• Non ci sono risultati.

LETTURA EBRAICA DELLA SCRITTURA

Nel documento per il lettore della Bibbia Vademecum (pagine 176-185)

In italiano la parola «lettura» ha molti significati: può indicare una lettura silenziosa, mentale, come quella che abitualmente si pratica oggi quando si legge un libro, un giornale, un’insegna, una lettera; o una lettura ad alta voce, perché gli altri ascoltino senza avere il testo davanti: è quella che si fa nelle assemblee religiose o civili, a scuola, a gente che non sa leg-gere (gli antichi leggevano sempre ad alta voce, anche quando erano soli, quindi il loro leggere era anche ascoltare); lettura significa infine modo di intendere e interpretare ciò che si legge.

Per accostarci al modo ebraico di leggere la Scrittura, partiamo dun-que da un dato linguistico: dun-quell’insieme di libri che noi chiamiamo Bibbia o, appunto, Scrittura, sono chiamati in ebraico Miqra’, cioè «Lettura» (dal verbo qara’, «leggere ad alta voce, chiamare, gridare»). Ma quale lettura?

«Quindi [Mosè] prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dis-sero: “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto”» (Es 24,7). «Mosè scrisse questa legge e la diede ai sacerdoti figli di Levi, che portavano l’arca dell’alleanza del Signore, e a tutti gli anziani d’Israele. Mosè diede loro quest’or-dine: «Alla fine di ogni sette anni, al tempo dell’anno della remissione, alla festa delle Capanne, quando tutto Israele verrà a presentarsi davanti al Signore, tuo Dio, nel luogo che avrà scelto, leggerai questa legge davanti a tutto Israele, agli orecchi di tutti. Radunerai il popolo, uomini, donne, bambini e il forestiero che sarà nelle tue città, perché ascoltino, imparino a temere il Signore, vostro Dio, e abbiano cura di mettere in pratica tutte le parole di questa legge. I loro figli, che ancora non la conoscono, la udranno e impareranno a temere il Signore, vostro Dio, finché vivrete nel paese in cui voi state per entrare per prenderne possesso, attraversando il Giordano» (Dt 31,9-13).

La lettura-ascolto della Scrittura ha la sua fondazione, la sua istitu-zione nello stesso testo biblico, come si vede dai passi citati e da diversi altri. In certo senso l’evento sinaitico deve perpetuarsi nella sua ripetizione cultuale. Ne abbiamo una testimonianza in un celebre passo di Neemia:

«Allora tutto il popolo si radunò come un solo uomo sulla piazza davanti alla porta delle Acque e disse allo scriba Esdra di portare il libro della legge di Mosè, che il Signore aveva dato a Israele. Il primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere. Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci d’intendere; tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della legge. Lo scriba Esdra stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza, e accanto a lui stavano a destra Mattitia, Sema, Anaià, Uria, Chelkia e Maasia, e a sinistra Pedaià, Misaele, Malchia, Casum, Casbaddana, Zaccaria e Mesullàm. Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore. Giosuè, Banì, Serebia, Iamin, Akkub, Sabbetài, Odia, Maasia, Kelità, Azaria, Iozabàd, Ca-nan, Pelaià e i leviti spiegavano la legge al popolo e il popolo stava in piedi. Essi leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura» (Ne 8,1-8).

Se combiniamo questo testo con i precedenti, notiamo che: la Scrit-tura è indirizzata a tutti, non a una casta ristretta; richiede un assenso o impegno, è insomma una domanda; deve essere capita e perciò deve essere spiegata. Esattamente questa è, in nuce, l’ermeneutica ebraica, dalla tarda epoca biblica a oggi: ed Es 24,7 viene inteso dall’interpretazione rabbini-ca come l’assenso alla lettura-domanda fatta da Mosè. Assenso che è un impegno «prima» a mettere in pratica la Torah, e «poi» a studiarla. Ma lo studio sorregge la prassi e perciò l’interpretazione della Scrittura è condi-zione essenziale del vivere la Scrittura.

La scena descritta in Ne 8, avvenuta verso il 444 a.e.v., o circa cin-quant’anni più tardi (vi sono grossi problemi di cronologia), ci rappresenta per la prima volta un «culto di lettura»: culto che nelle sue linee generali e nel suo spirito è rimasto immutato nella liturgia sinagogale, e che ci mostra come, dei tre significati della parola «lettura», l’ebraismo classico e tutta la tradizione che ne deriva realizzassero il primo e il terzo. In altri termini, vediamo come il popolo fosse davanti al «libro» (ebr. séfer, «rotolo») in posizione di «ascolto», e questo ascolto includesse sia le parole del testo biblico vero e proprio, sia – probabilmente – il targum o traduzione estem-poranea in aramaico, sia l’interpretazione o esegesi, al fine, come afferma Es 24,7, di «eseguire e prestare ascolto».

Esdra, «scriba esperto nella legge di Mosè» (Esd 7,6), dopo l’«apertu-ra» od ostensione del libro della Torah e un rito di benedizione, fa leggere il testo dai tredici notabili o assistenti, «a brani distinti e spiegando il senso». Questa «spiegazione del senso» o «dare senso» (śom śéḵel ) può significare

due cose, probabilmente compresenti: la traduzione simultanea in aramaico, lingua ormai corrente tra i reduci dall’esilio babilonese, e il commento o spiegazione vera e propria, in vista del «vivere la Torah».

In termini tecnici si direbbe: il targum e il midraš. Targum significa «tra- duzione», ma il suo significato generale si è specificato, nell’uso tecnico, a indicare la traduzione in aramaico del testo biblico, in primo luogo del Pen-tateuco o Torah. Poiché la traduzione era fatta per capire, e avveniva in un contesto liturgico, era naturale che tendesse a divenire interpretativa, para-frastica, omiletica: tendesse quindi al midraš. La radice di questo vocabolo è la stessa del verbo daraš, «cercare, investigare»: Esdra «si era dedicato con tutto il cuore a studiare (li-droš) la legge del Signore» (Esd 7,10).

Confrontando fra loro passi affini e collegati della Bibbia ebraica, sco-priamo che il midraš nasce già all’interno della Scrittura stessa per chiarire un termine oscuro, per precisare un passo o una norma troppo generica, per conciliare due passi contrastanti, per attenuare o spiegare un testo sconcer-tante, «scandaloso» (come scrisse Géza Vermes), o anche per reinterpretare teologicamente tradizioni precedenti.

Si trovano esempi di midraš biblico nella cosiddetta fonte sacerdo-tale del Pentateuco, nei libri delle Cronache, nei sapienziali. Si trovano midrašim (plurale di midraš) tra gli scritti di Qumran, soprattutto in forma di pešer, ossia di interpretazione attualizzante, volta a mostrare che si è compiuto ciò che era stato annunciato dai profeti. E in tal senso c’è chi ha definito il Nuovo Testamento un midraš cristiano dell’Antico Testamento. Tutto quanto s’è detto fin qui potrebbe riassumersi simbolicamente in un’immagine: il rapporto dell’ebreo con la parola di Dio non è rappresenta-bile dal fedele che si legge la sua Bibbia, e neppure – a essere precisi – dal fedele che nella sinagoga vede estrarre il rotolo della Scrittura dall’Arca e lo sente leggere. Invece, se in un certo senso sia la lettura sinagogale sia quella di Esdra attualizzano la situazione del popolo ai piedi del Sinai in ascolto di Mosè, in ogni caso tra il fedele che ascolta e il libro che viene letto c’è un terzo elemento, fondamentale: la tradizione, o Torah orale, di cui ora parleremo. È la tradizione che mi offre il senso, anzi i sensi, e che mantiene la parola del Sinai

«molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30,14).

La lettura ebraica della Scrittura, e la «ricerca» in cui consiste, pre-suppongono perciò un quadro di princìpi e di metodi che occorre delinea-re, per comprendere non solo l’esegesi rabbinica, ma anche quella neote-stamentaria (sia come esegesi praticata dagli scrittori neotestamentari, sia come nostra lettura del Nuovo Testamento).

Il primo principio è l’esegesi di una doppia rivelazione: la Torah scrit-ta (Torah še-bi-ḵscrit-tav) e la Torah orale (Torah še-be-‘al-peh). Mosè la fonte, cioè il ricettore e il tradente di entrambe, ed entrambe sono di origine si-naitica; ma una si trasmette per scrittura-lettura, l’altra per tradizione orale, di maestro in discepolo. Così viene descritta la «catena della ricezione» dal trattato rabbinico Pirqe Avot («Capitoli dei padri»), che fa parte della Mišnah, il codice della tradizione normativa, fatto redigere da rabbi Yehu-dah ha-Naśi, alla fine del ii secolo e.v.:

«Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, e gli anziani ai profeti, e i profeti la trasmisero agli uomini della Grande Assemblea [di Esdra]. Essi dissero tre cose: siate ponderati nel rendere giustizia, crescete molti discepoli e fate una siepe alla Torah. Šim‘on il Giusto fu uno degli ultimi della Grande Assemblea. Egli soleva dire: “Su tre cose il mondo si regge: sulla Torah, sul culto e sulle opere di misericordia [...]”» (Pirqe Avot 1,1-2).

La tradizione orale – che, come appare dai Vangeli, è affermata dai fa-risei e rifiutata dai sadducei, dai samaritani e dai più tardivi caraiti – è essa stessa una necessità ermeneutica: ogni cristiano che consideri come gli è giunta la Scrittura e come la intende nella propria Chiesa, non ha difficoltà a capire il principio ebraico delle due Torot (plurale di Torah).

Dio ha rivelato a Mosè, insieme ai «cinque quinti della Torah [scritta]», tutte le spiegazioni necessarie per «eseguire e ascoltare». Di generazione in generazione, i maestri e i discepoli «trovano», scoprono (un criterio razio-nalista direbbe «aggiungono», ma la concezione ebraica è che trovano, e sul trovato discutono e decidono). Un famoso midraš esprime chiaramente questo modo di intendere il rapporto tra l’origine e il nuovo:

«Disse rabbi Yehudah in nome di Rav: Nell’ora che Mosè salì nell’alto dei cieli, trovò il Santo, benedetto sia, che sedeva e annodava coroncine sulle lettere [della Torah]. Gli disse: Signore del mondo, chi trattiene la tua mano [dall’inviarci la To-rah anche senza coroncine]? Gli rispose: c’è un uomo, che verrà alla fine di tante generazioni, e ‘Aqiva ben Yosef è il suo nome. Egli su ogni puntino, con le sue inter-pretazioni, accumulerà cumuli di halaḵot [norme]. Disse Mosè: Signore del mondo, fammelo vedere. Gli rispose: Torna indietro. Andò e sedette in fondo alle otto file [degli allievi di ‘Aqiva], ma non capiva che cosa dicevano, e la sua forza si indebolì. Quand’ecco si giunse a un certo argomento. I discepoli [di ‘Aqiva] gli chiesero: Rabbi, da dove [lo deduci]? Rispose loro: È una halaḵah di Mosè dal Sinai. L’animo di Mosè si riprese, egli tornò e venne al cospetto del Santo, benedetto sia, e gli disse: Signore del mondo, hai un uomo come questo e tu dai la Torah per mano mia? Gli rispose: Taci, così ha deciso il mio pensiero» (Talmud Babilonese, Menaḥot 29b).

Un secondo principio, strettamente collegato al precedente, è quello della diversità di gradi di autorità nella Bibbia. Dio si è manifestato sul

Si-nai, e «tutto il popolo vide [...]» (Es 20,18), mentre i profeti e gli agiografi, come osserva Maimonide, ebbero una rivelazione indiretta e individuale, per visioni e sogni. La Torah sinaitica è il documento dell’alleanza o patto, pubblico, creatore della comunità di Israele; le altre due parti della Scrittu-ra (Profeti e Scritti) valgono in quanto sono predicazione e insegnamento della Torah, suscitati dallo Spirito Santo quando la voce della Torah pare affievolirsi nelle coscienze. Ecco perché un libro privo di voli, come il Le-vitico, è più autorevole di Isaia o Ezechiele: rivela infatti, per bocca di Dio Stesso, Dio in quanto Volontà per l’uomo.

Un terzo principio è quello che Günter Stemberger chiama «principio della parsimonia»:

«Nessuna parola in essa [nella Bibbia] è vana, nessuna lettera inutile. Nella Bibbia non c’è alcuna ripetizione immotivata [...] Dio non si ripete»1.

Quando perciò la nostra mentalità ci porta a ravvisare nelle ripetizioni, nei sinonimi, nei parallelismi, nelle varianti motivazioni letterarie, esteti-che e redazionali, siamo molto lontani dalla lettura ebraica.

In questo «principio della parsimonia» è implicito l’altro criterio er-meneutico rabbinico: se «fra le parole della Torah non ce n’è nessuna che sia simile a un’altra» (Tosefta, ‘Eduyyot 1,1), allora «non bisogna ricavare un unico significato da diversi luoghi della Scrittura» (Talmud Babilonese, Sanhedrin 34a). Viceversa, da ogni passo o parola della Scrittura si posso-no ricavare diversi significati.

La pluralità dei sensi (fra i quali non deve mai essere trascurato il pešat o senso «semplice», immediato) non è un effetto di scarsa chiarezza o di ambiguità dei testi, ma della ricchezza della Parola, che è offerta a una rice- zione multipla, sia di tempi sia di persone: come osserva Emmanuel Levi-nas, «i molteplici sensi sono persone molteplici»2. È questa la ragione per cui nei commenti rabbinici ricorre spesso la formula «altra interpretazione» per introdurre una variante esegetica, e si ha la massima cura di riportare le interpretazioni dei grandi dottori e di chi le riferisce, secondo lo schema: «Disse rabbi Tale a nome di rabbi Talaltro», perché, come si legge nel trat-tato Pirqe Avot 6,6: «Chiunque riferisce una parola nel nome di chi l’ha det-ta, avvicina la redenzione al mondo». Infatti la Torah orale, come abbiamo visto, è un percorso di nomi riceventi e tradenti, a monte dei quali sta Dio.

Spetta poi alla maggioranza decidere, nella pluralità delle interpreta-zioni, la halaḵah, la «via» da seguire nella prassi, mentre resta libera la ag- gadah, la «narrazione» finalizzata a edificare. E se nel contrasto di

inter-1 G.Stemberger,IlrapportoconlaBibbianell’ebraismo,in«Concilium»1(1991),pp.59-69,quip.65.

2 E. Levinas, La Rivelazione nella tradizione ebraica, in Id., L’aldilà del versetto. Letture e discorsi

pretazioni fra la scuola di Hillel e la scuola di Šammay (due grandi maestri di pochi anni anteriori a Gesù), secondo un midraš si udì una voce celeste che disse: «Queste e quelle parole sono del Dio vivente, ma la halaḵah è secondo la parola di Hillel» (Talmud Babilonese, ‘Eruvin 13b), a un’altra voce celeste, che intervenne a favore di una tesi minoritaria, i maestri obiet-tarono: «Non è nei cieli» (Dt 30,12), cioè Dio ha consegnato agli uomini sia la Torah sia i princìpi della sua interpretazione, non tenendosi nulla per sé. Un atteggiamento, questo dei maestri, che fa pensare alla frase di Gal 1,8: «Se [...] un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema».

La Torah è scesa dal cielo, ed è appunto chiamata min-ha-šamayim, «Torah dai cieli» (Mišnah, Sanhedrin 11,1): ciò significa che è destinata agli uomini, non agli angeli. Di qui un criterio di lettura fondamentale (anche se non accettato dall’esegesi mistica, incline a leggere non nel «nero» dello scritto, ma nel «bianco» che lo circonda, e dedita allo ṣeruf, alle permuta-zioni di lettere, alla numerologia ecc.), criterio attribuito a rabbi Yišma‘el (i-ii secolo e.v.): «La Torah ha parlato secondo la lingua degli uomini» (nel midraš Sifre Numeri, sezione Šelaḥ 7 e sezione Wa-etḥannan 9). Lingua degli uomini implica il riconoscimento degli antropomorfismi, del parlare figurato, della mediazione linguistica.

Tuttavia le possibilità del linguaggio sono per l’esegeta ebreo molto più ampie di quanto non sia abituale nel discorso teologico: e non si allude qui al quarto dei quattro sensi teorizzati da Baḵya ben Ašer di Saragozza nel 1291, cioè pešaṭ o senso piano, remez o senso allegorico, deraš o senso omiletico e sod o senso mistico (teorizzazioni comuni anche agli esegeti cristiani). Si allude all’attenzione minuziosa per quelle che James Kugel chiama «irregolarità di superficie» del testo ebraico, al rifiuto assoluto che nella Scrittura ci sia uno spazio anche minimo per il casuale.

Così, per esempio, nell’episodio di Caino e Abele, i maestri si chiedo-no: perché Dio dice a Caichiedo-no: «La voce dei sangui di tuo fratello grida a me dal suolo» (Gen 4,10), e non dice «la voce del sangue»? Una risposta (si badi: una risposta, per quello che si è detto sopra) è che uccidendo Abele, Caino aveva versato anche il sangue dei suoi discendenti, ai quali è stato così negato di nascere (Mišnah, Sanhedrin 4,5).

Come si vede, quando un maestro «apre» la Scrittura, la Scrittura spie-ga se stessa. Perciò molte regole ermeneutiche, di cui le più note sono le tredici regole di rabbi Yišma‘el, entrate perfino nella liturgia, stabiliscono i modi con cui due o più testi vanno accostati perché si illuminino a vicenda. Un caso molto interessante di accostamenti è la ḥarizah, «collana»: quale sia il metodo e la potenza della ḥarizah è illustrato da un episodio narrato dal Talmud Palestinese, Ḥagigah 2,1, 77b. A una festa di circoncisione due maestri, rabbi Eli‘ezer e rabbi Yehošua‘, si appartarono dai canti e dalle

danze e si misero a occuparsi di parole della Torah, «passando dalla Torah ai Profeti e dai Profeti agli Scritti; e un fuoco discese dal cielo e li circon-fuse», mentre essi «facevano una collana» con le parole della Scrittura. La stessa collana che fece Gesù ai discepoli di Emmaus quando,

«cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. [...] Ed essi dissero l’un l’altro: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scrittu-re?”» (Lc 24,27.32).

Un esempio di ricorso alla tradizione orale è offerto da Gesù a propo-sito della disputa con i sadducei (Mt 22,23- 32), che negavano la risurrezio-ne. Essi avevano in un certo senso ragione di sostenere che la Torah non la insegna: infatti, nel testo scritto della Torah non ve n’è traccia, ed essi ap-punto rifiutavano la tradizione orale. Ma Gesù condivideva con i farisei la concezione sopra enunciata dai Pirqe Avot, e professava una «lettura» che faceva dire alla Torah scritta qualcosa che stava dietro alla lettera, qualco-sa che si era venuto formando nella coscienza delle generazioni leggenti, attraverso i secoli (verrebbe da citare il detto di Gregorio Magno secondo cui «la Scrittura cresce con chi la legge»). Che la Scrittura sia per così dire trasportata dal fiume della tradizione orale, è illustrato per un verso dalla stessa critica biblica moderna, che presuppone le tradizioni orali a monte del Pentateuco e dei libri storici, per un altro verso dalla necessità che ha la Torah scritta di chiarimenti, precisazioni, istruzioni altrettanto autorevo- li per essere applicabile. Come nel caso della legge del sabato, che in Es 31,15 si limita a vietare un «lavoro», senza specificare quale: ecco perché l’esegesi rabbinica «legge» nei versetti precedenti (31,3-12) un’esemplifi-cazione delle categorie di lavori vietati, secondo il principio ermeneutico rabbinico che vede una connessione tra due testi contigui.

Anche il principio secondo cui «non c’è prima né dopo nella Torah» (Talmud Babilonese, Pesaḥim 6b) mira a giustificare accostamenti di testi che ai nostri occhi risulterebbero anacronistici: ma tali non sono per chi ri-tiene che l’intera Torah sia stata rivelata a Mosè sul Sinai. Così, a proposito di Gen 7,2, dove Dio ordina a Noè di introdurre nell’arca sette coppie di ogni animale puro e una coppia di ogni animale impuro, il grande commen-tatore medioevale Raši (rabbi Šelomoh ben Yiṣḥaq, 1040 ca.-1105) annota:

«Ogni animale puro: sono gli animali che, in futuro, sarebbero stati puri per Israele; apprendiamo così che Noè studiava la Torah».

Lo studio della Torah – scritta e orale – è dunque il primum per l’ebrai-smo, da Esdra a oggi, a tal punto che l’ebraismo stesso può essere definito una civiltà del commento, e l’intera letteratura rabbinica (targum, midraš, Mišnah, Talmud, responsi, commentatori, codificatori...) ha come oggetto

diretto o indiretto la Bibbia. Con un’importante precisazione: si studia per sapere che cosa vuole Dio che io faccia. Yeshayahu Leibowitz, un pensa-tore religioso provocatorio e non conformista, sosteneva che «l’ebraismo non esiste che nel prescrivere all’uomo un regime e un determinato modo

Nel documento per il lettore della Bibbia Vademecum (pagine 176-185)