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Leuven luglio 1974

Il reparto dei trapiantati è al completo. I pazienti sono tutti italiani.

Siamo al dodicesimo piano. Chi non ha ancora ricevuto un rene e quindi continua a fare ancora la dialisi, viene portato nei sotterra-nei, in un salone, che vede presenti almeno venti letti. Un letto–bi-lancia che determina durante il trattamento la perdita del peso (li-quidi). Oggi è sabato e i medici sono a casa per il week–end. C’è si-lenzio. Alcuni pazienti dormono, altri, appartati, parlano della loro vita. Io e il mio piccolo Emmanuele aspettiamo di vedere il babbo, trapiantato di rene, attraverso un vetro. Chi ha subìto un trapian-to deve stare in stanza sterile, per almeno un mese. Dopo di che, il paziente viene inserito di nuovo nel mondo munito di una ma-scherina che lo difenderà dal contatto con persone o cose portato-ri o causa di eventuali portato-rigetti. Emmanuele è buono, non dice mai che vuole uscire e trascorre ore e ore con me nel reparto trapiantati.

Una cara amica, Efigenia Torcoletti, dipendente del M.E.C in quel di Bruxelles, viene spesso a trovarci. Ci riempie di cibarie e quanto occorre per vivere. Io e il piccolo siamo ospiti delle suore agostinia-ne, ma non è previsto né pranzo, né cena e così ci arrangiamo con un fornelletto a spirale per cuocere ciò che ci occorre: latte, riso e quant’altro. Mi vengono in mente le parole di mia madre, che usa-va lo stesso fornelletto durante la guerra… Non è una guerra, ma un modo di vivere e di far vivere.

Ecco aprirsi l’ascensore: un altro italiano! – Ehi, Silvano, questa volta cosa c’è? – Urla qualcuno, ma senza gioia. Il nuovo arrivato ha

gli occhi stravolti e “spalancati” dal dolore. Le mani sono avvolte da guanti bianchi. Lele, così chiamo il mio piccolo, lo guarda curio-so. Silvano è alto, sul rossiccio, gli occhi castani, la pelle ricoperta di rare efelidi. Benché sofferente ha un portamento regale. Riesce a sorridere a fatica. Il suo sguardo scende su Emmanuele: – Ciao…

ha paura che sia malato.

– Che ci fai qui? – Il mio babbo ha fatto l’operazione del trapianto. – Dice, stentando: ha solo tre anni e mezzo. In Silvano un sospiro di sollievo... è sano, il piccolo!!! – Emmanuele – chiamo.

Gli assegnano una stanza. Noi rimaniamo in disparte. Una infer-miera segue la prassi dei documenti e dei dati anagrafici. – Qualcu-no l’accompagna? – Gli chiede – No, i miei familiari, cosa devoQualcu-no venire a fare... per quale motivo? Sono a un passo dalla morte... e sarebbe ora che giungesse… non ce la faccio più… – Osservando-lo, comprendo il suo immane dolore. Le lacrime non scendono, ma gli occhi esprimono l’intensità del male. Volevo andare verso di lui... quanti anni? Chissà, forse venti... non sapevo dargli un’età.

Fuori il sole illuminava la ‘Venezia belga’: Leuven, lasciando spari-re l’umidità così “sentita”, specie nelle ossa. Fuori si odono grida e schiamazzi... È la festa. La “Kermesse” della birra. Qui si fabbrica l’Eineken. Canti, balli per una settimana... ma attenzione ragazze, il mostro è in agguato, non rimanete da sole, ma sappiate scegliere le compagnie. Questo dice la radio.

La capo–sala esce. Chiedo se è possibile far visita a Silvano. Sì, e andandosene dice: – Bon garcon, pouvre lui!!! – Il volto triste. Sen-to un tuffo al cuore. Sono indecisa se entrare o no nella stanza del giovane. Mi faccio coraggio, prendo per mano il mio bambino ed entro. Chiedo: – Ha bisogno di qualche cosa... posso fare qualco-sa??? – Sì. Può disfarmi la valigia e porre tutto a posto negli stipet-ti. – Così faccio. Emmanuele si avvicina al letto e guarda le mani di Silvano. Sono scheletriche, le dita nere sembrano bastoncini di carbone. Vorrebbe allungare le manine per stringere quelle del gio-vane, ma è perplesso. – No, dico, no, gli fanno male. – È vero, dice

Silvano: molto, molto male! –

Lo sguardo del piccolo sale a me… – Posso accarezzare? – Non fac-cio in tempo a dire sì, perché ‘sììì’ l’ha detto Silvano, che al tocco lieve della piccola mano chiude gli occhi e dice: – Dio è buono, mi ha mandato un angioletto per sollevarmi dal dolore. Non sento nulla...è come un miracolo...– Io allibita, sorpresa e angosciata al contempo resto muta ad osservare la scena. Poco dopo il respiro di Silvano si fa regolare: si è addormentato. Prendo il bimbo e lo por-to da suo padre. È già in attesa sulla seggiola al di là della vetrata azzurra. Non so perché, ma crollo in lacrime. Quanto dolore, Dio mio Signore, quanto dolore! – Non piangere, – mi dice il mio ama-to, – sto bene. – Lo so, lo vedo – Vorrei raccontargli di Silvano, ma Lele gioca con lui posando le manine sul vetro, per misurarle con quelle di suo padre. – Non sono nere, dice. No, non lo sono. – È notte fonda: il Professore Alexandre è tornato dal suo non week–

end. Troppi i pazienti in pericolo e Silvano è tra questi. Non riesce e non vuole alzarsi, ma chiama Emmanuele. – Attenzione signora Ferri – mi dice il professore. – Lei crede in Dio, Professore Alexan-dre? – Si – Bene, lasciamo che il piccolo gli stia accanto. –

Romualdo già dorme nella lontana stanza sterile. Altri vivono uno strano dormiveglia, in attesa di un prossimo trapianto di rene, di fegato, di polmone… Lele parla con Silvano, che gli sorride a fati-ca, indi colto dal sonno reclina il capo sul letto.

Il giovane mi chiama con un cenno. – Si è addormentato… – e in-dica Lele. Prendo il piccolo in braccio. – Andiamo, le suore chiu-dono alle nove. – Nel girarmi per salutare, vedo Silvano alzare il braccio destro e brandire a mo’ di saluto la mano carbonizzata dal cortisone. – Ciao, piccolo Emmanuele sei stato la gioia delle ultime ore della mia vita. –

Nella notte ho dormito stringendo al seno il mio piccino, per timo-re che qualcosa di infausto potesse accaderci. La città stava viven-do la sua Kermesse. Al mattino, salita per andare da Romualviven-do, mi sono fermata a salutare gli amici italiani. Ho aperto sbirciando

al-la porta di Silvano, ma al-la stanza era vuota… – Le bon garcon n’est pas. – Mi dice la capo sala.

– Mamma, il “tato” è andato in cielo? – Non sono riuscita a dire… sì.