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L’olio di Don Checco

In onore di Don Francesco Guerrieri di santa memoria

Mamma parlava spesso dello zio Don Checco. Per noi era un ono-re aveono-re uno zio pono-rete, “un po’ alla lunga”, ma legato saldamente da vincoli di parentela. Abitava da zia Renata, che, rimasta zitella, vi-veva con la mamma, Mariettina. Don Checco (alias Don France-sco Guerrieri) orfano e solo, la cui sorella maggiore se ne era andata in Argentina, trovò presso la zia una famiglia. Gli avrebbe fatto da mamma e lui avrebbe avuto un focolare dove vivere e completare gli studi per divenire sacerdote. In tanti dicevano che era un “pec-cato” si facesse prete, perché era “bell un bel pò”. Le donne lo para-gonavano a Rodolfo Valentino, per la prestanza fisica, l’esuberanza, la schiettezza. Ma più ancora per i capelli corvini pigiati dalla bril-lantina, il portamento e il sorriso sempre pronto. Su di lui neanche una “chiacchiera” se non per l’umanità e la comunicativa. Aveva un cuore generoso, la battuta sempre pronta, un’ironia impensabile in un prete. Chiamato alle armi, aveva indossato la divisa da ufficia-le. Le donne lo guardavano con ammirazione. Sul treno, in viaggio per Roma, ebbe un bel da fare per salvarsi dalle ammiratrici: senza scomporsi aveva aperto la giubba per mostrare a tutti il collarino da sacerdote. E dopo un breve silenzio sorse negli astanti la stima per l’uomo di Dio.

Anticonformista e senza tanti peli sulla lingua, amava condurre in montagna, con la sua giardinetta, zia Renata. Ma lei, ormai in là negli anni, tremava da Fano sino a Pieve e al ritorno, sempre con la stessa paura.

Per le vie di Fano lo si vedeva sfrecciare sulla bicicletta con la gon-na svolazzante. lo gli volevo bene. Era stato il mio primo confes-sore. Fu in occasione di una nostra visita che lo zio don Checco ci raccontò del suo viaggio in Argentina, per rivedere la sorella. Aveva dovuto indossare il clergyman. Zia Mariettina, che lo amava e lo trattava come un figlio, avendolo osservato attentamente, lo aveva apostrofato dicendogli: “En è mei che meti la gona da pret?” – Zia, non posso, sono obbligato ad indossare questi abiti. – La vecchia zia scuotendo il capo si era seduta in poltrona, intrecciando un co-lorato filo di lana con l’uncinetto, mentre zia Renata finiva di pre-parare le valige. Don Checco era felice. Avrebbe fatto una sorpresa a quella sorella che non vedeva da decenni. Dopo giorni di naviga-zione, giunse alla meta. Il taxi lo lasciò di fronte alla casa. Lasciò le valige di fronte al cancello e fece il giro della palizzata. Sua sorella stava stendendo i panni, si fermò. Si fermò e come un manichino aspettava che lei si accorgesse della sua presenza. Dopo intermina-bili attimi, quella si girò, fissatolo, emise un urlo e svenne.

La rianimò e ci fu un abbraccio eterno. Si erano finalmente ritro-vati: Dio è buono.

Proprio in quel periodo mio padre, defraudato da un socio, dovette chiudere la pizzeria. Gli anni sessanta, ancora critici, si portavano dietro il bagaglio della guerra… tutto faceva presagire un cammino verso il benessere, ma a noi non era stata data neanche la speran-za di un cambiamento. Così io, il babbo e la mamma iniziammo a riparare i danni del socio, lavorando come forsennati, ma il ‘bu-co’ era troppo grosso. Lo zio Don Checco, ritornato, venne a sa-pere della nostra condizione. Lui, sensibile verso i poveri, chiese a zia Renata di chiamarci per un caffè . Un pomeriggio, credo in feb-braio, era freddo e c’era tanta neve: andammo. Ci venne a riceve-re proprio lui. Mamma aveva gli occhi lucidi. La osservò con dol-cezza. La prese per un gomito e la condusse nella sala degli ospiti.

Mamma aveva sempre lavorato tanto, ma il lavoro non bastava a coprire i debiti. In quel momento la sua dignità era persa. Con voce

dolce e un bel sorriso Don Checco disse: – Ottavia, vieni, abbiamo preparato un panettone e così la tua piccola mangerà... Ero secca come un chiodo. Mangiavamo una volta al giorno... la sera. La zia Renata ci fece entrare nel salotto ‘buono’, come persone importan-ti. Per loro lo eravamo davvero! Fui accolta dalle braccia della zia e benché grandicella mi tenne sulle ginocchia. Mentre gustavo la fet-ta di panettone, mamma parlava a bassa voce con lo zio. Sembra-va si confessasse e lui ogni tanto le daSembra-va una ‘pacca’ sulla spalla o le stringeva le mani, dicendo: “Coraggio, da oggi andrà meglio”. Do-po la splendida merenda ci condusse in cantina e Do-porse a mamma la “sacca di cotonina” dove mise farina, vino, zucchero e una botti-glia d’olio. Io ero felice, mamma di più. Babbo, che è sempre stato umile e pieno di dignità, tornato a casa disse:

– Se vuoi un aiuto, solo la Chiesa te lo dà. È sempre stato così... – L’olio di Don Checco non ci mancò per diversi anni, fino a quando mamma gli disse: – Don Checco, ora le cose vanno meglio. Prov-veda per qualcuno che si trova in difficoltà. – Lo sapevano a Fano che don Checco aveva un cuore grande. Regalava indumenti e ci-bo: bastava bussare alla sua porta e nessuno tornava indietro a ma-ni vuote. In là negli anma-ni, alcune indisposizioma-ni lo portarono in car-rozzella. Lo andavamo a trovare. Ci raccontava alcune barzellette e mentre il latte scendeva fumante nella tazza, diceva:

– Anch’io comincio ad avere dei problemi di salute! Vedi, carina,

‘na tassa de lat e ‘na mela, questa è la cena. È la cena di vechi. – Lo ri-cordo ancora sulla carrozzella. Ormai le sue gambe avevano deciso di lasciarlo, ma il sorriso no: quello no, era sempre lo stesso, aperto fiducioso, comunicativo. I capelli, nonostante l’età, ancora neri e pigiati dalla brillantina. La speranza dipinta sul volto.

L’uomo sofferente era ormai sempre più uomo di Dio. Ogni volta che lo incontravo, mi facevo vicina sorridendo e guai a me se non baciavo le sue gote! Nello sguardo la gioia di un vecchio che si sen-tiva amato. Pensavo: anche i preti hanno bisogno di tenerezza.