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Cronache Economiche. N.331, Luglio 1970

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CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA ARTIGIANATO E AGRICOLTURA

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cronache

economiche

mensile a cura della camera di commercio indusfria artigianato e agricolfura di forino numero 3 3 1 - luglio 1 9 7 0

sommario

L. M a l l è

3 II pittore Federico Boccardo, un poeta dell'intimismo G . Brosio

19 Stiamo andando verso la demonetizzazione dell'oro? A. G a b o a r d i

25 Spunti di finanza regionale P. M e r l o n g h i

33 La legge ostacola gli istituti professionali per l'industria A . C i m i n o

38 Alluminio e rame in concorrenza C. V e r d e

41 II lavoro, oggi e domani M . M o r i n i

44 L'attuazione del « P i a n o M a n s h o l t » nell'agricoltura piemontese P. C a z z o l a

48 II viaggio della delegazione torinese in Russia nel 1 9 1 3 A. T r i n c h e r i

56 L'espansione permanente nelle economie progredite U. B a r d e l l i

59 Valanghe e difesa 65 Tra i libri 71 Dalle riviste

Corrispondenza, manoscritti, pubblicazioni deb-bono essere i n d i r i z z a t i alla D i r e z i o n e della Ri-vista. L'accettazione degli articoli dipende dal ciudizio insindacabile della D i r e z i o n e . Gli s c r i t t i f i r m a t i e siglati rispecchiano soltanto il pen-siero dell'autore e non impegnano la D i r e z i o n e della Rivista nè l ' A m m i n i s t r a z i o n e Camerale. Per le recensioni le pubblicazioni d e b b o n o es-sere inviate in duplice copia. É vietata la ri-produzione degli articoli e delle note senza l'autorizzazione della D i r e z i o n e . I m a n o s c r i t t i , anche se non pubblicati, non si restituiscono.

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C A M E R A DI COMMERCIO

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Il pittore Federico Boccardo,

un poeta dell'intimismo

Luigi

Malli-In copertina a colori: Federico Boccardo - Paesaggio al t r a m o n t o

1907 - T o r i n o , G a l l e r i a Fogliato.

(Foto Arch. Museo Civico, Torino).

Due anni or sono, nel catalogo generale della Galleria (Forte mo-derna di Torino, nella impre-scindibile brevità, anzi somma-rietà, delle schede degli artisti, per lioccardo tralasciavo quasi ogni cenno su una « cultura » lascian-done solo emergere, ma proprio spiccando per il suo isolarsi, il ricordo del viaggio in Belgio e Olanda. Penso che proprio que-sto e quelli ora meritino uno sviluppo; gli uni — i cenni cioè sulla « cultura » — perché non sono pochi e illuminano molto; e l'altro perche' su un piano « materialistico » si potrebbe ad-dirittura dire che non lasciò segni classificabili e schedabili come « campione » ma spiritualmente determinò in modo preciso una presa di coscienza, un chiarifi-carsi a se stesso, rincontro di un appoggio morale venuto di lontano, un invito alla fiducia e una spinta a seguire una via anche se rischiasse — come fu — di non esser capita, anzi per lo più di non esser quasi guardata.

/? noto Valunnato di lioccardo alVAlbertina di Torino, con Gros-so e Gilardi ed erano evidenti le ragioni sue di non adattarsi né alle imposizioni perentorie dell'uno né alle cordiali esorta-zioni dell'altro. Troppa carne sana e sensuale ma non sensi-tiva nel primo, troppo episodi-cizzare e « bozzetteggiare » nel

secondo; sicché lioccardo ebbe, per il primo, antipatia, per l'altro, se non convinzione, al-meno rispetto; certo l'incontro con Gilardi non va visto in ter-mini completamente negativi al-meno nel senso del rifarsi gilar-diano a un campo di interessi

umani raccolti, e se non sempre intimi, comunque veri e di quo-tidianità vissuta fra cose e fatti piccoli che però son quelli in continuo sfioramento di quegli altri grandi che si chiamano vita e morte e, quando s'intravedono, valgono sempre qualcosa anche se

F e d e r i c o B o c c a r d o - Cascina B o c c a r d o in C a s a l b o r g o n e : a b b e v e r a t o i o di p r o f i l o ( a c q u e r e l l o su carta) c. 1897-98 - Sciolze - C o l l e z . E m i l i a B o c c a r d o . (Foto Arch. Museo Civico, Torino).

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-Federico Boccardo - Testa di contadinello (studio per l ' o l i o « Contadinello s e d u t o » ) c. 1897-98, acquerello su carta - Sciolze - Coli. Emilia Boccardo. (Foto Arch. Museo Civico, Torino).

imborghesiti. C'era piuttosto, in Gilardi, a impedire il riscatto dal « tema », almeno ben sovente, quel suo perdersi nel « curioso » e nel « divertente ».

Non quindi ebbe il Boccardo a condividere orientamenti di quel Gilardi che, anche lui era valse-siano, di Campertogno, ma ad apprezzarne la serietà di lavo-ro, la solidità professionale non sprezzante né ambiziosa, la volon-taria « riduzione » ad un mondo di casa, questo si. (Un richiamo ancor gilardiano è, a mio avviso, in « Prepara la cena » di Boc-cardo, sul 1896-97, poi subito superato).

E cosi penso che egli, pur non potendo trarne nulla di vera-mente formativo, possa aver tal-volta considerato con occhio be-nevolo qualche opericciola di Celestino Turletti, un altro di quei tanti che avevan studiato all' Albertina sotto i piuttosto

pe-danti, anche se non sempre pre-suntuosi, « figuristi » del '50-'70, ma che avevano cercato di tirarsi fuori dalle pastoie d'una pittura <( di storia » anacronistica e però, avendo poco fiato, finirono quasi sempre nella cronachetta, in una specie di piccola « peinture à l'usage des dames », quasi rica-mata. Giorni, sotto certi a-spetti, lontani da parere preistorici ep-pur non poi cosi tanto, stando al computo degli anni, da poter esser ricordati con le loro gran-dezze e miserie, soltanto più dai vecchissimi di oggi; poiché Gi-lardi e Turletti et similia fre-quentavano tante e tante case dei padri di giovani d'oggi e certi ricordi non dico che sian proprio cosa viva ma, almeno come « fiori secchi » tra due pa-gine, ce li troviamo ancora fra le inani e lo scrivente stesso ram-menta le parentele o amicizie domestiche proprio con i

Tur-letti, Gilardi, Reycend, eccetera, ivi compresi i giudizi stessi che allora se ne davano negli am-bienti famigliari o amici e che, per esser giudizi affettuosi, non erano sempre, salvo per il tanto più elevato Reycend, del tutto convinti, e scivolavano facil-mente nella scherzosa conside-razione del piacevole talentuccio o, al più, d'una correttissima « emerita » professionalità.

Così, il Turletti, fu il « caro Celestin » non solo come uomo ma per la sua pittura, ch'era graziosa, gentile e anche — su un piano di superficialità — raffinata. Ma quella grazia e inti-mità ch'eran dell'uomo e del pittore si rovinavano per non sapersi mostrare semplici e sin-cere come erano in fondo; si dovevan camuffare « in costume » e sciupavano con convenzioni certi particolari d'una delica-tezza fresca e quasi fatta di fiato che non dovette lasciar indiffe-rente Boccardo; due temperamen-ti che avrebbero avuto almeno qualche propensione in comune, se poi Turletti non avesse dis-solto intimismo e grazia in pia-cevolezza mentre per Boccardo, grazia e intimismo erano il frutto d'un soffrire per dar forma ad un « dentro », ed erano soprat-tutto un ritroso confessarsi.

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stilistico, bensì di raccoglimento di consonanze, anche solo -par-ziali, per responsività ad alcuni elementi di determinati pittori, ignorandone o rifiutandone altri.

Su questo punto quindi sono da. correggere anche negazioni di un'azione positiva su Boccardo da parte di pittori di cui egli stesso ebbe a dire di non

pro-vare attrazione. Specie ora che può darsi tutt'altra ampiezza alla valutazione del paesaggio boccar-diano, si dovrà pur dire che dentro ad esso si risente, ben interpretata sid filo personale, non solo una lezione di Reycend, ma anche di quel Delleani che a Boccardo pareva troppo fisica-mente prepotente nella sua

pit-tura, in ciò irritandolo e però attraendola e dovremo pur dire che due o tre paesaggi di Boc-cardo, senza plagio verso il pit-tore biellese e senza rinunce a se stesso, deducono da Delleani in modo assai più intelligente che non in un Follini, a volte abilissimo e delle a neggiante fin quasi alla impudicizia. Uno

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molo al riguardo, poteva dar-glielo lo stesso Reycend per il suo modo molto parziale di guar-dare a Delleani intorno al 1890 e anni prossimi. Mi par di sentirlo in due paesaggi di Boccardo al Museo Civico di Torino, giovanili.

E non manca affatto — anche se pareva non rientrasse esatta-mente nel giro dei suoi interessi, anzi che lo annoiasse un po' •— qualche frutto d'osservazione su Avondo, cogliendone, anche qui assai bene, certa essenzialità di-stributiva del paesaggio su un incontro di pochi, pochissimi piani. E qui si potrebbe allar-gare V argomento, chiedendosi

quanto di Avondo gli venne da Avondo e quanto attraverso Rey-cend. Per Avondo, inoltre, penso non all'ultimo ma a quello del periodo mediano, quello cioè cui a un certo punto venne a porsi accanto, per qualche tratto pa-rallelo, un d'Andrade.

Ma qualche paesaggio, poi, di-mostra come non ci sia stata indifferenza vera e propria verso Fontanesi, almeno verso un certo Fontanesi di cui alcuni aspetti romantici potevano ritornar vivi — al di fuori del fontanesismo di maniera — in clima crepu-scolare; e proprio per questo si può rintracciare, in un caso o due, anche una punta di Ravier,

spinta non dico a combaciare, ma a presentare qualche — certo generica — analogia, con atmo-sfere accese di dipinti di quel Bistolfi che, come persona e come artista nel suo complesso, a Boccardo pare stesse sulle corna.

Ma ancora : in quel periodo del terzo e ultimo quarto dell'800, di cui la pittura piemontese è ancor tanto insufficientemente sondata nella trama, al di fuori del manipolo di nomi più grossi o più di moda (e non è detto che neppur quelli sian stati tutti scandagliati a fondo o delineati sul filo giusto), perché non ricor-dare — e non lo faccio per stringer nessi ma per segnare zone di analogie e offrire elementi per Vordinamento d'un percorso storico — perché non ricordare quel Federico Pastoris, partito dall'Accademia Albertina di To-rino (e, non c'è bisogno di dirlo, ebbe a maestro un « professore » di figura), passò qualche tempo a Napoli col Fortuny per poi liberarsi dell'una e dell'altra espe-rienza, entrando in contatto con la cerchia di Rivara e operando soprattutto nel paesaggio, con esiti invero piuttosto disuguali, come lo eran già stati nel primo periodo « di figura », quando dal-le autorevoli e aride sostenutezze del maestro Enrico Gamba egli preferiva deviare verso qualche amabilità alla Turletti ante lit-teram; e nel paesaggio fu avon-diano, pittaresco, andradiano ma a tutt'oggi nessun si è curato di ricercar di lui, al di là di quei quattro quadri, ufficialmente più noti, certi studietti che son di una semplicità lindissima e de-liziosa, e che — evitando il suo non infrequente squilibrio cro-matico — mostrano una pesata struttura, in cui l'eco macchia-iola è evidente.

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pit-Federico Boccardo - Grande albero e alberelli in valletta (Bussolino) c. 1899, disegno a matita - Sciolze - Collez. Emilia Boccardo.

(Foto Arch. Museo Civico, Torino

tura piemontese del secondo '800 che juron base di cultura a Boc-cardo e quindi come uno dei possibili intermediari fra questi e i macchiaioli; a parte il fatto, da non dimenticare per Boccardo, né per altri, senza alcun bisogno di « viaggi » in Toscana (o dove andassero a cacciarsi eventual-mente alcuni macchiaioli fuor del loro più stretto cenacolo) che gli artisti piemontesi espo-nenti alla Promotrice, di mac-chiaioli ne avevan visti in casa loro, non tantissimi ma non pochi né proprio di rado; e per ehi aveva occhi aperti, signifi-cava qualcosa, a cominciar dal 1861 con Signorini (che aveva simpatie per la nostra pittura) e col Cabianca; aggiungendovisi dal '62 e '63, Borrani, Abbati, Lega, Sernesi e Fattori. Di que-sti, anche gli scomparsi più gio-vani si presentarono a Torino

più volte, in un giro di vari anni; ma le loro presenze, in genere, furono ripetute con lunga insistenza : Borrani riapparve alla Promotrice fino al 1881; Silvestro Lega al 1892; Signo-rini fino al 1895 e il Fattori, spes-sissimo, fino al 1900, poi dira-dando ma sporadicamente ritor-nando fino al 1907. Sicché, a prender le cose per il loro verso, non fu solo Fontanesi in Pie-monte ad avere il suo momento macchiaiolo per un esplicito sog-giorno a Firenze nel 1867, quan-do si associò per breve tempo a Cristiano Banti. E tra il riserbo e l'asciuttezza piemontese da una parte e la semplificazione e la franchezza secca dei macchiaioli dall'altra, potevano nascere spon-tanee attrazioni, purtroppo assai attutite, a Torino, dal seppellir quei fiorentini nella continua marea montante di un pittorame

dilettantesco. Ma gli occhi at-tenti e le menti pulite colgono il buono anche oltre la rigatteria ; ed è questo, proprio, uno dei parecchi punti da fare oggetto di studio.

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Federico Boccardo I n t e r n o di cucina: tavola con zuppiera, c. 190103 (disegno a matita) Sciolze -Collez. Emilia Boccardo. ( Fo t o A r d i . Museo Civico, Torino).

essere più qualificata e avveduta. Tolto qualche riconoscimento in Piemonte (grazie al Bernardi e al Dragone), il suo nome, come pittore, ridesta poco più che nulla e cioè proprio, solo vaga-mente, l'eco d'un nome e non la memoria di una pittura.

Pure, questo artista, fu un temperamento autentico e tut-t'altro che comune, anzi con aspetti singolarissimi, in cui certa crudezza secchissima e im-placata, tutta portoghese (si pen-si, fin dal '400 a come Nuno Gongalvez disseccava — e affasci-nantemente — un van Eyck!)

veniva molto bene a legare con certa concisione e rustichezza piemontese. Ecco un altro anello della catena — troppo dimenti-cato oppure citato con rispetto ma lasciandolo isolato o solo vedendolo significante nel clima di Rivara — da ricomporre a partire dai Piacenza, Perotti, Beccaria (tanto maggiori i primi due al terzo) — ove non si voglia cominciar dalla prefazione, che comprende un Bagetti da man-tenere al giusto livello nel « pae-saggio puro », un De Gubernatis appena or ora dal Passoni riva-lutato come meritava, un

d'Aze-glio da abbassare parecchio e da chiarire rettamente ove non è da abbassare, cosi da stringere le maglie di una trama che con-duce, e le oltrepassa, alle soglie del '900: trama entro la quale, persone veramente « prime » non debbaìio star nell'ombra come accadde finora e qualche più fortunato ripetitore di seconda mano far la figura di persona prima.

Per concludere sul d'Andrade che mori nel 1915, dopo aver lasciato da parecchi anni la pittura per altri interessi premi-nentemente archeologici e di con-servazione del patrimonio arti-stico (piemontese e nazionale) ma ch'era personaggio conosciu-tissimo negli ambienti artistici torinesi, certo suo paesaggismo per nulla « rivariano » deve aver avuto la sua parte in orienta-menti d'altri paesisti nostrani, anche se fu parte sporadica e saltuaria, poiché soprattutto al-cune sue vedute di Castelfusano non si può dire fossero fatte allo scopo di « piacere », tanto erano scontrose, aspre, nude e modernissime, da un lato usando valori di « macchia », dall'altro semplificando fin quasi ad an-nullare la percettibilità d'una figurazione. E ini chiedo allora: cosa meglio si riallaccia al « Ca-stelfusano » 1871 (inv. 1025) della Galleria d'arte moderna di Torino, dipinto dal D'Andrade sulle due facce della tavola — e mi riferisco al lato con brughiera e due figurette — se non alcuni paesaggi sul tipo di quelli dipinti da Boccardo, di nuovo sfruttando le due facce d'una tavoletta, sul lato della figurazione più som-maria, con diretto incontro di pianura e sfondo, da collocare intorno al 1900, di recente donati dalla figlia alla stessa Galleria ? 0 un altro, ancora in collezione Boccardo, di un anno o due dopo ?

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affermare che, sebbene il tem-peramento portasse Boccardo agli antipodi d'un Pittura, almeno qualche lato di questo pittore a volte geniale e a volte no, e co-munque non omogeneo, il più giovane non abbia proprio del tutto diffidato del più vecchio; anzi, abbia, per la propria onestà profonda, riconosciuto qualche spunto per sé attrattivo nel Pit-tara, per cosi dire, più intimo : quello che sapeva dar un colore alla pioggia, render poetica la malinconia desolata d'un cortile, d'una aia, di « lobie » e scalette di legno cadente, di finestrette sfondate, di casotti d'un pozzo. Ed è proprio allora che Boccardo in due o tre angoli di cortile senza cielo, con un muretto di pozzo, due rampicanti e un po' d'erbacce, senza altra luce da

quella che gli vien da dentro (e in ciò supera di scatto Pit-tara), si lascia andare a godere d'un verde che è ancora figlio e nipote del freschissimo (poi reso ridicolo dalla moda) « verde di Rivara », magari per chiedersi se in quel verde sminuzzato a tratteggio e puntinatura croma-tica, non c'entri fors'anche un poco di Tavernier, compresa la ricerca di note violacee. Riferi-menti non son necessari, ognuno se li faccia da sé.

Ma abbandonato quest'ambi-to, sostiamo ancora ad un'altra zona, che fu polivalente, co-steggiò per un momento Reycend, assorbì perfino qualche brezza macchiaiola, s'inglesizzò per un momento turnerianamente, com-prese bene qualche simbolismo sui primi fili del liberty, e poi si

disperse: cioè il caso di Marco Calderini. E lo si dice perché, di questo maestro, che fu allievo preferito dì Fontanesi ed a lui affezionatissimo ma che seppe amarlo senza esserne succube, anzi, già nel 1876, vivente il maestro, dipingeva quelle « Rive del Po a Torino » che erano più alla Reycend che alla Fontanesi, ebbe poi anche qualche momento, quasi completamente ignorato tut-tora da pubblico e studiosi (ma la colpa non è tutta loro se certe opere rimangono ostinatamente nascoste) in cui si compiacque — lui che abbondava in tele di metratura gigante — a fare il « petit-maitre », con studietti quasi minuscoli, a soggetto di « interni-esterni » d'una domesti-cità dimessa, tutta intima, in un ascoltare se stesso, forse un poco

Federico Boccardo - Frutta con coppetta di v e t r o , 1908 - già Collez. Senor Solano, m i n i s t r o di Cuba in Montevideo.

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freddo ma sincerissimo, toccando una « Stimmung ». Calderini era quarantacinquenne quando Boc-cardo .s'avviò alla pittura; alla Promotrice compariva con pun-tualità pendolare ogni anno. Sen-za avanSen-zar qui alcuna afferma-zione, si sottolinea Vopportunità d'un più addentrato esame; per-ché qualche aria tra Reycend e Calderini appare anche in più d'un disegno di Boccardo.

Non credo necessario, a questo punto, e nelle condizioni attuali di conoscenza del tardo '800 piemontese, di paesaggio come di -figura, con molti artisti allo stadio di poco più che scialbi nomi non accompagnati da una attività cui si sia dato critica-mente volto, insistere oltre a ripercorrere situazioni: basti il fatto che parlar di Boccardo abbia impegnato, anche al di là del nostro primo intento, a rimettere in bilancia vari argomenti, cosi da stringere meglio il pittore in un tessuto connettivo e porre il dito sull'insufficiente conoscenza non solo di lui ma di tutto un periodo.

Piuttosto, poiché questo era il clima in cui Boccardo andò a cercare e trovare punti d'appog-gio e punti di stacco, in un giro d'anni che, pur nell'assenza di precisi documenti pittorici conti-nuativi, credo si sia esteso — co-me vero e proprio periodo di for-mazione — quasi all'intero ul-timo decennio dell'800 se nel 98-99 egli appariva non già un iniziante ma un pittore con un suo stile configurato, trattenia-moci a quel suo viaggio in Bel-gio e Olanda che fu compiuto nel 1900 circa con le risorse, forse un po' magre, di una somma ereditata con la morte del padre che, eccettuata la « cascina Bon-figlio » di Bussolino ancor per pochi anni destinata a restare in proprietà dei figli come ama-tissimo rifugio di quando in quando, lasciò ben poco denaro liquido.

Un lungo viaggio non fu, pro-prio per via dei soldi ch'eran

Federico Boccardo - La decaduta - T o r i n o , Galleria d'arte moderna.

(Foto Arch. Museo Civico, Torino).

pochi e però fu un'esperienza importante, anche se non la direi decisiva, in quanto non si trattò di rivelazione, d'un mondo colto come una sorpresa, ma d'un mondo andato a cercare apposta, già vagamente conosciuto da li-bri, da copie, certo dagli ori-ginali che, non dimentichiamolo, la Galleria Sabauda aveva offerto in Torino a Boccardo, a due passi dall' Accademia Albertina. Perché, invero, come spiegar quel viaggio se non come una ben precisa scelta, intenzionata a ve-dere quel che « dentro » era già diventato un mondo poetico ac-carezzato e spontaneamente rece-pito e corrisposto ? A Parigi, s'è visto, Boccardo andrà due volte, più tardi, perché vi espo-neva; ed era quasi un geloso andar dietro all'uno o due

qua-dretti che s'azzardavano a portar la loro umiltà di cuore nella metropoli di tutti gli incontri, frammezzo ai più grandi geni e ai più grandi stupidi. Ma quando Boccardo ebbe quattro soldi in tasca non pensò di buttarsi nella « lumière » pari-gina, né, che so io, di fare una corsa in quella Monaco o in quella Vienna che, proprio a quegli anni, costituivano zone calde della pittura d'Europa, crogioli di curiosità, rivolgimenti, audacie, disgregazioni e fermen-tazioni.

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« recoins » di camera, di casa, di cortile, di piazza, la pittura delle luci filtrate per far riparo a moti dell'animo non detti, la pittura meravigliosa del silenzio, in cui gente non parla e spesso neppure agisce: ma vi si senton vivere creature, vivere muri e finestre, tendaggi e arredi, alberi e oggetti; e una panca « esiste » come una persona, un bicchiere o uno zoccolo sono un miracolo di vita come un riflesso di sole dalla vetratina o il soffocar d'ombre su una gonna o i corti-naggi d'un letto, quel mondo in cui spesso i vittori presentavano personaggi •— o magari uno solo, unico ospite del quadro — visto di schiena, perché non è detto che sia necessario un volto per mostrare il contenuto e i segreti d'una vita in sospen-sione, mentre si coglie la consi-stenza del tempo che sta scor-rendo, « creatura » anch'esso, fat-ta tutt'uno con la polvere su un mobile, col gesto d'una mano, con i rami appesi al muro, con l'aria, illuminata od ombrosa che riempie un vano e non sai mai fino a che punto è chiara o scura, immobile o labile.

Un viaggio dunque, più che di rivelazione, di conferma, da considerare importante anche se non sapessimo nulla fuorché il suo essere avvenuto. Ma è pur rimasta una tenue testimonianza, finora, dimenticata; e chissà non sia un unico elemento superstite, fra altri — pochi, perché Boc-cardo era parco in tutto — poi perduti e che ci avrebbero detto qualcosa di più. C'è un quader-netto suo, piccolissimo, consunto, con qualche pagina bianca, qua e là qualche indirizzo di cono-scenti torinesi (e nell'ultima pa-gina mi par di leggere, nello sva-nire della matita, il nome del Calderini), qualche conto di spe-se e poco più d'una dozzina di disegni a lapis, non di più perché tre foglietti, pure con disegni, su altro tipo di carta, appaiono inseriti provenendo da altro taccuino. I disegni del

qua-dernetto — esclusi gli inserti — mi sembrano tutti da riferire a scorci di campagna e a cascinali della zona, del podere Boccardo o anche già di Bussolino, stac-candosene solo una paginetta con motivi architettonici e un in-terno, disegnato proprio nell'an-Vangolo dell'ultima pagina, con un nudino di donna (cotto di schiena), una poltrona, un qua-dro alla parete.

Ma se il quadernetto ci inte-ressa è perché, le prime cinque pagine contengono appunti del viaggio nei Paesi Bassi. Non sono note, meno che meno com-menti, soltanto la fissazione di qualche nome; né ci dicon molto ma qualche spiraglio lo aprono. Intanto permettono di sapere, di specificare un po' meglio la sosta in quel « Belgio e Olanda. » che, cosi ricordati, non chiari-vano nulla e potechiari-vano indurre a indebite fantasie. Non è tutto decifrabile di quel poco ma resta comunque accertato che Boccardo fu prima in Olanda (la vera attrazione per lui, com'è facile arguire dal suo dipingere, più consentaneo all'olandese tacito che al fiammingo malizioso e « pi-quant ») e poi in Belgio e che le città visitate furono Amsterdam, Rotterdam, Anversa, Bruxelles. Può forse stupire che non v'en-trasse l'Afa, a mezza strada sul percorso Amsterdam-Rotterdam ma né possiamo fare i conti con le tasche di Boccardo né potrem-mo del tutto escludere che, fuor dei luoghi segnati nel quaderno, ab-bia visto qualcos'altro. Proprio all'interno del tergo della coper-tina, infatti, v'è un cenno al villaggio di Katwijk.

In Amsterdam, i nomi che lo trattennero, almeno come motivo dì appunto per memoria, furono, oltre a Rembrandt, il Ter Borkh, ripetutamente, Govaert Flinck e Wouwerman; tra i moderni gli piacque Maris (non è precisato quale dei tre) e notò opere

impressionisti »; due altri no-mi d'olandesi non ci appaiono oggi significativi ma neppur

sap-piamo cosa egli avesse visto di-essi. A Rotterdam volle segnarsi il ricordo di ritratti di Pieter Pourbus e Dirck vati Santwoort; e di nuovo fra i moderni, gli impressionisti, oltre a fare un mazzo indistinto, un po' sprez-zantemente, d'altri « soliti ».

In Belgio, poi, ad Anversa oltre, di nuovo, a ritratti di Rembrandt e ancora al Ter Borch (che proprio era. fatto per incantarlo, con le sue stanze senza finestre, piene di luce senza fonte naturale eppure natu-ralissima e insieme luce sognata, con incarnati di perla che sem-brano, strato su strato di vela-tura, condurti all'anima dentro, ai pensieri, al sentirsi esistere ed esserne colmi da debordare), oltre a Teniers, Cornelis de 1 Tos, Antonis van Dick, oltre a Frans Hals, su cui aggiunge « moderno nella composizione » (ed è un singolare riconoscimento, per lui così misurato e restio, quello dello « sprezzo » halsiano), c'è il ricordo di Jan Fyt che mi pare inolio interessante, come segno di un « róder » di Boccardo at-torno ad artisti quasi prescelti: non certo si tratteneva di fronte all'altro animalista, davvero su-perbo ma spesso spudorato per esibizionismo, ch'è Frans Sny-ders, mentre di Fyt egli colse quei miracoli che non si esau-riscono nell'attimo « épatant » ma invitano ad affondar nel tempo e son carichi di silenzio su cose ultrareali ma ultrairrealizzantisi perché guardate, si, alla lente, ma col cuore sospeso all' incanto di una piuma di pernice o della buccia d'un frutto.

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al Mu.sée Iioijcil des Beaux-Arts. D'acchito parrebbe strano quel ricordo piuttosto che un altro ma ancora una volta Boc-cardo non si trattenne proprio là dove c'era qualcosa di parti-colare per attrarlo? Alludo al-l'incredibile diafanità, celestia-le e tenerissima, ipersensibicelestia-le, febbrile, degli incarnati metsy-siani per cui le creature prendon luce da una fiamma interna: certo un'incandescenza accecante in Metsys, di fronte al diafano dei volti boccardiani, timido e non sensuale né di ampiezza irradiante come in quelli, un po' sofferente e febbricitante e non morboso né, come in Metsys, trascendentale e quasi distrut-tivo, bensì intenerito da una

do-lente struggenza. Direi quasi non ci sia da stupirsi che poi a Bruxelles Boccardo non abbia più annotato il trittico di S. Anna di Metsys, ai Musei Reali, che è anche più bello ma più « di-stante » di quello di S. Giovanili ad Anversa dove è più scoperto il venir fuori, col fiato e lo sguardo dei personaggi, d'un sentimento che arde le carni, un sangue sottopelle che c'è cosi spesso (mutato quel che è da mutare ed esprimendo quel che di diverso gli occorreva espri-mere nei suoi limiti di vivente appartato), in Boccardo.

Le annotazioni del viaggiatore sulla sezione moderna del Museo di Anversa sono poco signifi-canti, ma credo fosse poco

signi-ficante la sezione stessa, allora, quando il Museo non si faceva ancora una gloria d'un Ensor. E Boccardo segnava qualche no-me fra maestri ch'eran noiosi allora e tanto più di adesso.

In Bruxelles gli piacque qual-che secentista spagnolo e non poteva non sostare davanti ad Antonis Mor (potente, prepo-tente, anzi, e perfin troppo per un Boccardo ma che sapeva parlare con una manica e un corsetto tanto quanto con un viso), di nuovo a Cornelis de

1 Tos, poi a Gerrit Dou (proprio un pittore fatto per fermarlo a lungo) e poi ancora, tralasciando un accenno a Van Eyck perché riguardante (e con una malizia un po' insolita, in Boccardo) una

Federico Boccardo - Prato in fiore (1907) - T o r i n o , Galleria d ' a r t e m o d e r n a .

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Federico Boccardo - La Rosa ( R i t r a t t o giovanile di Rosina Boccardo) - Torino, Galleria d'arte moderna.

(Foto Arcti. Museo Civico, Torino).

Eva che non ci risulta presente a quel Museo (forse vi passò, allora, temporaneamente in mo-stra l'Eva del polittico di Gand ?), •una sosta a « un magnifico » Iiolbein e a un bel Barend van Orley. C'era dunque sempre, al primo posto, il fascino — per

lui — dei pittori precisissimi, dal disegno sintetizzante e quasi astrattivo (Holbein appunto) o almeno raffinatissimo e impecca-bile nei virtuosismi del manie-rismo (van Orley).

Per i moderni, anche qui, non è che ad apertura di '900, i

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re-Federico Boccardo - Cappuccetto nero - T o r i n o , Galleria d'arte moderna. (Foto Arch. Museo Civico, Torino).

stavano pur molto alle buone intenzioni.

Dopo quel viaggio, Boccardo in Belgio e Olanda non tornò più; però deve avere, anni dopo, nutrito qualche speranza di farsi conoscere in Belgio; ce ne in-forma una lettera dell'inverno 1910, dell'amico pittore A.

Ros-sotti, anche lui uno degli espo-sitori alla Promotrice torinesi, e ch'era allora a Bruxelles, dove cercava di mettersi in contatto con mercanti d'arte cui mostrare proprie opere e quindi informa il Boccardo, quindi sottintendendo di ricevere da lui qualcosa da presentare sul mercato artistico

bruxellese. Ma accennava anche alla gran voga, lassù, della lito-grafia, rammentando : « tu certa-mente non potresti adattarti a tale genere ».

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acco-stamenti che ora indicano « rap-porti », ora solo consonanze in un clima comune e però non meno utili di quelli a far luce. Non vorrei spingermi oltre, su questo piano, se non per un ac-cenno al ripetersi due 'volte, nel taccuino citato, d'un rife-rimento sia pur generico a « im-pressionisti ». Questo avveniva prima dei due viaggi di Boccardo a Parigi, dai quali purtroppo non sappiamo s'egli tornasse con appunti su cose viste. Co-munque — anche se sempre spin-to da una sua particolare con-figurazione intima, a trascegliere negli incontri secondo un proprio delimitato ordine mentale e una. propria consapevolissima dimen-sione — non restò certo a occhi chiusi a Parigi se li ebbe aperti nei Paesi Bassi. È il caso, senza aver documenti precisi, d'avanzar qualche ipotesi?

Ebbene, innanzitutto, a Parigi credo che Boccardo, per limi-tarci all'800 e iniziale '900, fermasse di nuovo lo sguardo su autor i di ritratti, « intérieurs », nature morte, che avessero, come prima qualificazione, il riserbo, la concisione, la dignità chiusa, la perizia del mestiere e un certo silenzio interno. Direi quin-di che se qualcuno potè piacergli, fra gli artisti di temperamento prettamente « tardo-ottocentesco », fu Fcintin Latour; che è poi. il nome che da più d'un critico intelligente e sensibile, ho sen-tito fare di fronte a certi dipinti di Boccardo, postigli sotto oc-chio senza dirne l'autore; e la loro domanda, chi fosse appunto l'autore, era accompagnata da un « c'è qualcosa à la Fantin-Latour », specie riguardo al ri-tratto della moglie, 1899 o alla « Natura morta di frutta » ora alla Galleria d'arte moderna di Torino o anche a qualcuno dei ritrattini a mezza figura.

La pittura d'un Fantin era senza dubbio troppo « di mondo » per Boccardo, ma non era un tipo di pittura isolato a Parigi e il nostro valsesiano poteva

sen-tirsi appoggiato da un modo di sentire e di dipingere cui egli toglieva il troppo di « cittadino », sostituendolo con un poco di « rustico ».

Ma nel 1905 e 1907, quando fu a Parigi, c'erano pur tant'al-tre cose più, moderne che non Fantin Latour; e se Boccardo non poteva certo andar incontro, poniamo, ai « fauves » che sta-van mostrando la faccia proprio allora (e ce ne volle perché se ne accorgessero altri italiani, tanto più giovani di Boccardo! e di « fauvisme » alla casalinga, in Piemonte si cominciò a farne forse solo intorno al 1925), certe curiosità non potevano non esser-gli state acuite tramite il pre-diletto Reycend; e con ciò si viene a rettificare quel tanto di impreciso che Boccardo aveva lasciato accennando, nei Paesi Bassi, a « impressionisti ». A Parigi, l'attenzione gli si dovette precisare, più esattamente, sui postimpressionisti, almeno su al-cuni, poiché l'impressionismo ve-ro e pve-roprio, con i suoi incanti del fuggevole, della natura go-duta negli esterni palpiti lumi-nosi e non in colorazioni interne dell'animo, avrà potuto piacergli ma non fermarlo: una cosa bella da vedere, non da raccogliere per inserirla nel proprio vivere e dipingere. Sicché, se mai, Boc-cardo avrà sostato con interesse su qualche risultato delle fasi iniziali di Vuillard e Bonnard ma anche guardato con interesse a elaborazioni d'un puntinismo, diventato già piuttosto tasselli-smo, di cui è traccia in più d'un suo dipinto e che se, da un lato, ha poco o nulla a che fare con il divisionismo italiano, è grosso errore prendere, come mi pare sia stato finora fatto, come materiale effetto di lavoro non finito, incompiuto.

Ci sono, infatti, alcune opere eli Boccardo rimaste interrotte: ma non tutte dell'ultimo anno o degli ultimi mesi, che la morte prossima gli fece abbandonare. Di cose non ultimate egli ne

lasciò anche molt'anni prima, vuoi perché fosse insoddisfatto, o meglio perché in qualche caso provò la netta sensazione d'aver già detto tutto cosi e che com-pletare sarebbe stato rovinare Di qui la nudità secca di qualche opera dei primi anni, che par lasciata a mezzo, e lo e: ma cosi doveva essere.

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Federico Boccardo - Candore (1912) - T o r i n o , Galleria d'arte moderna, (Foto Arch. Museo C/vico, Torino).

gli anni in cui Boccardo ricerca, in modo personale, analoghe espe-rienze.

È triste ch'egli scomparisse poco dopo perché quel che in Reycend fini per essere il ri-schio d'una facilità e piacevolez-za che guastarono il chiudersi d'una bella carriera pittorica, in

Boccardo era accostalo con vo-lontà assai severa di elaborazione, costituendo, invece che una « ma-niera », come fu per Reycend, la possibilità di un rinnova-mento tecnico ed espressivo. Si pensi, appunto, come queste ri-cerche trovino avvio in lui tra il 1907 e il 1908 al più tardi,

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;prima del '07-'08, quando Boc-cardo preferiva il colore com-patto, unito, perfino a volte di-steso in superfici dal « legato » lievemente serico, non sentisse, già tra il 1902 e il 1901, e perfino prima, qualche necessità o curio-sità di sfilacciare, di rompere, macchiare punteggiando o chiaz-zettando, la materia cromatica.

Sostare, a questo punto, su una riassunzione che del curriculum boccardiano rievochi singolar-mente le opere, anche solo le più importanti, è superfluo. Si può solo osservare che la cronologia boccardiana non è — e forse non andrà neppure in se-guito — tutta perfettamente a posto: qualche zona incerta ri-mane, con opere lievemente oscil-lanti nel tempo, non bene con-nesse ad una indiscutibile data-zione. Ma nel complesso la si-tuazione cronologica si manifesta legata, certo meglio di quanto la critica attenta e quella disattenta possono finora aver pensato; ed io stesso mi trovo a correggere oggi la mia precedente impressione d'una imprendibilità temporale estensiva nell'opera di Boccardo e tale da disturbarne lo studio.

Premesso che in una carriera pittorica valutabile (poiché ci mancano le vere prime prove) di diciassette-venti anni circa, non e possibile né conveniente scender a troppo minuziose perio-dizzazioni e stacchi di fasi, si noti che nel non molto materiale su-perstite dell'artista, i dipinti — su tela, tavola, cartone — sono quasi tutti datati, ad ecce-zione di poche unità. Le date si susseguono in modo quasi regolare dal 1902 al 1911, ma si può parlare di sicurezza di datazione entro il periodo 1896-1912 in quanto non poche opere senza data scritta, si datano perfettamente in base ad avveni-menti famigliari: la giovinezza a Casalborgone, le nozze, l'età delle figlie, riferimenti di let-tere, la morte dell'artista stesso. In tal modo vengono a sistemarsi cronologicamente « ad annum », alcuni altri dipinti, molti ac-querelli e parecchi disegni.

Risulta utile e controllabile anche in base allo stile, l'infor-mazione da parte della figlia Emilia, che il padre si dedicò all' acquerello in due mom enti della sua carriera: gli anni della

« cascina Boccardo », cioè tra il 1896 e il 1898 — con le nozze nel '99 egli già aveva abbando-nato quell'ambiente — e intorno al 1906 e poco dopo, il tempo cioè dei « Pupazzi giapponesi », datati appunto ed 1906 e di quelle cinque « nature morte di frutti e oggetti » che sfortuna-tamente emigrarono, una per finire a Montevideo, le altre in ubicazione ignota, probabil-mente pure nell'America del Sud, tutte cinque firmate e senza data ma che lo stile e la calligrafia assunta dalla firma, consigliano di porre sul '07-'08.

Quanto, infine, ai disegni, se molti trovano databilità agevole per la tematica che li lega a luoghi e momenti della vita del-l'autore, altri sono preparatori per dipinti datati, restringen-dosi cosi d'assai il numero di fogli di collocazione incerta. Nul-la più si può dire delNul-la trentina (e oltre) di disegni e acquerelli distrutti negli anni 1942-43, perché comparsi alla « postuma » del '13 senza indicazioni sin-gole, e si perdette cosi certo qualche elemento prezioso di rac-cordo.

Federico Boccardo - Testina di bambina (disegno a matita) 1903 - Sciolze - Collez. Emilia Boccardo.

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Stiamo andando verso la demonetizzazione dell'oro?

Giorgio Brosio

1. Nella contesa che l'oppone al dollaro per la supremazia nel sistema monetario inter-nazionale, l'oro sembra aver perso in seguito ai recenti avvenimenti una serie di j^osizioni im-portanti. Negli ambienti finanziari americani si vanno moltiplicando le dichiarazioni che l'era del metallo giallo nelle transazioni inter-nazionali sta volgendo al termine e che esso, seguendo la sorte dell'argento, è destinato a sparire dalle riserve valutarie e a diventare un bene particolarmente apprezzato per le sue intrinseche qualità, senza più alcuna fun-zione come mezzo di scambio.

Non mancano nella recente evoluzione del sistema internazionale gli elementi a dimostra-zione di questa tesi.

Il prezzo dell'oro negoziato al mercato li-bero, dopo aver raggiunto la punta massima di quasi 44 dollari l'oncia nel marzo 1968, ha iniziato una velocissima discesa finendo per attestarsi all'intorno della quotazione ufficiale (35 dollari) nel dicembre dello scorso anno ed è probabilmente t r a t t e n u t o da una ulteriore di-scesa dall'azione di sostegno praticata dalle banche svizzere e dall'accordo recentemente intervenuto fra Stati Uniti e Sud Africa sulla ripresa delle vendite di oro al Fondo monetario. Le aspettative degli speculatori di una sostan-ziosa rivalutazione del prezzo ufficiale si sono quindi nettamente invertite.

In secondo luogo, l'attivazione dell'accordo raggiunto nel 1967 sui diritti speciali di prelievo e la buona disposizione subito mostrata da parecchie nazioni a servirsi della nuova forma di liquidità internazionale vengono interpretati come un indice significativo della volontà di superare l'attuale sistema volgendolo verso un assetto basato su una più accentuata colla-borazione internazionale. Se l'attuale ritmo di distribuzione dei D S P verrà m a n t e n u t o nel prossimo futuro, essi supereranno ben presto la q u a n t i t à di oro tenuta nelle riserve valutarie.

Infine, e soprattutto, sta l'aumento dello stock aureo tenuto nelle riserve valutarie ame-ricane. Dopo una ininterrotta discesa iniziata nel 1957, le riserve americane sono a u m e n t a t e nel 1969 di un miliardo di dollari. Non è t a n t o

l'ammontare assoluto, per quanto rilevante, ad essere significativo quanto piuttosto il muta-mento di attitudini che esso sottintende. Paesi conservatori in campo monetario come Francia e Germania, restii per quanto possibile a ven-dere oro, hanno recentemente effettuato alcune vendite per far fronte agli impegni, preferendo tenere nelle riserve dei titoli fruttiferi.

Un simile comportamento, soprattutto nella congiuntura inflazionistica che caratterizza at-tualmente l'economia americana, non può non riflettersi in un maggiore interesse sulle sorti del dollaro ed in una maggiore cooperazione internazionale per mantenerne la forza.

La logica della demonetizzazione dell'oro appare a questo punto molto semplice: l'uti-lizzazione dell'oro a fini monetari presenta una serie notevole di inconvenienti che solo la pro-spettiva di un futuro aumento del suo prezzo riesce a compensare. Svanita quindi, come ap-pare al momento attuale, questa possibilità per il declino delle quotazioni sul mercato libero, l'oro è destinato ad uscire dalle riserve ufficiali per esservi sostituito, a seconda delle tesi, o dalla moneta nazionale usata prevalentemente negli scambi internazionali e cioè il dollaro, o da una nuova forma di liquidità sorta dalla cooperazione internazionale, quali i diritti di prelievo ai quali potranno essere apportate opportune modificazioni.

La tesi, allettante per la sua semplicità, presenta però alcuni punti deboli, soprattutto l'asserita diminuzione f u t u r a del prezzo del-l'oro, su cui essa si impernia, non sembra essere derivabile dalla semplice estrapolazione di al-cuni fatti recenti, viziata inoltre da evidenti giudizi di valore.

D a t a la complessità del problema, in cui si intrecciano elementi politici oltreché ovvia-mente economici, un giudizio meno azzardato richiede invece l'interpretazione degli avveni-menti alla luce della logica dell'intero sistema.

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com-porta un costo elevato di immobilizzazione di risorse produttive. (È nota la vecchia critica che il sistema è tanto più sicuro quanto mag-giore è la quantità di oro scavata nelle miniere e depositata nei forzieri delle Banche Centrali per esservi utilizzata il meno possibile). In aggiunta, l'uso di una merce come moneta pre-senta un elevato grado di inefficienza nella regolazione delle transazioni, per le scomodità di uso connesse alle caratteristiche fisiche della merce stessa.

I due elementi negativi, combinati insieme, originano nel sistema una serie di pressioni che, qualora non controbilanciate, conducono inevitabilmente alla crisi dell'intero sistema. Infatti, l'elevato costo di immobilizzazione introduce una tendenza nel sistema a ridurre il fabbisogno di oro a scopi monetari, mentre i fabbisogni addizionali di liquidità, necessari a fronteggiare il crescente volume di scambi ori-ginato da un'economia mondiale in espansione, vengono soddisfatti con il ricorso — in man-canza di una agenzia internazionale o di una banca mondiale avente il compito ed il potere di emettere una moneta di credito interna-zionale — alla moneta nainterna-zionale più a d a t t a per le sue caratteristiche (convertibilità a li-vello ufficiale e diffusione nelle transazioni in-ternazionali) ad essere affiancata all'oro nelle riserve monetarie, cioè il dollaro.

Si origina cosi una doppia tendenza dina-mica verso l'instabilità del sistema monetario. Un quantitativo quasi stazionario di oro si trova a fronteggiare un volume crescente di mezzi finanziari, mentre l'immissione crescente di dollari nelle riserve valutarie comporta un deterioramento progressivo della posizione in-ternazionale di liquidità del paese emittente, gli Stati Uniti. Gli impegni verso l'estero au-mentano, mentre le riserve auree sono sotto-poste ad una continua emorragia per effetto della tendenza degli altri paesi a mantenere un certo equilibrio fra la quota di oro e le valute immesse nelle riserve valutarie. Il dete-rioramento della posizione internazionale del dollaro diminuisce la fiducia ad esso accordata ed i paesi terzi diventano sempre più restii a continuarne l'accumulazione. Si sviluppa quindi una contraddizione interna al sistema.

D'altro lato, la sostituzione crescente di mezzi finanziari all'oro nella regolazione delle transazioni internazionali e le politiche di pieno impiego intraprese dai Governi generano nel-l'intero sistema una tendenza inflazionistica che gradualmente riduce l'afflusso di oro di nuova produzione alle riserve.

I n f a t t i l'inflazione, fermo restando il prezzo dell'oro, riduce i profitti t r a t t i dalla produzione

di oro, le vecchie miniere meno redditizie ven-gono abbandonate, la prospezione di nuovi giacimenti viene rallentata. Sul lato del con-sumo, l'inflazione si traduce in un abbassamento del prezzo rispetto agli altri beni aggiungendo cosi agli effetti normali sulla domanda causati dallo sviluppo del reddito un ulteriore effetto di sostituzione, sia per la domanda di oro a scopi industriali ed artistici, sia per quella a scopi di tesoreggiamento (cioè per l'oro tesaureggiato come riserva di valore e non in prospettiva di un aumento nel suo prez-zo).

Gradualmente l'inflazione, per il sommarsi di questi effetti, viene a capovolgere la posi-zione delle autorità monetarie nei confronti dell'oro: la politica degli acquisti per sostenere il prezzo monetario al di sopra di quello che si stabilirebbe sul mercato privato si converte gradualmente in una politica di vendita per abbassarne il prezzo al mercato libero al di sotto della quotazione ufficiale.

Si addiviene cosi inevitabilmente ad una situazione in cui, in mancanza di interventi correttivi, si impone una scelta fondamentale: o rivitalizzare il sistema mediante un aumento nel prezzo dell'oro che faceia nuovamente ripren-dere l'afflusso della nuova produzione verso le riserve valutarie, il che non comporta ovvia-mente il ripudio delle altre forme di liquidità oggi presenti nelle riserve, o riformare il sistema eliminando l'oro dalle riserve e introducen-dovi i dollari, o una nuova unità monetaria internazionale.

Il problema che si viene a porre alle auto-rità monetarie nazionali, se è evidente nella sua logica, non è però di facile soluzione date le sue vastissime implicazioni.

Permanendo l'incertezza e accrescendosi l'in-stabilità del sistema nell'assenza di una solu-zione, il campo rimane aperto alle più ampie possibilità per la speculazione privata. La dimi-nuzione degli stock aurei tenuti nelle riserve valutarie a u m e n t a la probabilità di una riva-lutazione del suo prezzo necessaria per restau-rare l'afflusso, mentre l'esitazione dalle autorità monetarie a contrastare la speculazione, im-mettendo sul mercato oro t r a t t o dalle riserve, accresce ulteriormente le aspettative.

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Alla speculazione a lungo termine si vengono quindi a sovrapporre movimenti speculativi a breve termine di intensità e dimensioni cre-scenti. La domanda di oro a scopi privati assume quindi un netto movimento ascensionale, non continuo ma attraverso scatti successivi.

3. L'osservazione dei dati disponibili circa la produzione (esposti nella tabella 1) e la domanda per i vari usi di oro negli ultimi anni fornisce una verifica soddisfacente del succinto schema teorico ora presentato. La produzione mondiale di oro (esclusi i paesi comunisti)

Tavola 1

P R O D U Z I O N E E U S I D E L L ' O R O , 1 9 5 8 - 1 9 6 8

F O N T I E USI 1 9 5 8 1 9 5 9 1 9 6 0 1 9 6 1 1 9 6 2 1 9 6 3 1 9 6 4 1 9 6 5 1 9 6 6 1 9 6 7 1 9 6 8

(in milioni di dollari USA)

Produzione di oro 1 . 0 5 0 1 . 1 2 5 1 . 1 7 5 1 . 2 1 5 1 . 2 9 5 1 . 3 5 5 1 . 4 0 5 1 . 4 4 0 1 . 4 4 0 1 . 4 1 0 1 . 4 2 0

Vendite dell'URSS 2 2 0 2 5 0 2 0 0 2 6 0 2 0 0 5 5 0 4 5 0 5 5 0 «—*

Variazioni nelle riserve auree

uffi-ciali dei Paesi del mondo occid. + 6 8 0 + 6 9 5 - 1 - 3 3 5 + 6 3 0 + 3 3 0 + 8 4 0 + 7 5 0 + 2 1 5 - 5 0 - 6 0 0 - 5 7 0 Altri usi (oro « scomparso ») . . . 5 9 0 6 8 0 1 . 0 4 0 8 4 5 1 . 1 6 5 1 . 0 6 5 1 . 1 0 5 1 . 7 7 5 1 . 4 9 0 2 . 0 1 0 1 . 9 9 0 Oro detenuto nelle riserve ufficiali 3 9 . 4 8 5 4 0 . 2 2 5 4 0 . 5 0 5 4 1 . 1 1 0 4 1 . 4 8 0 4 2 . 3 0 0 4 3 . 0 1 0 4 3 . 2 3 0 4 3 . 1 8 5 4 1 . 6 0 5 4 0 . 9 0 5

Fonti: Banca dei Regolamenti Internazionali Regolamenti Annuali e Fondo Monetario Internationale International Financial Statistics.

mostra un ritmo d'aumento relativamente co-stante, ma assai tenue, fino al 1963.

A partire da quell'anno gli incrementi di-ventano via via minori, nel 1966 essi si arrestano e negli anni successivi diventano addirittura negativi. Dal canto loro, le vendite di oro sovie-tico, che costituiscono l'altra componente prin-cipale dell'offerta del metallo giallo, dopo aver raggiunto cospicui ammontari, cessano com-pletamente nel 1965; la produzione aurifera in Russia ha raggiunto costi talmente proibi-tivi (le valutazioni si spingono ad un costo di circa 70 $ l'oncia, contro un prezzo ufficiale di 35) da configurare come una svendita l'espor-tazione di oro.

Pur in presenza di una crescente domanda per usi privati, l'offerta di oro permette fino al 1965 di aumentare, sia pure in misura mo-desta, gli stock di oro tenuti nelle riserve ufficiali, gli afflussi sono però fortemente con-dizionati dalle crisi politiche ed economiche sviluppatesi. Significativi sono i dati del 1960 e del 1965: il limitato afflusso coincide nel primo anno con la crisi di sfiducia in America determinata dall'elezione alla Presidenza di Kennedy e nel secondo con la campagna gollista in favore del ritorno all'oro.

A partire dal 1966, l'offerta di oro non solo non permette di accrescere le riserve auree, ma queste mostrano al contrario una riduzione che assume valori elevati nel 1967 e 1968 in coincidenza con l'acuirsi della crisi monetaria, i cui epicentri sono rappresentati dalla c a d u t a della sterlina e del franco francese.

Purtroppo assai carenti sono le statistiche relative alla domanda privata di oro. Nella tabella riportata essa è calcolata per differenza fra gli incrementi nell'offerta e l'utilizzazione per scopi monetari, manca totalmente ogni suddivisione fra i vari usi privati ed in partico-lare la distinzione, che qui interessa, fra consumi per uso industriale e fra risparmi e investi-menti a scopo precauzionale e speculativo.

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1-3-68 1968 1969 1970

A n d a m e n t o del prezzo d e l l ' o r o sul mercato di Londra.

aggiustamenti nelle parità ha permesso di fer-mare l'emorragia di oro dalle riserve monetarie, anzi per effetto di taluni acquisti effettuati da Congo e Portogallo, in deroga all'implicito di-vieto posto dagli Stati Uniti, si è registrato un leggerissimo aumento pari a circa 135 milioni di dollari.

La tendenza alla ripresa dell'afflusso di oro nelle riserve monetarie si rafforza nei primi mesi del 1970 in seguito all'accordo interve-nuto in dicembre fra Stati Uniti e Sud Africa.

Come è noto, in virtù dell'accordo il Sud Africa potrà cedere al Fondo al prezzo ufficiale i quantitativi di oro necessari a fronteggiare i deficit realizzati dai suoi scambi con l'estero. L'applicazione dell'accordo è immediata: stando alle ultime rilevazioni nei primi due mesi del-l'anno in corso le cessioni sono a m m o n t a t e a 230 milioni di dollari ed è ragionevole la pre-visione per il prossimo futuro, a meno che si abbiano a verificare nuove crisi, di una conti-nuazione all'accumulo, sia pure assai limitato, di oro nelle riserve valutarie.

Prima che le contraddizioni inerenti all'uso monetario dell'oro siano giunte a piena m a t u -razione, si sono dunque inserite nel sistema le crisi di alcune delle principali valute, dovute si in parte alle contraddizioni precedentemente

descritte, ma soprattutto alla mancanza di un efficace meccanismo di aggiustamento fra le varie monete, derivante dalla vigente fissità dei tassi di cambio. Superate, sia pure con estrema difficoltà le crisi, il sistema monetario sembra negli ultimi tempi riprendere lenta-mente la marcia verso la scelta finale prece-dentemente descritta.

La produzione di oro procede infatti ad un ritmo sempre più rallentato, mentre i lievi incrementi negli stock aurei non sono sufficienti a mantenere la quota rappresentata dall'oro nel complesso delle riserve valutarie mondiali (la percentuale rappresentata dall'oro sul totale delle riserve è passata dal 60,1% del 1960 al 40,9% del terzo trimestre del 1969).

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conti-nuerà a svilupparsi a ritmo sostenuto, si rafforzeranno le aspettative di un futuro au-mento del suo prezzo e quindi gli incentivi alla sua detenzione nelle riserve ufficiali.

Per il momento, con la discesa delle quota-zioni gli Stati Uniti hanno vinto il primo round nel braccio di ferro che li oppone ai paesi europei per la supremazia monetaria mondiale. La diminuzione del prezzo non pare però ascri-vibile a fattori operanti nel lungo periodo, ma piuttosto al riequilibrio raggiunto nel sistema dopo i raggiustamenti nelle parità valutarie. Inoltre, fra i fattori che hanno contribuito al mutamento di aspettative negli speculatori vanno annoverati:

— la crisi economica francese, seguita agli avvenimenti del maggio 1968, che ha posto in difficoltà la bilancia dei pagamenti. Le conver-sioni di dollari in oro sono state troncate, anzi si è resa necessaria una uscita netta di oro per fronteggiare le pressioni dei capitali spe-culativi;

— i sintomi di un rallentamento nella con-giuntura inflazionistica negli USA, che ha raf-forzato la posizione internazionale del dollaro. Come si è accennato all'inizio, nell'ultimo anno le riserve auree statunitensi sono aumentate di un miliardo di dollari dopo il gravissimo dissanguamento che durava da 12 anni:

— il fallimento della politica speculativa del Sud Africa, che aveva cessato, dopo l'accordo del marzo 1968 sullo sdoppiamento del mercato aureo, le vendite di oro sui mercati internazio-nali nell'intento di far salire le quotazioni e rendere in tal modo inarrestabile la spinta alla rivalutazione del suo prezzo. Le difficoltà incontrate nella bilancia dei pagamenti hanno invece costretto i Sudafricani a ricercare l'accor-do con gli USA per riprendere le vendite sul mercato ufficiale;

— l'immissione di nuova liquidità nei cir-cuiti internazionali attraverso la creazione dei diritti speciali di prelievo, che ha allentato le pressioni alla rivalutazione dettate dalla necessità di adeguare la liquidità interna-zionale all'aumentato volume degli scambi. Si t r a t t a in questo caso di un fattore destinato ad esercitare la sua azione nel lungo periodo e non solo nel breve, l'esistenza di una garan-zia oro nei confronti dei diritti rendere però t u t t ' a l t r o che pacifica l'affermazione che essi sono destinati a soppiantare l'oro nelle riserve internazionali. (Sul problema è però necessario soffermarsi in seguito).

Il sommarsi di questi fattori ha indubbia-mente ridotto gli acquisti speculativi, anzi scomparse le prospettive di un aumento

imme-diato, gli operatori a breve termine stanno procedendo alla liquidazione delle loro posi-zioni, il che deprime ulteriormente le quota-zioni e rende difficile la previsione del futuro comportamento del prezzo dell'oro.

Al momento attuale il prezzo dell'oro al mercato libero, astraendo dagli acquisti specu-lativi, necessita ancora per non scendere al disotto della quotazione ufficiale del sostegno delle autorità monetarie. Infatti il consumo per usi industriali sommato alla domanda a scopo precauzionale (l'oro domandato come riserva di valore) non arriva ad esaurire l'attuale produzione. (Il consumo per usi industriali viene valutato per il 1970 in un quantitativo pari a 750 milioni di $, l'oro domandato come riserva di valore si aggira su una quota variante fra i 100 e i 300 milioni di $).

Le dimensioni degli interventi di sostegno vanno però sempre più restringendosi. Secondo un recentissimo studio effettuato dal maggiore produttore mondiale di oro, la Consolidated Gold Fields Ltd., la domanda per usi indu-striali è a u m e n t a t a negli anni recenti ad un tasso medio annuo del 7%, ed è prevedi-bile che continuerà a svilupparsi negli anni futuri ad un saggio inferiore di un solo punto, 6%, per effetto delle riduzioni nei programmi spaziali apportate dagli Stati Uniti. Terminato il processo di smantellamento delle posizioni speculative, la domanda supererà ben presto l'attuale produzione ed il prezzo al mercato libero aumenterà sensibilmente nei prossimi anni. Valutazioni leggermente meno ottimisti-che, ma sempre nella stessa direzione, vengono f a t t e negli ambienti finanziari europei. Anche Edward Bernstein, antico direttore di ricerca presso il Fondo Monetario, ha calcolato che, ter-minate le vendite degli speculatori, il prezzo aumenterà ad un saggio annuale del 2%, atte-standosi nel 1980 ad una quotazione di 45 $ all'oncia.

Di fronte al previsto consistente aumento della domanda, l'offerta non sembra posse-dere un'analoga elasticità di sviluppo, la scarsa redditività attuale della produzione ha rallen-t a rallen-t o la prospezione di nuovi giacimenrallen-ti, menrallen-tre il divario esistente fra costi e prezzi nella maggior parte dei paesi produttori impedirà all'offerta di rispondere tempestivamente agli aumenti nel prezzo.

A lungo termine quindi sono ragionevoli le previsioni di un aumento del prezzo dell'oro.

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il cui valore è destinato ad aumentare in misura non indifferente nel prossimo futuro. Malgrado i notevoli inconvenienti precedentemente passati in rassegna, l'uso monetario dell'oro viene an-cora considerato dalle autorità monetarie come un elemento di autonomia e di indipendenza nei difficili rapporti monetari internazionali. Ad esso è diffìcile rinunciare prima che la cooperazione internazionale abbia raggiunto livelli più sod-disfacenti, soprattutto in riferimento alla cre-scente immissione di dollari nei circuiti monetari.

Si aggiunge inoltre la questione dei diritti speciali di prelievo ? La garanzia oro che è stata loro assegnata li rende, in previsione di un aumento futuro nel prezzo dell'oro, meno utili per i paesi potenzialmente deficitari degli altri mezzi finanziari ed egualmente utili all'oro per i paesi potenziali creditori. Fintantoché per-marranno le aspettative di un aumento nel prezzo dell'oro, l'uso dei diritti speciali rischia di essere confinato ai soli paesi deficitari, che comunque dovrebbero regolare le loro pen-denze in oro. La loro creazione tende quindi a configurarsi più come un passo ulteriore nella collaborazione internazionale volta a fornire

al sistema nuovi mezzi di liquidità, che come un punto di svolta del sistema in direzione della demonetizzazione dell'oro.

Infine, indipendentemente dal prezzo del-l'oro, la demonetizzazione appare un passo troppo lungo da compiere nella ristrutturazione del sistema. La sua evoluzione lungo le linee esterne, attraverso cioè la cooperazione e gli accordi internazionali e al di fuori dei momenti di crisi, avviene infatti con gradualità ed estrema lentezza correggendo e controbilan-ciando le malformazioni e gli squilibri che via via si presentano. Le scelte fondamentali fra sistema aureo puro e sistemi basati su una moneta nazionale od internazionale, su cui disquisiscono con frequenza gli studiosi, sono troppo drastiche.

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Spunti di finanza regionale

Attilio Gaboardi

1. Qualche premessa.

La finanza delle quindici Regioni a statuto ordinario costituisce un argomento attualissimo e di grande importanza. Può essere utile cono-scerne le impostazioni tecniche fondamentali.

Questa finanza è il risultato ultimo di un processo di chiarimento iniziatosi nel 1962, con la presentazione di un disegno di legge rimasto senza seguito sul piano parlamentare ma che ebbe il conforto di spunti critici e sug-gerimenti poi tenuti in buon conto.

La sua intelaiatura apparve in un secondo disegno di legge presentato nell'estate dello scorso anno, quando il panorama politico si oscurava ma quello della finanza pubblica si rischiarava, almeno sul lato di quegli introiti tributari ai quali ci si deve pur affidare per il varo responsabile di un'operazione cosi ampia, cosi incidente e che dovrà durare cosi a lungo, come quella regionale; essa venne poi miglio-rata dall'apporto degli studiosi, recepito dai parlamentari con un'attenzione davvero incon-sueta, nei travagliati mesi in cui si svolse la discussione della legge alla Camera dei deputati.

D'altronde lo scarso successo della program-mazione e l'incapacità delle strutture centrali ad affrontare i compiti sempre più vasti della società italiana — compreso quello di mandare ad effetto alcuni grandi piani d'investimento che Governo e Parlamento pur finanziarono ed approvarono •—• avevano già convinto che nel campo economico, in quello sociale ed anche in quello finanziario si devono contra-stare, se non vincere, le tendenze accentratrici di risorse e spese che negli anni sessanta avevano compiuto passi da gigante, come le statistiche ben dimostrano. E la dimensione regionale è parsa quella giusta per il formarsi di un nuovo stile, sul piano delle grandi scelte politiche e dei sistemi di finanza che le sostengono.

A questi motivi di convenienza fecero da sfondo alcune valutazioni meno note, ma forse altrettanto valide.

1) Negli anni sessanta sono entrate in crisi alcune regole di finanza pubblica ritenute fondamentali: dal principio dell'unità del

bi-lancio statale, forzatamente contravvenuto nel quadro pluriforme di unità economiche a cui bisogna trasferire una quota prefissata di mezzi tributari raccolti in prevalenza dallo Stato, perché sviluppino dignitosamente le attività che a loro competono; al principio dell'universalità dello stesso bilancio, anch'esso contravvenuto quando a posteriori, per esempio, si riconosce il deficit di gestioni operanti nel sistema della sicurezza sociale e se ne dispone la copertura; fino alla regola della competenza, distorta da un accertamento dei tributi non sempre tempe-stivo e dalla difficoltà di compiere, effettiva-mente e j:>resto, anche le spese difficili.

Dato il nostro tipo di bilancio, che è di com-petenza pura, anche il concetto di deficit non è più sicurissimo, se è vero come sembra vero che sul piano della cassa il pareggio venne già raggiunto in qualche anno ed in qualche altro persino sujjerato, sia pure con la giusta preoc-cupazione di agire sul sistema dei prezzi attra-verso un volume di spesa pubblica « regolato ».

Anche questa piccola serie di spostamenti teorici, mentre riflette l'ansia di tenere il passo con un progresso economico che cammina velo-cemente, porta diritto a desiderare che lo sforzo futuro sia meno ansioso e più efficace; ciò che si può ottenere con una distribuzione di « com-petenze » meglio allineata sui tempi che si profilano e con una finanza capace di sorreggerle.

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