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Spunti di finanza regionale

Nel documento Cronache Economiche. N.331, Luglio 1970 (pagine 27-35)

Attilio Gaboardi

1. Qualche premessa.

La finanza delle quindici Regioni a statuto ordinario costituisce un argomento attualissimo e di grande importanza. Può essere utile cono-scerne le impostazioni tecniche fondamentali.

Questa finanza è il risultato ultimo di un processo di chiarimento iniziatosi nel 1962, con la presentazione di un disegno di legge rimasto senza seguito sul piano parlamentare ma che ebbe il conforto di spunti critici e sug-gerimenti poi tenuti in buon conto.

La sua intelaiatura apparve in un secondo disegno di legge presentato nell'estate dello scorso anno, quando il panorama politico si oscurava ma quello della finanza pubblica si rischiarava, almeno sul lato di quegli introiti tributari ai quali ci si deve pur affidare per il varo responsabile di un'operazione cosi ampia, cosi incidente e che dovrà durare cosi a lungo, come quella regionale; essa venne poi miglio-rata dall'apporto degli studiosi, recepito dai parlamentari con un'attenzione davvero incon-sueta, nei travagliati mesi in cui si svolse la discussione della legge alla Camera dei deputati.

D'altronde lo scarso successo della program-mazione e l'incapacità delle strutture centrali ad affrontare i compiti sempre più vasti della società italiana — compreso quello di mandare ad effetto alcuni grandi piani d'investimento che Governo e Parlamento pur finanziarono ed approvarono •—• avevano già convinto che nel campo economico, in quello sociale ed anche in quello finanziario si devono contra-stare, se non vincere, le tendenze accentratrici di risorse e spese che negli anni sessanta avevano compiuto passi da gigante, come le statistiche ben dimostrano. E la dimensione regionale è parsa quella giusta per il formarsi di un nuovo stile, sul piano delle grandi scelte politiche e dei sistemi di finanza che le sostengono.

A questi motivi di convenienza fecero da sfondo alcune valutazioni meno note, ma forse altrettanto valide.

1) Negli anni sessanta sono entrate in crisi alcune regole di finanza pubblica ritenute fondamentali: dal principio dell'unità del

bi-lancio statale, forzatamente contravvenuto nel quadro pluriforme di unità economiche a cui bisogna trasferire una quota prefissata di mezzi tributari raccolti in prevalenza dallo Stato, perché sviluppino dignitosamente le attività che a loro competono; al principio dell'universalità dello stesso bilancio, anch'esso contravvenuto quando a posteriori, per esempio, si riconosce il deficit di gestioni operanti nel sistema della sicurezza sociale e se ne dispone la copertura; fino alla regola della competenza, distorta da un accertamento dei tributi non sempre tempe-stivo e dalla difficoltà di compiere, effettiva-mente e j:>resto, anche le spese difficili.

Dato il nostro tipo di bilancio, che è di com-petenza pura, anche il concetto di deficit non è più sicurissimo, se è vero come sembra vero che sul piano della cassa il pareggio venne già raggiunto in qualche anno ed in qualche altro persino sujjerato, sia pure con la giusta preoc-cupazione di agire sul sistema dei prezzi attra-verso un volume di spesa pubblica « regolato ».

Anche questa piccola serie di spostamenti teorici, mentre riflette l'ansia di tenere il passo con un progresso economico che cammina velo-cemente, porta diritto a desiderare che lo sforzo futuro sia meno ansioso e più efficace; ciò che si può ottenere con una distribuzione di « com-petenze » meglio allineata sui tempi che si profilano e con una finanza capace di sorreggerle.

Sul lato dei tributi, alcune constatazioni favorevoli hanno tolto dall'incertezza di poter finanziare come si conviene l'istituto regionale. Le cifre con molti zeri che in tempi diversi furono segnalate come necessarie per questo istituto, in effetti oggi fanno meno paura, perché al limite sono reperibili nella crescita degli introiti fiscali che si verifica da un anno all'altro e perché si è visto che le Regioni, istituite oggi, « costeranno » grosse cifre soltanto fra tre-quattro anni, quando le entrate fiscali saranno certamente cresciute ancora. Per cui si t r a t t a davvero di scegliere tra un modo e un altro modo di spendere del danaro pubblico che, almeno in prospettiva ma per quanto serve, è disponibile anche per le Regioni.

2) Circa il modo d'andare incontro a questa nuova finanza dev'esserci stato un ripensa-mento su alcuni dei « temi » che la gente ha imparato a conoscere, tanto sono in evidenza; per esempio, quello dei tempi tecnici essenziali per l'impianto dei servizi pubblici e per gli investimenti deve aver avvertito che la finanza regionale è anch'essa un congegno nel quale entrano tempi tecnici non raccorciabili a pia-cere. Cosi è sembrato logico non fermarsi sul puro e semplice costo preventivo dei nuovi enti (1) e pensare, piuttosto, che questa finanza risulterà dal movimento d'affari sviluppato dai nuovi enti. Ma proprio mettendosi con realismo su questa strada, s'immaginò una fase d'avvio dal costo molto modesto (2), alla quale seguirà la fase in cui determinate « fun-zioni » dello Stato diventeranno regionali gra-dualmente, attraendo quindi un costo che crescerà anch'esso gradualmente (3).

Ancora realisticamente venne concepito un congegno che toglierà allo Stato la spesa ora destinata alle funzioni regionali e che trasferirà ad esse, definitivamente e puntualmente, anche u n ' e n t r a t a fiscale di pari importo. Se il congegno che « toglie e trasferisce » dovesse agire in sciol-tezza, almeno in un primo tempo il contri-buente italiano non sopporterebbe uno sforzo maggiore di quello che ora sopporta.

3) Le quindici nuove Regioni nascono per un decentramento effettivo di attività che lo Stato svolge in prima persona; e perciò alcune funzioni statali vengono decentrate alla loro competenza. Esse non nascono per accentrare nel capoluogo regionale alcuna delle funzioni che adesso sono svolte dai Comuni e dalle Province.

Al decentramento di funzioni terrà dietro quello dei mezzi finanziari. La finanza regionale sarà quindi, in una certa misura, per quanto riguarda la spesa, quella che il decentramento delle funzioni avrà voluto che sia.

D a t a però la necessità che queste funzioni non restino a lungo imprecisate (4), con appo-siti decreti aventi valore di legge il Governo stabilirà entro due anni quale parte di esse rimarrà attribuita agli organi centrali e perife-rici dello Stato e quale parte entrerà invece nella competenza delle Regioni; fermo restando allo Stato « l'indirizzo ed il coordinamento delle attività regionali che attengono ad esi-genze di carattere unitario ».

Parecchie decisioni importanti sono dunque ancora da prendere, anche in ordine al « tra-sferimento degli uffici periferici dello Stato » e di un « contingente di personale statale ». Si t r a t t a precisamente di definire la p o r t a t a

di quell'interesse regionale a cui la Costituzione accenna per alcune materie; cosa non facile, dovendosi riferire non più a « spese » ma ad « attività » specifiche, a servizi precisi e ad amministrazioni od enti esaminabili ad uno ad uno. D'altronde nei due decenni trascorsi dall'entrata in vigore della Costituzione le attività pubbliche si svilupparono o modifi-carono cosi profondamente che l'interesse na-zionale, quello interregionale, quello regionale e quello soltanto locale sono da scoprire quasi appositamente.

Con i decreti emessi dal Governo per delega del Parlamento si costruirà il rapporto Stato-Regione, di cui t a n t o si discute, nei dettagli concreti. E se è stato bene non approfondire questi dettagli in una legge finanziaria, la necessità di costruire un rapporto serio, esau-riente e vincolante anche sul punto della qua-lificazione e separazione degli interessi, materia per materia, è già attualissima. In questo modo si spiegano l'obbligo del Governo di « sentire preventivamente le Regioni » sulle proposte di decreto, la loro possibilità di avanzare osser-vazioni in un tempo stabilito ed il dovere, an-cora del Governo, di sottoporre il t u t t o — pro-poste ed osservazioni — alla Commissione par-lamentare per le questioni regionali. Si avvierà insomma un colloquio Governo-Regione breve ma completo, f a t t o di tesi e di controtesi che investiranno t u t t a la serie dei compiti, degli interessi e degli enti, organi, comitati, organismi, istituti ed aziende ora operanti.

(1) Questo costo, era stato calcolato:

— in 220 miliardi, nel 1961, dalla Commissione Tupini (57 di spese normali e 163 di spese per funzioni statali tra-sferite) ;

— in 494 miliardi, nel 1966, dal Comitato Carbone (di cui 110 per spese normali ed il resto per spese trasferite); — in 1.116 miliardi, da Luigi Einaudi, come risultato dell'assunzione del modello più costoso; in alternativa a quello di 211 miliardi derivante dal modello meno costoso.

(2) È il periodo dell'impianto e del primo funzionamento, che parte dalla convocazione dei comizi elettorali e termina quando comincerà il trasferimento delle funzioni statali.

In sede finanziaria le Regioni avranno ciascuna una quota della somma di 2 miliardi stanziata nel bilancio statale del 1969.

Dal bimestre successivo alla data di approvazione dello statuto regionale, scatterà poi l'attribuzione del gettito delle imposte fondiarie statali (terreni, fabbricati e redditi agrari). (3) Essa inizia con il trasferimento delle funzioni; in sede finanziaria comincia il riparto di un fondo comune alimentato da tributi erariali.

(4) Poiché la legge 17 febbraio 1968 n. 108 riguarda sol-tanto l'elezione dei Consigli regionali, l'unica indicazione delle «materie» è ancora quella degli artt. 117 e 118 della Costituzione; il primo dei quali elenca quelle su cui le Regioni emanano norme legislative, mentre il secondo stabilisce che alle Regioni spettano le « funzioni amministrative » in tali materie (e, inoltre, che con legge possono essere a loro delegate funzioni amministrative dallo Stato anche in altre materie).

2. L'argomento del costo.

Esaurite in breve le premesse, occorre par-lare del « costo », indicato in 700 miliardi all'anno.

Bisogna intanto dire che questo costo, quantunque compiuto sulla scorta di norme legislative, scaturisce da un calcolo extra-lege di fonti d'entrata. Più che di un costo, si do-vrebbe parlare pertanto di un introito regio-nale complessivo di 700 miliardi.

Ma poiché le fonti d'entrata sono in sostanza alcuni tributi statali e poiché questi tributi statali sono in notevole crescita per una ragione o per l'altra, quando il congegno che « toghe e trasferisce » sarà scattato completamente l'in-troito regionale complessivo supererà certa-mente i 700 miliardi. Se nonostante ciò risul-tasse che le funzioni trasferibili comportano una spesa superiore, le fonti d'introito sarebbero aumentate in misura tale da coprire la diffe-renza. Non è prevista la riduzione per l'ipotesi opposta.

È previsto invece che l'introito si adeguerà al graduale ed effettivo trasferimento delle funzioni e delle spese. Il congegno finanziario di cui prima si parlava, muovendosi anch'esso gradualmente, scatterà quindi completamente entro un certo numero di anni, ora non preve-dibile, durante i quali l'introito complessivo resterà inferiore ai 700 miliardi.

Quale valutazione si può trarre da ciò ? Probabilmente quella che l'idea di un costo fine a se stesso e tra l'altro non ancora deter-minabile è superata, essendosi affermato il principio che l'escalation degli introiti regio-nali dipenderà dal trasferimento effettivo delle funzioni e delle spese. A nostro modo di vedere questa valutazione è positiva. Specialmente oggi che tutto è « problema », almeno nel modo di esprimerci, bisognava sventare il pericolo che molti o moltissimi miliardi giacessero inu-tilizzati nelle casse regionali, come vistosamente accade in quattro regioni a statuto speciale (Valle d'Aosta, Trentino-Alto Adige, Sardegna, Friuli-Venezia Giulia), oppure venissero spesi solo perché apparissero utilizzati, mentre altri grossi « problemi » attendono un finanziamento. Ad una finanza ricca di mezzi ma povera di capacità effettive di spesa ne è stata giustamente preferita un'altra più realistica, la quale si appoggia ad un flusso di introiti in grado di riportarla continuamente in equilibrio e capace di finanziare attività ben individuate; una finanza che non disperderà risorse, nel periodo assai delicato durante il quale ben quindici altre regioni italiane si inseriscono nel vivo

delle nostre comunità, ed anzi trasparente al massimo grado possibile per quanto riguarda le entrate.

3. L'argomento dei " mutui ".

La legge sulla finanza regionale dice che gli investimenti regionali « possono » essere fi-nanziati con i mutui, cioè con il debito pubblico.

Sembra a prima vista che quella del mutuo sia l'unica fonte a cui le Regioni attingeranno le grosse cifre delle opere pubbliche, delle par-tecipazioni azionarie e cosi via. E si teme che la via dei mutui, già battuta dagli enti locali e da qualche tempo anche dallo Stato, si in-golfi più di quanto non sia già ingolfata. Invece vorremmo proprio far credito al senso di pru-denza che ispira quel « possono » inserito nella norma, interpretandolo come un preciso avver-timento ai prossimi Consigli Regionali che essi dovranno prima di tutto far conto sul risparmio pubblico (entrata fiscale eccedente gli oneri per il funzionamento dei servizi) nella maggior misura possibile.

Nella legge è ben chiara la preclusione ai mutui per il pareggio del bilancio; cioè a quel tipo di mutuo che qualcuno ha chiamato uno « stravagante meccanismo » perché in sostanza, coprendo l'eccesso delle spese normali sulle entrate normali, ribalta sul futuro un peso che a lungo andare estenua soltanto e non profitta nulla. L'esperienza di migliaia di enti locali ha evidentemente insegnato che il mutuo è un mezzo di finanziamento già straordinario e quindi utilizzabile soltanto per occorrenze esse pure straordinarie.

Opportunamente, pertanto, il legislatore ha indicato alcuni limiti all'assunzione del debito pubblico.

Il primo limite riguarda il tipo d'investi-mento. Sono finanziabili sul debito soltanto quelli rientranti nelle funzioni regionali, origi-narie o delegate. I mutui per assumere parte-cipazioni in società finanziarie sono ammessi se a queste società partecipano anche altri enti pubblici. L'accenno a questi altri enti è certo utile. Però, a nostro avviso, la parteci-pazione finanziata sul debito è sempre da scorag-giare, in quanto complica i collegamenti e perché le « quote » di accesso dovrebbero essere sempre cosi modeste da trovare agevole copertura nel risparmio pubblico.

Il secondo limite riguarda il livello dell'inde-bitamento complessivo. Il rimborso dei mutui non deve superare annualmente il quinto delle entrate di natura tributaria. (Il Piemonte, ad esempio, con un'entrata di 59 miliardi annui potrà destinare al rimborso dei mutui una

cifra massima di 12 miliardi all'anno e potrà quindi accenderne per 120 miliardi in totale). Questo limite è diverso e più severo di quello dei Comuni. Ma si può prevedere fin d'ora che esso entrerà in azione tra non pochi anni.

Il terzo limite riguarda la copertura degli oneri futuri per il rimborso dei mutui, la quale dovrà essere assicurata fin dal momento in cui i mutui vengono accesi. E il limite che si comprende di meno, in quanto è poco compa-tibile con una politica di investimenti attua-bile solo mediante le spese pluriennali ancorate al credito, allorché il risparmio pubblico sarà esaurito.

In complesso i tre limiti lasciano un margine ragionevole agli impegni finanziari per gli investimenti; il cui procedere sarà tanto più snello quanto più i canali del credito risulte-ranno aperti ed i contributi speciali allenterisulte-ranno il bisogno di ricorrervi.

4. Entrate ed autonomia.

La legge parla molto di entrate ed abba-stanza poco di spese. Per quali motivi ?

Se ne possono citare almeno quattro: 1) essa attua un precetto costituzionale che accenna prevalentemente agli introiti; 2) è destinata ad enti che disciplineranno gli altri tre valori dell'attività economica (spesa, patrimonio e bilancio) con proprie leggi; 3) affronta la que-stione, assai dibattuta e delicata, che concerne l'inserimento del sistema degli introiti regionali in quello tributario generale, già congestionato da imposte e tasse dello Stato, delle Province, dei Comuni, ecc.; quindi con la preoccupazione di trovare uno spazio per i tributi regionali autonomi; 4) si rivolge a Regioni presupposte uguali per la capacità di spesa ma diseguali, anzi profondamente diseguali, nella possibilità di procurarsi introiti adeguati (ad esigenze che si potrebbero persino presumere più forti in un territorio più piccolo e viceversa); per cui il riparto degli introiti tra Regioni economica-mente forti, meno forti o deboli, assumeva molta importanza.

L'autonomia ed il riparto delle risorse sono, dal punto di vista tecnico, i due aspetti domi-nanti di una legge che di proposito rimanda ad atti successivi quasi t u t t o l'argomento delle funzioni e delle spese. È interessante infatti conoscere quanta parte dei 700 miliardi verrà data - a ciascuna Regione, ben sapendo che le quindici Regioni hanno una struttura socio-economica diversa ed a volte assai diversa.

1) Per autonomia tributaria si può inten-dere quel che si vuole. Su questo punto sarebbe

facile scrivere pagine bellissime, dopo tutte quelle già scritte. Salva qualche digressione sempre opportuna, bisogna tuttavia propen-dere per un sistema concentrato in organi statali per quanto riguarda l'accertamento e la riscossione dei tributi ma nel contempo decen-trato al massimo negli enti territoriali locali (e quindi anche nelle Regioni) per quel che con-cerne l'impiego autonomo delle somme già riscosse ed assegnate, ad ogni ente, da leggi ben rifinite.

L'autonomia finanziaria è dunque più impor-tante di quella tributaria, perché può essere effettiva anche quando quella tributaria è scarsa.

2) Se questa è l'idea-guida, come venne costruito il sistema degli introiti regionali in una situazione per molti aspetti peculiare qual è quella italiana dei giorni nostri ?

Il disegno di legge per la finanza regionale varcò la soglia del Parlamento appena dopo, ma comunque dopo, quel disegno di legge per la riforma tributaria che rivoluzionerà tutto il campo delle imposte dirette e lascerà invece in essere un certo numero di imposte indirette. Ciò ha fatto utilizzare qualcuna delle imposte indirette che esisteranno anche in futuro, ma ha portato a rinunciare quasi completa-mente alle imposte dirette: a quelle presenti perché scompariranno ed a quelle previste dalla riforma perché la loro sopravvenienza è ancora incerta (5). Dalla quasi-rinuncia alle imposte dirette è derivato un sistema diverso dai sistemi dello Stato e degli enti locali tradizionali.

Inoltre si è dovuto tener conto che la riforma tributaria semplificherà moltissimo il quadro delle voci fiscali, praticamente esau-rendo tutte le possibilità di ulteriore pre-lievo (6).

(5) Le uniche imposte dirette inserite nella finanza regio-nale sono l'imposta sui terreni e fabbricati, per la parte di competenza dello Stato; dopo la riforma tributaria saranno però sostituite da un'imposta corrispondentc e di uguale gettito.

(6) Sulla traccia dell'art. 119 della Costituzione, l'intero sistema degli introiti regionali appare costruito come segue:

a) tributi propri:

1) tassa sulla concessione statale di beni demaniali e patrimoniali indisponibili (escluse le derivazioni idroe-lettriche);

2) tassa sulle concessioni regionali (per le funzioni tra-sferite) ;

3) tassa sull'occupazione di spazi ed aree pubbliche; 4) tassa di circolazione sugli autoveicoli;

b) attribuzione del gettito di tributi statali:

— imposta sul reddito dei terreni e fabbricati e sui redditi agrari (da sostituire con altra, indicata dalla riforma tributaria);

Anziché alle imposte dirette si è fatto ricorso a qualche tassa (7) legata allo svolgimento di pratiche interessanti il cittadino che chiede ini servizio pubblico specificato.

In un profilo tecnico, questo sembra il momento meno adatto per il varo di una legge finanziaria regionale definitiva. Una legge do-veva essere però varata e la sua struttura subisce il condizionamento, incidentale e fortuito, del tempo in cui nasce. Sarebbe stato forse oppor-tuno dichiararne la temporaneità nella parte relativa ai tributi autonomi ed all'assegnazione di tributi erariali, lasciando margini a mo-difiche ed integrazioni esaminabili dopo l'en-trata in vigore di quella per la riforma tri-butaria.

3) Poiché i tributi autonomi (chiamati « pro-pri ») frutteranno soltanto 120 miliardi, con differenze di gettito t u t t o considerato poco rilevanti tra Regione e Regione, in volume ed in pro-capite (8), si t r a t t a v a di distribuire molto attentamente i 580 miliardi restanti. Come si è provveduto a ciò ?

Il riparto di queste altre risorse imposta il suo congegno su un « fondo comune », alimen-tato da un pool di cinque imposte di fabbri-cazione e di una imposta di consumo (9); per ciascuna di queste imposte indirette si precisa la quota di provento riscosso che lo Stato ver-serà al fondo comune (10).

Il riparto verrà fatto in base alla

Nel documento Cronache Economiche. N.331, Luglio 1970 (pagine 27-35)