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I METODI DELL’INTERPRETAZIONE BIBLICA

Nel documento per il lettore della Bibbia Vademecum (pagine 186-200)

Come si legge la Bibbia? Come la si interpreta? Queste domande, pur basilari, sono formulate in maniera troppo semplificata. Esse vanno poste in modo più articolato. Occorre infatti tener conto di quali siano gli oggetti con i quali ci si confronta. Già all’interno della Scrittura esistono, per esem-pio, testi che rileggono (e quindi interpretano) altri scritti i quali, al pari dei primi, sarebbero in seguito stati raccolti in una sola Bibbia. Altro invece è il discorso relativo al fatto di leggere e interpretare la Bibbia (o anche un suo singolo libro) dopo che si sono formati degli insiemi canonici stabili. Per intenderci: un conto è sostenere che libri biblici ne rileggono altri e un con-to affermare che, dopo la fissazione del canone, la Scrittura si legge con la Scrittura. Nel secondo caso si presuppone infatti la presenza di un contesto canonico assente – o solo presente in abbozzo – nel primo.

Le osservazioni fin qui proposte vanno integrate con la constatazione che, anche quando ci si pone in prospettiva canonica, non si è mai di fronte a una sola Scrittura. Basti soffermarsi sullo spartiacque più rilevante, quello che distingue la Bibbia ebraica (TaNaḴ) dalle Scritture cristiane formate da Antico e Nuovo Testamento. Entrambi gli insiemi sono costituiti in base a criteri ermeneutici interni che orientano la lettura. Parlare di Bibbia ebraica come Tanak, comporta porne in luce l’organizzazione decrescente in cui il peso maggiore è costituito dalla Torah scritta (Pentateuco), a cui seguono i Nevi’im (Profeti) e i Ketuvim (Scritti); al contrario riferirsi a una Bibbia formata da Antico e Nuovo Testamento implica indicare un insieme in cui il peso ermeneutico maggiore gravita sulla seconda parte. Ne deriva che le letture ebraiche e cristiane degli stessi libri risultano diverse in base al semplice motivo dei due contesti complessivi in cui sono situati.

In definitiva, per trattare l’argomento dei metodi di interpretazione della Bibbia occorre prima accordarsi di quale Bibbia si tratti, vale a dire è necessario stabilire quale sia l’oggetto verso il quale si indirizza l’indagine. In modo schematico si possono proporre tre riferimenti principali:

a) Le modalità con le quali alcuni scritti biblici riprendono e interpretano altri scritti (si tratta di operazioni situate, per forza di cose, prima della de- finizione dei complessi canonici stabili);

b) Le modalità preposte a interpretare in maniera sincronica o diacronica l’insieme costituito dai vari canoni biblici;

c) Le modalità preposte a interpretare in modo sincronico o diacronico sin-goli libri biblici; a proposito di quest’ultimo punto va precisato che la scel-ta di isolare un singolo scritto, o alcune sue sezioni, dal contesto generale implica già di per sé la presenza di processi di laicizzazione del sapere che consentono di leggere un testo biblico come un documento preso a sé stante (in antico anche i numerosi commenti proposti ai singoli libri biblici erano sempre considerati come parte di un tutto).

1. L’ermeneutica biblica

In relazione alla Bibbia occorre mettere in conto la grande autorità di cui è rivestito il testo. Per molti dei suoi lettori è fondamentale che le pa-gine della Scrittura comunichino convinzioni e trasmettano speranze col-legate alle loro esistenze personali o a quella del gruppo di cui essi fanno parte. Questi significati non possono coincidere appieno con quelli riferiti a contesti storici ormai lontani. In termini semplici, la parola biblica, pur provenendo da epoche remote, deve parlare al presente.

Come ogni libro, anche la Bibbia non si sottrae all’obbligo di essere in-terpretata; questa condizione la espone anche al rischio di venire fraintesa. Non a caso, all’interno della stessa Scrittura, specie negli strati più recenti, non mancano al riguardo ammonimenti severi (2Pt 1,20–2,1.16). In epo-ca moderna una consolidata corrente di studi ha ritenuto che il modo più sicuro per comprendere un testo senza cadere in arbitrii interpretativi sia quello storico di ricostruirne l’origine. Tuttavia, in anni a noi più prossimi, tale orientamento è stato sempre più affiancato da approcci (vivacemente discussi pure in sede di critica letteraria) secondo i quali a ogni brano di letteratura deve essere concesso di «parlare di per sé», a prescindere dagli intenti personali di chi lo ha composto. In tal modo, accanto a impostazioni diacroniche, hanno preso sempre più piede letture di tipo sincronico.

Rispetto alla Bibbia è bene assumere il termine «ermeneutica» nella sua accezione più alta. Con esso ci si riferisce perciò alla elaborazione di principi fondamentali che consentono sia di interpretare la Scrittura a par-tire da una o più precomprensioni fondanti, sia di raccordarla con i bisogni vitali di una comunità di credenti o di lettori. L’ermeneutica non pretende di risalire a quanto sta dietro il testo; essa assume la pagina scritta come proprio punto di partenza e la anima guardando a valle. Conviene quindi comprendere l’ermeneutica come l’atto di interpretare un testo antico a partire da alcuni presupposti di fondo che possono, almeno in parte, non essere contenuti al suo interno. Tuttavia non va neppure dimenticato che il

credente è convinto di essere a propria volta giudicato dalla parola biblica che si sforza di interpretare.

Uno dei basilari presupposti ermeneutici sta nell’esistenza di diversi canoni biblici. L’atto di raggruppare in unità libri diversi e a volte eteroge-nei, di organizzarli secondo una successione coerente e di prospettare una gerarchia al loro interno costituisce in se stesso una chiave interpretativa di grande importanza.

2. Come la Bibbia rilegge se stessa

Per quanto gli scritti biblici ne rileggessero altri in una situazione ante-cedente alla fissazione di un canone, non è da escludere che tali procedure abbiano favorito la creazione di successivi insiemi canonici. Non a caso i modi in cui alcune sezioni della Bibbia ebraica rimandano ad altre sono lar-gamente differenti dalle modalità con cui i testi neotestamentari si rifanno alle Scritture d’Israele: nel primo caso prevalgono, infatti, riscritture o inviti alle proclamazioni liturgiche; nel secondo predominano invece procedimen-ti che mirano a rinvenire nelle Scritture ebraiche passi orientaprocedimen-ti a svelare l’autentico significato di avvenimenti relativi a Gesù o alle comunità dei credenti. Si tratta in effetti di procedimenti non del tutto ignoti alla Bibbia ebraica; tuttavia in quest’ultimo caso va precisato che essi avvengono senza il ricorso ad alcuna citazione esplicita. In questo ambito il ritorno dall’esilio di Babilonia viene presentato in termini che evocano la liberazione dall’op-pressione egiziana al tempo dell’esodo (Is 43,16-21), dal canto suo la restau-razione finale di Sion è rappresentata come un nuovo Eden (Ez 47,1-12).

Alcuni esempi, pur nella loro parzialità, danno ragione delle procedu-re più comuni. Nella Bibbia ebraica ci sono spesso ripetizioni; alcuni libri ri-raccontano quanto è già contenuto in altri. Ciò non equivale ad afferma-re che si tratti di riscrittuafferma-re attuate a partiafferma-re da un testo pafferma-recedente già ben definito; significa solo prendere atto della scelta di fornire una particolare interpretazione a vicende già narrate altrove. Gli esempi più corposi pre-senti nella Bibbia ebraica sono, nell’ordine, il Deuteronomio e i due libri delle Cronache (testo con cui si conclude l’intero TaNaḴ).

Anche a prescindere dalle complesse vicende che hanno presieduto alla sua formazione storica, è la stessa forma letteraria del Deuteronomio a rimandare a qualcosa che lo precede. Nello specifico, il suo stesso nome di origine greca costituisce già di per sé un atto ermeneutico; esso significa infatti «seconda legge» (cfr. Dt 17,18). Ultimo dei cinque libri della Torah, il Deuteronomio si presenta come forma di racconto degli eventi verifica-tisi il giorno della morte di Mosè (cfr. Dt 32,48-52; 34). In esso il narra-tore del libro ripropone sulla bocca di Mosè la maggior parte della storia

precedente, assieme al comando di mettere per iscritto il libro della Torah. Inoltre, esso avanza l’idea della periodica lettura liturgica della Legge (cfr. Dt 31,10-11). Il Deuteronomio si autopresenta, da un lato, come opera ri-capitolativa; dall’altro, il ruolo che vi hanno Giosuè (Dt 2-3; 27; 31) e il riferimento al re (Dt 17,8) induce a ritenere che esso guardi anche ai suc-cessivi «profeti anteriori» (da Giosuè fino a 1-2 Re), come atto inaugurale della storia del popolo d’Israele sulla sua terra al cui centro si trova il luogo scelto da Dio per fare abitare il suo nome (il Tempio di Gerusalemme). Ri- sulta evidente lo spessore ermeneutico di questa operazione di saldatura.

Il titolo dei due libri delle Cronache deriva da un’espressione contenu-ta nella Vulgacontenu-ta (Chronicon totius historiae); dal canto suo il titolo ebraico tradotto in italiano suona «Il Libro degli avvenimenti di quei giorni». I Set-tanta invece optarono per Paraleipómena («cose omesse») al fine di sotto-lineare il fatto che l’opera registra avvenimenti tralasciati da storie prece-denti; questi due testi tuttavia riprendono gran parte del materiale dei libri di Samuele e dei Re, i quali costituiscono la fonte principale del Cronista per l’ampia sezione che va da 1Cr 10 a 2Cr 36. Il Cronista, nella sua opera reinterpretativa, omette quanto non rientra nelle sue finalità, presuppone la familiarità dei suoi lettori con eventi da lui tralasciati, riorganizza i temi in una nuova narrazione della storia d’Israele e muta le valutazioni riservate ad alcuni re. Il cambiamento forse più noto è quello relativo al censimento voluto da re Davide, atto considerato peccaminoso in quanto non è dato di contare il popolo che appartiene al Signore. A tal proposito, nel capitolo 24 di 2 Samuele, si legge: «L’ira del Signore (yhwh) si accese di nuovo contro Israele e incitò Davide contro il popolo in questo modo: “Su, fa’ il censimento d’Israele e di Giuda”» (2Sam 24,1). L’idea che sia il Signore stesso a indurre a compiere il male risultò sconcertante già per il Cronista, che trascrisse il passo con questa radicale modifica: «Satana insorse contro Israele e incitò Davide a censire Israele» (1Cr 21,1). Il cambiamento la-scia aperto il problema di cosa si debba intendere con il termine «Satana»; qualunque sia la risposta, si tratta comunque di un’entità non direttamente identificabile con il Signore.

Un esempio particolarmente significativo di lettura interpretativa del-la Torah contenuto neldel-la Bibbia ebraica è costituito dall’ottavo capitolo del libro di Neemia. Siamo a Gerusalemme, quando è già stato ricostruito, sia pure in maniera ben poco fastosa, il Tempio. La scena, però, è ambientata non nel luogo sacro, ma nello spazio profano della piazza che sta di fronte alla porta delle Acque. Il primo giorno del settimo mese Esdra portò il libro della Legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano in grado di intendere. Gli orecchi di tutto il popolo erano rivolti al libro della Torah. Il libro si presenta come un testo che il trascorrere del tempo aveva fatto smarrire e del quale ora il popolo non comprende più i

contenuti. Diviene quindi esplicita la necessità di proporre un’interpreta-zione: «i leviti spiegavano la Legge al popolo [...]. Essi leggevano il libro della Legge di Dio a brani distinti e spiegandone il senso» (Ne 8,7-8). Se-condo l’opinione prevalente, qui ci troviamo di fronte al primo esempio di lettura liturgica che fa ricorso alla procedura del targum, traduzione inter-pretativa in aramaico della Bibbia.

Nella Bibbia ebraica è dunque frequente il nesso riscrittura-rilettura. Il procedimento non è ignoto agli scritti neotestamentari. Per provarlo basti pensare ai tre vangeli sinottici. Essi raccontano la stessa vicenda lungo un asse narrativo analogo. È indubbia la presenza di dipendenze reciproche (cfr. cap. xv, Il Gesù storico); tuttavia nessuno dei tre vangeli cita esplici-tamente uno degli altri due. Risulta quindi evidente la presenza di interpre-tazioni largamente diverse proposte per uno stesso evento (si pensi ai modi in cui è descritta la scena della morte di Gesù, Mt 27,45-55; Mc 15,33-41; Lc 23,44-49), mentre resta ipotetico il discorso relativo alle dipendenze re-ciproche. Le cose stanno diversamente in relazione alle citazioni esplicite o implicite della Bibbia ebraica compiute dagli scritti neotestamentari. In questo caso il riferimento è chiaro ed è quindi possibile individuare l’esi-stenza di veri e propri modelli interpretativi.

Una esemplificazione paradigmatica della rilevanza neotestamentaria dell’ermeneutica la si trova nel vangelo di Luca. Il Risorto, dopo aver ac-cusato di incredulità i due discepoli, spiegò (di-ermēneúō) loro, partendo dal Pentateuco e dai Profeti, che il Cristo (vale a dire il Messia), prima di entrare nella sua gloria, doveva passare attraverso la passione (Lc 24,25-27). In base al senso storico è già problematico trovare nelle pagine della Bibbia ebraica riferimenti alla persona del Messia ed è da escludere che ne fossero prospettate la morte e la resurrezione. Il racconto è quindi un modo narrativo per attualizzare e interpretare creativamente la Scrittura. Esso risponde a un problema tipico della fede delle comunità primitive che accettavano come parola rivelata il Pentateuco, i Profeti e i Salmi (cfr. Lc 24,44-45) e credevano in Gesù Cristo morto e risorto. Il Messia e quei testi scritti non potevano appartenere a universi separati. Fin dalle origini il massimo problema ermeneutico cristiano fu di cogliere le Scritture alla luce di Gesù Cristo e viceversa. Il passo di Luca non fa che dare una veste narrativa ad affermazioni più antiche tipo: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1Cor 15,3).

È fondamentale tener presente che formule come «secondo le Scrit-ture», «tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta» (Mt 1,22; cfr. 2,15.17.23), «avete inte-so che fu detto... ma io vi dico...» (Mt 5,21-22.27-28.31-34.38-39.43-44); «tutte queste cose... accaddero a loro come esempio (týpos)... e sono sta- te scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è attivata la fine dei

tempi» (1Cor 10,11) vanno tutte collocate in un’epoca in cui gli scritti in questione erano lungi dall’avere ricevuto un assetto canonico. In senso stretto non si è dunque in una situazione nella quale la Scrittura interpreta la Scrittura. Occorre invece riferirsi a una forma di lettura che, da un lato, interpreta un avvenimento alla luce di quanto è scritto e, dall’altro, propone una lettura di quanto è scritto compiuta alla luce di un avvenimento.

Dal punto di vista della forma e del metodo, gli scritti neotestamentari, e in particolare i vangeli, presentano forti somiglianze con i modi in cui la comunità di Qumran utilizzava le Scritture. Le formule per introdurre le citazioni sono spesso le stesse («così è scritto», ecc.). Le affinità derivano da una somiglianza di prospettiva; sia la comunità di Qumran, sia quelle neotestamentarie pensavano a se stesse nell’orizzonte escatologico in cui si realizzavano in modo definitivo le profezie. Il modello di lettura biblica, più che avvicinarsi al midraš e alla sua apertura verso una serie potenzial-mente illimitata di nuove interpretazioni, è da accostarsi piuttosto al genere letterario del pešer (attestato appunto a Qumran) in cui l’interpretazione rivendica a se stessa uno statuto definitivo. Resta la differenza qualificante che a Qumran il punto di partenza è la Scrittura (commentari o raccolte di testi) mentre negli scritti neotestamentari l’istanza è di interpretare, attra-verso il ricorso alle Scritture, la figura e l’opera di Gesù Cristo.

Il fatto che il genere letterario del midraš non sia il più calzante per com-prendere gli scritti neotestamentari non esclude evidentemente il fatto che in essi si faccia ricorso ad alcune delle regole (middot) tipiche del commenta- re rabbinico, si pensi ad esempio al ragionamento a minori ad maius (qal wa-ḥómer) (cfr. Mt 6,30; 7,11; Gv 7,23; 10,34-36; Rm 5,1.17; 2Cor 3,7-11) o alla cosiddetta «disposizione uguale» (gezerah šawwah), in base alla qua-le si possono accostare due versetti biblici per il semplice motivo di avere una parola in comune (cfr. Mt 12,1-4; At 2,24-28; Rm 4,1-12; Gal 3,10-14). 3. Bibbia e liturgia

Molte sono le vie che connettono la Bibbia alla liturgia. Esse sono legate tanto al sorgere stesso della Scrittura, quanto ai modi in cui è letta. Innanzitutto nelle pagine bibliche, accanto a molteplici riferimenti a pub-blici atti liturgici, vi sono esplicite attestazioni di cerimonie incentrate sulla proclamazione di un testo di fronte a un’assemblea (cfr. Dt 31,9-13; cfr. Gs 8,30-35, Ne 8). Queste e molte altre indicazioni testimoniano la funzione avuta dalla componente liturgica nella nascita e nell’organizzazione dei testi biblici. Il ciclo di letture bibliche compiuto nelle sinagoghe a partire dagli ultimi secoli a.e.v. si presenta dunque come una codificazione extra-biblica di tendenze già evidenziate all’interno della Scrittura.

Le osservazioni precedenti valgono in pieno anche per gli scritti neo- testamentari. In essi sono presenti inni in parte recepiti da prassi liturgi-che precedenti (Gv 1,1-5.9-12.14.16; Fil 2,6-11; Col 1,15-20), riferimenti a liturgie sia sinagogali (cfr. Lc 4,16-21; At 13.13-15) sia propriamente cristiane (cfr. ad esempio 1Cor 11,17-33), inviti a leggere pubblicamente nell’assemblea i testi (1Ts 5,27), libri, come l’Apocalisse, strutturati com-piendo un costante riferimento alla dimensione liturgica.

La liturgia ha svolto un ruolo decisivo oltre che nella nascita della Scrittura anche nella trasmissione, nella definizione e nell’interpretazione della parola biblica. Il processo di canonizzazione della Bibbia risentì in modo determinante del fatto che alcuni testi erano già letti nelle assemblee. Tuttavia con il tempo si affermò anche il procedimento inverso: una volta stabilito il canone, quei libri sono, più di ogni altro scritto, predisposti a venir proclamati nel corso della liturgia. Questa ritualità non comportò, né in ambito ebraico né in quello cristiano, la lettura completa dell’intera Bibbia. Anche nella liturgia sinagogale si leggono integralmente solo il libro della Torah e cinque piccoli rotoli (megillot) collegati ciascuno a una determinata festa (Cantico dei cantici, Rut, Lamentazioni, Qohélet, Ester). I Profeti sono invece letti solo in piccole sezioni non continuative collegate al brano settimanale del Pentateuco. Quanto ai Salmi, essi sono diffusa-mente presenti pure nelle preghiere quotidiane.

In sede liturgica la Bibbia si prospetta innanzitutto come parola viva che riceve la sua prima interpretazione dal modo stesso in cui è letta in un determinato contesto. Per la tradizione ebraica e per quella cristiana la liturgia è una modalità che, in un certo senso, stabilisce sia la natura della Scrittura, sia la gerarchia delle sue parti, sia i principi ermeneutici della sua interpretazione. Proclamata di sabato nella sinagoga, la Torah è colta di necessità come parola comunicata a Mosè sul Sinai. Dopo la lettura della breve sezione tratta dai Profeti, questa operazione è portata a compimen- to da un terzo momento: l’omelia (detta derašah, letteralmente «ricerca»). Con essa l’interprete, ponendosi sulla scia dei commenti tradizionali, rende esplicito per l’assemblea il significato della parola più urgente da comuni-care. Libro e comunità sono quindi due entità correlate.

Ovviamente la lettura cristiana pone al proprio centro Gesù Cristo. Questa palese affermazione trova corrispondenza nel ruolo privilegiato riservato nella liturgia al vangelo. Per esempio, nella messa cattolica, a differenza delle altre letture, il vangelo può essere proclamato solo da un diacono o da un presbitero; su di esso si compiono segni di croce, è bacia-to e, nei casi solenni, incensabacia-to; infine è ascoltabacia-to in piedi. Basterebbero queste prassi per rendere evidente la posizione di eccellenza attribuita ai vangeli nei confronti di tutte le altre parti della Scrittura. Le norme rituali sono quindi volte a evidenziare l’esistenza di una lettura che intende la

persona di Gesù Cristo come il riferimento fondamentale per interpretare l’intera Bibbia.

Valutazioni per più aspetti analoghe si possono avanzare a proposito della recita dei salmi. La tradizione monastica, recepita nei breviari e pro-lungatasi fino alla moderna «Liturgia delle ore», considera questi componi-menti fondamento della preghiera liturgica quotidiana. Un detto proverbia-le afferma: «Tutti i salmi finiscono in gloria». La frase, proverbia-letta in controluce, indica come questi testi siano stati a lungo definiti a partire dalla loro col-locazione liturgica. La formula recitata alla fine di ogni salmo («Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, come era in principio e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen») non è biblica; anzi, dal punto di vista storico, essa rappresenta quantomeno un anacronismo. Tuttavia, la ripetuta e omo-genea presenza del «Gloria» ha fortemente contribuito a intendere i salmi come testi in loro stessi cristiani (e non già ebraici). Nell’ambito della pietà ci si riferiva quindi in modo spontaneo al «santo profeta Davide» come a colui che aveva preannunciato la passione di Gesù Cristo. L’uso dei salmi

Nel documento per il lettore della Bibbia Vademecum (pagine 186-200)