formulare alcune fondate riserve ed esprimere giudizi su quanto è finora noto.

Non è un mistero che la legge è stata varata in gran fretta, senza un attento esame della situazione (il legislatore ignorava che il raffor-zamento culturale nel 1° anno dei professionali era già stato deciso dal Ministro responsabile e già in atto), con la palese e dichiarata preoccu-pazione di aprire senza indugi una via diretta di accesso all'Università. Le perplessità susci-t a susci-t e dal provvedimensusci-to sono ovvie.

L'ulteriore riduzione della capacità for-mativa professionale a seguito del rafforza-mento della componente culturale, per di più intesa in senso classico-tradizionale, fa pensare anche ad un primo tentativo verso l'attuazione del biennio unico fino ai 16 anni, il che sarebbe morte certa per il professionale, non essendo neanche lontanamente pensabile di concentrare nel solo terzo anno gli insegnamenti teorici e pratici necessari per giungere a livello di qua-lifica, a meno di non dar vita ad una organiz-si) Anche in questo caso la legge (L. 7-12-61, n. 1264 e D.P.R. 10-1-67, n. 3) pare carente; non risulta, a tutt'oggi, che l'istruzione professionale abbia un adeguato organico proprio di ispettori tecnici didattici.

(4) Legge 27-10-69, n. 754, sulla sperimentazione negli Istituti professionali.

zazione completamente nuova (ad es. insegna-mento centrato su una officina-scuola, 75-80% di pratica, orario di 11 mesi all'anno con 7 ore di lezione al giorno, ecc. cose tutte impen-sabili nei professionali).

Circa la « maturità professionale », questa avrà senso solo se individuerà una formazione nettamente distinta da quella del perito; la proposta dì mirare alla preparazione di un capo intermedio di produzione (compito noto-riamente non congeniale al perito) ha trovato, in sede di formulazione dei programmi serie difficoltà, derivanti dal dettato legislativo.

Costretta ad operare sotto l'assillo della fretta (non si può negare sia stato un errore, imposto dalla legge, l'aver dato inizio ad una sperimentazione di cosi ampio respiro ed im-pegno nel giro di poche settimane e partendo da zero), la commissione degli esperti non ha potuto esaminare a fondo i vari aspetti dell'iter forma-tivo con ovvio riflesso sulla formulazione dei pro-grammi i quali, sotto il profilo della preparazione ad una professione distinta da quella di perito, risentono negativamente della esigenza di por-tare i giovani al livello culturale e scientifico ritenuto necessario per l'accesso all'Università. Se sotto il profilo professionale è positiva l'importanza attribuita a materie concernenti l'organizzazione della produzione ed il governo del personale (ma dove trovare insegnanti com-petenti nel numero necessario ?) è da consi-derarsi negativa — specie per il settore mecca-nico — l'impossibilità di completare, sia pure in modo sommario, la conoscenza dei mezzi di produzione che pure è fondamentale per il capo destinato all'officina.

In materia finirà, paradossalmente, di saper-ne di più il perito, non fosse altro perché gli Istituti tecnici dispongono di officine ben più equipaggiate che non i professionali nei quali, notoriamente, mancano macchine come trapani radiali, alesatrici, dentatrici, torni revolver, rettificatrici, sovente anche fresatrici, per non parlare delle macchine a fluido, importantis-sime per gii impianti sussidiari di officina.

Altro aspetto negativo sta nella organiz-zazione dei bienni per grandi gruppi di qua-lifiche, con il risultato di avere una popolazione scolastica quanto mai etereogenea sul piano professionale, con conseguenze facilmente intui-bili; basti ricordare che, per il settore mecca-nico -— come sempre il più danneggiato — la q u a r t a classe è comune per:

a) meccanici (tornitori, fresatori, conge-gnatori, ecc.);

b) disegnatori (che di meccanica, di offi-cina ne sanno per poco);

c) motoristi; d) riparatori di automezzi; e) meccanico magliere; /) meccanico tessile; g) meccanico navale; h) padrone marittimo;

i) installatore termo idraulico-sanitario. È sin troppo evidente che, con tale impo-stazione, la maturità professionale non può certo individuare un I I0 livello di qualifica, come taluni mostrano di credere, e rimane una meta appetibile forse come titolo di studio di scuola media superiore, ma con caratterizza-zione 'professionale assai vaga, cosa della quale, ad esempio, si sono immediatamente resi conto gli allievi dei corsi motoristi i quali hanno diser-tato il biennio perché non ritenuto utile ai fini di un effettivo perfezionamento professio-nale che pure avrebbero gradito.

Con la recente approvazione dello statuto dei lavoratori entriamo addirittura nel campo delle norme di legge che, intese a favore di una certa categoria di persone, finiscono con il ritorcersi contro le medesime.

Sino ad oggi, il collocamento degli allievi dei corsi professionali, in occasione del primo impiego, è stato nominativo, cioè su esplicita richiesta delle aziende le quali, per i loro fabbi-sogni si rivolgevano, almeno nelle aree indu-striali direttamente agli Istituti specificando le loro esigenze. I Presidi erano addirittura posti nella condizione di operare una certa selezione fra i posti di lavoro offerti, indirizzando i gio-vani in modo confacente alla loro preparazione, ai loro desideri, alle possibilità di carriera, ecc. In altri termini, si riusciva a porre in a t t o quella di orientamento e di assistenza nel momento difficile del passaggio dalla scuola al lavoro, t a n t o caldamente raccomandata dagli educatori di ogni paese e da alcune raccoman-dazioni internazionali (OIL, UNESCO) regolar-mente sottoscritte dall'Italia, ma altrettanto regolarmente disattese dal legislatore.

Ignorando t u t t o questo — pensiamo non volutamente — lo s t a t u t o dei lavoratori ha imposto, all'art. 27, il collocamento numerico. Cosi il neo-diplomato diventerà un numero, seguirà un anonimo turno di avviamento, tro-verà lavoro dove la sorte vorrà e perderà i vantaggi che gli derivano da una scelta voluta anziché imposta.

Come t u t t o questo possa influire sul morale degli allievi degli Istituti professionali e quanto

possa stimolare i giovani ad una maggior frequenza dei medesimi è facile da intuire.

***

Se danni agli Istituti professionali sono deri-vati dall'azione legislativa del potere politico, altri — non meno gravi -— sono imputabili invece a carenza di intervento.

A tutt'oggi manca la legge istitutiva; se per molto tempo si è potuto considerare tale situazione come fonte di stimolo a nuove espe-rienze tecniche e didattiche, il suo prolungarsi ha finito con il mortificare ulteriormente l'effi-cienza degli Istituti professionali favorendo l'esodo verso il Tecnico e verso la media degli insegnanti e degli I T P più anziani, fra i quali si trovano naturalmente i più capaci e molti di quelli passati dai corsi di aggiornamento. Lo stimolo a questo esodo si trova ancora in una norma di legge che inquadra in ruolo B gli insegnanti di applicazioni tecniche della Scuola media ed in ruolo C gli I T P dei pro-fessionali, palese insulto al buon senso ed alla logica, perché la somma di conoscenze e capa-cità reali che deve possedere un I T P di Istituto professionale industriale sono immensamente superiori a quelle richieste ad un insegnante di applicazioni tecniche della Scuola media.

Accordi internazionali: è abbastanza noto come l'Italia li sottoscriva facilmente e come altrettanto facilmente trascuri di attenersi agli impegni che ne derivano; se ci chiediamo che cosa è stato f a t t o dal punto di vista dell'im-pegno politico per adeguare i nostri livelli e contenuti di formazione a quelli degli altri paesi della comunità, che cosa per la preparazione degli insegnanti (azione caldamente raccoman-data dalla CEE, dall'UNESCO e dall'OIL), che cosa per stabilire contatti permanenti ed uffi-ciali tra scuola e mondo del lavoro, la risposta è sempre soltanto: niente.

Per quanto concerne in particolare i rap-porti tra scuola e mondo del lavoro, mentre all'estero, senza eccezioni, essi sono vivi ed operanti, in Italia, specie in parecchi ambienti politici, essi vengono guardati con sospetto, sotto lo specioso pretesto che i datori di lavoro mirano ad asserire la scuola.

Eppure anche nei paesi comunisti ogni scuola professionale è tenuta a mantenere stretti contatti con un'industria proprio per interpretarne le esigenze. L'industria italiana chiede molto meno; non pretende affatto che la scuola professionale operi a favore di questa o di quella azienda, il che sarebbe un errore, ma desidera semplicemente poter intrattenere

Nel documento Cronache Economiche. N.331, Luglio 1970 (pagine 35-40)