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Mario e Marco

Si era al dodicesimo piano del Saint Peter Clinique di Leuven. Ma-rio condivideva la stanza con Marco. MaMa-rio era di Cavarzere, Mar-co di Milano. Entrambi in dialisi da alcuni anni... seMar-coli per loro.

Erano stati trapiantati, alcuni mesi prima, nella stessa Clinica ed ora si erano ritrovati a causa di alcuni sintomi di rigetto. Mentre Mario era abbastanza tranquillo, Marco si mostrava insofferente.

Solo chi ha subìto un trapianto comprende lo stato d’animo del paziente in “rigetto”. La persona sa che il suo corpo rifiuta qualcosa che gli è estraneo, che non gli appartiene. Anche se la “compatibi-lità” è quasi totale, il corpo ha le sue regole... e quindi si giunge al cortisone, agli immuno–soppressori e, quanto altro per combatte-re il rigetto stesso (non sono un medico, ricordo). Dopo le terapie, veniva chiesto ai trapiantati se il rene era “ripartito”, cioè se il liqui-do espulso era abbondante o no. Marco non sorrideva, impallidi-va e si chiudeimpallidi-va in se stesso per l’insufficienza del rene trapiantato.

Il professore pensò bene di chiamare il padre, perché giungesse in tutta fretta da quel di Milano. Nel frattempo, io che potevo usu-fruire della lavanderia delle suore agostiniane, di cui ero ospite, mi ero presa l’incarico di lavare per alcuni di loro i pochi indumenti, che non venivano puliti dal servizio dell’ospedale. Mi sentivo utile, contenta. Mi sentivo una sorella, un’amica. Ero l’unica, al momen-to, a parlare francese e quindi l’interprete “ufficiale” dei malati ita-liani. Emmanuele, di appena tre anni e mezzo, imparò a seguirmi ovunque. Per fortuna non capiva cosa veniva detto, quali doman-de venivano formulate. Quante umiliazioni. Domandoman-de così intime, che a mala pena ne comprendevo il significato o l’importanza. Una

cosa avevo imparato: ad amare quelle persone, a comprenderle, a coccolarle e a sorridere, specie nei giorni bui delle loro “anime”.

Ogni volta che entravo nelle loro stanze mi accoglievano con un sorriso e mi chiamavano Anna, sole d’Italia. Forse per il mio sorri-so sempre pronto e parole di incoraggiamento e tenerezza. Ma non sempre il sorriso o piccoli gesti di tenerezza erano sufficienti a supe-rare la disperazione. Quel mattino di luglio, Mario fu riportato in dialisi. Il suo rene non era “partito”, quindi bisognava espiantarlo.

Il piccolo Emmanuele era sempre con me. Romualdo era in stanza sterile. Doveva restarci per un mese. Il tempo era piovoso, quindi non potevamo uscire. Cosicché il piccolo era un po’ la ‘mascotte’

dei ricoverati del dodicesimo piano.

Giunse il giorno dell’espianto. Mario mi chiese di avvicinarmi al-la lettiga. L’ascensore era aperto, pronto ad inghiottirlo. Mi guar-dò a lungo. Io sentivo che stavo per piangere: dovevo essere forte.

Emmanuele corse verso l’uomo e baciò la mano che Mario mi sta-va porgendo.

– Non so se ritornerò tra voi... vorrei solo dirti una cosa, Anna.

Grazie per quello che hai fatto per me. – Io in cuor mio non sapevo che cosa gli avevo fatto. Aiutarlo mi era sembrato naturale. Specie per un uomo solo, lì, in quell’ospedale lontano dalla sua Cavarze-re... Dove aveva lasciato la famiglia ma sopra ogni cosa il cuore. Gli accarezzai il volto. Gli volevo bene, così a tutti gli altri, dializzati, malati di AIDS, di tumore, di sifilide, di gonorrea… tutti quei di-sperati, soli e senza un affetto…

– Non temere Mario, dissi, andrà tutto bene. –

Marco, in tono scherzoso, gli fece gli auguri in milanese facendo-lo sorridere, poi mi venne accanto e davvero era la prima volta che vedevo il sorriso sulle sue labbra. Restò a fissare i bottoni luminosi segnalare i piani in discesa dell’ascensore, che si portava via Mario dai nostri sguardi. Marco si fece serio, cupo, taciturno.

– Dai, che oggi arriva tuo padre. – Dissi per sollevarlo dalla soffe-renza. – Che viene a fare? Viene a vedere una larva di figlio? Sono

al mio ennesimo rigetto e questa volta, faccio la fine di Mario. Non ci voglio tornare, in dialisi, Anna, hai capito?! –

– Si, capisco, ma ti permette di vivere. – Mi stavo arrampicando sugli specchi.

– Sai come chiamano la dialisi? – No –

– Un cancro a lunga scadenza. – Era davvero disperato. E io per la prima volta senza parole. Non aveva torto: allora la sopravviven-za in dialisi era bassa, di due o al massimo tre anni. Restai a fargli compagnia sino l’arrivo del padre.

Più tardi l’ascensore riportò Mario ancora “addormentato”. Ce l’a-veva fatta.

Il padre di Marco giunse verso la mezzanotte. Aveva un aspetto gio-vanile e guardava sconsolato quel figlio perso nella disperazione. Lo vidi fumare nervosamente una sigaretta dopo l’altra.

ll giorno seguente, Marco chiese al padre di lasciarlo riposare un poco. L’uscio era aperto per metà. Lo potevo vedere e lui vedere me.

L‘occhiata che il padre mi rivolse sembrava chiedermi: “Che fac-cio?” Ero pietrificata, non sapevo che dire. Lo vedevo restìo a lascia-re la stanza. Si fece sulla porta.

– Ho paura, mi disse. Oggi, Marco è fuori di se. Cosa posso fare? – Lo guardai senza rispondere...

Finì la sigaretta, gettò il mozzicone in mezzo alla sabbia del posa-cenere. Un silenzio spettrale ci colse. Nessuno dei due parlava, so-lo l’ascensore continuava il suo andirivieni, interrompendo quel si-lenzio quasi sacro. Non riuscivamo a dialogare, c’era qualcosa che ci impediva una seppur minima parvenza di alleanza: quella che di solito si instaura tra persone che vivono lo stesso dramma.

L’uomo si alzò. Non vidi neppure la sua mano salutarmi. Rientrato in stanza vide il letto vuoto e la finestra spalancata. Un urlo squar-ciò il silenzio. Corremmo, l’uomo era affacciato alla finestra ad os-servare da quel dodicesimo piano il corpo senza vita del suo ragaz-zo. Pensai a Mario, che avevano spostato di stanza. Per fortuna…

Presi in braccio il piccolo Emmanuele stringendolo a me forte forte.

– Amore, andiamo a casa dalle suorine? – Si era addormentato. Per raggiungere l’Istituto delle Agostiniane attraversai il piazzale anti-stante il Saint Peter, dove la polizia stava esaminando il corpo senza vita del giovane Marco.

LEUVEN 1974

Incontro