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Ottavia e Beatrice

Mamma, oggi, che non ci sei più, sento in me l’esigenza di raccon-tarti. Ti ricordo longilinea, dai capelli di un castano scuro, gli occhi nascosti dalle spesse lenti da miope. Bella, altera dal sorriso splen-dido. Sei sempre stata la più forte della famiglia, la più determinata e nella povertà la determinazione è una difesa. La fermezza faceva di te il vero capo famiglia. I ricordi fanno della memoria una risor-sa di vita. Non si cancellano i ricordi belli o brutti che siano. Sono un patrimonio per la famiglia… per tutti.

Mi avevi destinato il vecchio studiolo del nonno. Una stanza tutta per me. Un tavolo rotondo, antico, che serviva da scrivania; un’an-tica libreria, un’angoliera in noce, un armadio e due belle sedie im-pagliate di “Vienna”. Un miscuglio di epoca e di stili… Per me era tutto bello, sino al giorno in cui udii bussare alla porta della mia stanza, dove stavo leggendo “La piccola fiammiferaia”.

– Entra, mamma – ti dissi. Il tocco della tua mano era inconfon-dibile. Entrasti, ma non eri sola. Con te c’era un signore “dall’aria distinta”. Gli mostrasti i mobili, che l’uomo, da intenditore, studiò per diversi minuti. Non solo quelli del mio studio, ma anche quelli della camera da letto.

– Le posso fare una buona offerta per il tavolo rotondo. È l’unico oggetto di cui sono interessato al momento, per le altre cose ritor-nerò. –

Tu, con voce esile, rispondesti: – Quello posso venderlo, mai letti con l’armadio, no! Quelli appartengono all’altra figlia. –

Rosanna era nata da Giuseppina, deceduta ad appena ventotto an-ni. Poi babbo ha incontrato te e sono nata io.

Mentre lo sgomento stava impossessandosi di me, un “buco”allo stomaco stava facendomi sempre più male. Pensai: “nonnonon sa-rebbe contento di vedere i suoi mobili ‹uscire› dacasa. No, lui, ‹ami-co di Mazzini e Garibaldi›, non avrebbevoluto subire quella umi-liazione!”

– Mamma, il nonno... ti sgriderebbe! – Osai.

Tu arrossisti. Per la prima volta il pallore, che ti era abituale era scomparso. Eri ancora più bella. Ma lo sguardo rivelava lo smarri-mento. Replicai: – Mamma, dobbiamo proprio venderlo? – Allun-gai il dito verso il tavolo tondo. – Sì – rispondesti. Lo sguardo di rimprovero mi rammentò che da giorni si viveva a stento. Te ne an-dasti, seguita dall’uomo “dall’aria distinta”. Dopo due giorni il ta-volo scomparve. Nelle tue mani tre banconote, così larghe che sem-bravano manifesti. Volevano dire legna per l’inverno, affitto, cibo e altro per diversi mesi... Eppure li odiai quei soldi, mamma, li odiai, perché mi avevano privato del mio tavolo, nei cui cassettini nascon-devo pagine di diario. Era il rifugio dei mieisegreti.

Rimase solo una sedia, di nessun valore. La stanza, ora, era vera-mente vuota! Bastava un minimo rumore per udirne l’eco. Un vuo-to spettrale. Solo la luna la illuminava. L’immagine di Santa Maria Goretti era là sulla parete a difendermi dal peccato. Sulla sedia, i miei libri a pila. La finestra si apriva sull’angusto cortile del con-te. Mentre una radio rimandava le note delle canzoni di Sanremo.

Piansi tanto. Si era alla fine di febbraio quando mi colse una febbre altissima. Passerà, pensasti. Di lì a qualche ora nel misurare una ca-micia alla bella signora Beatrice, moglie del Dottor Macchi, le con-fidasti la cosa. La signora, molto sensibile, “raccolse” e tornata a ca-sa confidò al marito il problema: a dire del medico più complicato di un classico “febbrone”. Il Dottor Macchi, che curava con amore e professionalità i bambini, bussò di buonora alla nostra casa e co-me mi visitò disse: – Ottavia, c’è anche l’altra figlia in casa? – Sì, perché? – Mandala via, subito, in campagna, qui la piccola ha la scarlattina. – Boom! Uno scompiglio! Mia sorella, già cagionevole

per una TBC, fu immediatamente spedita in campagna. Eravamo così poveri, che il dottor Macchi si occupò dell’ambulanza e di tut-to quantut-to necessitava per il ricovero. Non si dimenticano le perso-ne speciali: il dottor Macchi e il dottor Bonocore furono per la Fa-no del dopoguerra i due angeli custodi dei poveri.

Babbo disinfettò la casa con la calce viva.

Rimasi in ospedale molto grave per diversi mesi. Quando feci ritor-no a casa ero fragile come un uccelliritor-no. Ma il dolore si era tramu-tato in gioia, quando le braccia di babbo mi tenevano, per impedir-mi di cadere tanto ero debole... La signora Beatrice venne spesso a trovarmi. Mi portava le caramelle e i giocattoli delle sue figlie. Mi aveva resa felice. Aveva un cuore generoso. La ricordo ancora: bion-da, esplosiva da far girare la testa a parecchi…

Io avevo bisogno di tanta cura. Rimasi nel vostro lettone per tanto tempo. Il vostro amore colmò la paura del vuoto, del freddo spet-trale della mia stanza, che si trovava al di là della parete e di cui ser-bavo un triste ricordo. Quando il babbo andava al lavoro, erano le tue braccia a tenermi, mamma. Babbo andava a fare il pane. Alme-no, quello non ci è mai mancato.