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La libera circolazione delle merci (art. 30 - ora art. 28 del Trattato UE)– insieme a quella delle persone, dei servizi e dei capitali - è una delle quattro libertà del mercato unico dell’Unione europea. Dal gennaio 1993 i controlli sui movimenti di merci nel mercato interno sono aboliti, e l’Unione Europea costituisce ormai un solo territorio senza frontiere [11].

L’abolizione delle tariffe doganali (art. 25) e di tutte le misure equivalenti (art. 28 e 29)hanno avuto lo scopo di favorire gli scambi intracomunitari, che rappresentano gran parte del totale delle importazioni ed esportazioni degli Stati Membri, e consentono anche l’eliminazione delle barriere normative [11]. Tra le “barriere” aventi effettoequivalente alle restrizioni quantitative alle importazioni rientrano le denominazioni merceologiche legali di un prodotto cioè i nomi dati ai prodotti dalle leggi nazionali che richiede che il prodotto, per potersi fregiare di quel determinato nome, debba essere composto in una certa maniera e non in un’altra [6]. E’ evidente che quando il nome è un nome

legale, proprio perché è la legge ad identificare con quel nome un prodotto specifico per le sue componenti e per le sue caratteristiche, non si può commercializzare, nello Stato che ha riservato quel nome a quel prodotto, un prodotto “fatto” in modo diverso con lo stesso nome [6]. In sostanza le denominazioni merceologiche legali dei singoli Stati, pur essendo uguali nella loro espressione denominativa, possono fare riferimento a prodotti non uguali nella loro composizione.

In questi casi si fa riferimento ai principi e alle regole di diritto comunitario sulla libera circolazione dei prodotti alimentari all’interno del mercato unico, e cioè si applica il principio fondamentale, definito del mutuo riconoscimento, in cui qualsiasi prodotto (quindi anche quello alimentare) legalmente fabbricato secondo le leggi vigenti in un paese membro deve poter circolare liberamente in tutti i paesi membri senza incontrare ostacoli creati dalle leggi vigenti nel paese di destinazione [12]. Per il principio del mutuo riconoscimento, il diritto di accesso al mercato unico è legato alla disciplina del “paese di origine” dell’alimento, nel senso che tale diritto di accesso dipende dal rispetto dei requisiti posti nel paese di origine della merce, mentre divengono inoperanti le regole del paese di destinazione che prevedono requisiti diversi [6].

Il principio del mutuo riconoscimento, non sempre risultava di facile applicazione, in presenza di normative degli Stati membri destinati a disciplinare in modo divergente la fabbricazione, la composizione e la presentazione dei prodotti (soprattutto alimentari) [13]. Tali difficoltà

furono superate, in parte, soltanto in via giurisprudenziale grazie alle varie sentenze della Corte di Giustizia di Lussemburgo, tra le quali la più importante è quella sul Cassis de Dijon del 1978[14]che affermava con forza il principio di mutuo riconoscimento. La causa in questione riguardava il divieto posto dall’organismo tedesco sull’alcool ed i liquori all’importazione del liquore francese di frutta Cassis de Dijon, che ha una gradazione alcolica di 15-20 °gradi, mentre in Germania il nome “liquore” è riservato a liquori con gradazione superiore a 25 gradi. La Corte di Giustizia ha ritenuto il detto divieto di importazione contrario all’art.28 del Trattato. Tale principio ha risolto così, anche, il problema delle diverse denominazioni merceologiche legali degli Stati membri, attribuendo perfetta equivalenza legale alle diverse norme nazionali di produzione e presentazione dei singoli prodotti alimentari nel commercio intracomunitario. Attraverso tale principio viene introdotta, in effetti, una soluzione operativa per promuovere ed accelerare l’unificazione del mercato a livello comunitario, semplificando il superamento delle barriere giuridiche, in modo alternativo all’armonizzazione fondata sulla predisposizione di un quadro di riferimento normativo omogeneo affidato all’attività legislativa del Consiglio e della Commissione [17].

Si è pervenuto, così, al riconoscimento delle possibili differenze normative tra gli Stati membri purché dirette a non escludere il valore della libera circolazione delle merci dando luogo ad un altro principio del sistema giuridico europeo, quello della equivalenza delle norme, benché esso possa dar luogo al rischio della competizione tra ordinamenti [6].

In effetti, accanto all’effetto positivo della libera circolazione delle merci che, le sentenze della Corte di Giustizia, hanno dato luogo ad un effetto negativo: la banalizzazione del nome legale, la sua “volgarizzazione”, ovvero il suo divenire un nome generico sul mercato comunitario. Con la conseguenza, che la dilatazione extraterritoriale delle regole giuridiche dello Stato Membro meno “solerte” nell’assicurare prodotti di qualità ha portato ad una competizione non solo tra i prodotti ma altresì tra le stesse regole giuridiche, come se queste venissero esportate assieme ai primi [6]. Questo può indurre i produttori ad adottare

allo stesso livello di quelli dei produttori che godono, nel proprio Stato, di regole meno impegnative, incentivando il trasferimento dei tali aziende in tali Stati. Inoltre la volgarizzazione del nome legale ha dato luogo ad un altro effetto negativo cioè quello che ha privato della sua originarietà distintiva il prodotto stesso che era designato con quel nome, perché questo era evocativo delle qualità risultanti dalla obbligatoria presenza di determinati ingredienti e componenti [6].

Il principio del mutuo riconoscimento affermato dalla Corte si è dimostrato di difficile applicazione nei casi relativi a prodotti alimentari dotati di particolari caratteristiche qualitative che li distinguevano da altri prodotti similari e concorrenti.

In un’altra sentenza, relativa alla causaSmanor (1987) in merito allo yogurt[15] la Corte dava un importante contributo a risolvere il conflitto tra due principi fondamentali del diritto comunitari, quello della libera circolazione delle merci, da un lato, e quello della tutela dei prodotti aventi caratteristiche qualitative particolari, dall’altro lato, riconoscendo, per la prima volta, nel caso di specie, la prevalenza del secondo rispetto al primo.

La Corte di Giustizia ha escluso che uno yogurt privo di fermenti lattici vivi, benché realizzato e denominato secondo la normativa di uno Stato Membro, potesse essere denominato “yogurt” negli altri Stati Membri, perché per il Codex Alimentarius della FAO e della OMS, lo yogurt è caratterizzato dalla presenza di abbondanti fermenti lattici vivi. In tal caso il prodotto dello Stato esportatore deve assumere, nello Stato importatore, un nome diverso [6]. In questo modo, la giurisprudenza della Corte ha contribuito a definire il concetto di qualità, considerando le specificità che lo caratterizzano.

In caso di rischio per la salute pubblica o l’ambiente, gli Stati membri possono limitare la libera circolazione delle merci. In tal senso, quindi bisogna considerare attentamente l’influenza che ha la sicurezza alimentare (specie con il con il citato Regolamento (CE) n. 178/02) finisce per avere sulla libera circolazione delle merci. Ovviamente tale influenza sorge dalla considerazione che salute e benessere sono valori non negoziabili [16].

Nello specifico attribuire una valenza prevalente alla sicurezza alimentare, implica che tale principio assuma rilievo non solo all’interno dell’Unione Europea ma anche nelle relazioni internazionali, in particolare nell’importazione di alimenti o parti di essi provenienti da Paesi terzi.

In questo senso il perseguimento della sicurezza alimentare rischia, in certi casi, di rappresentare uno strumento surrettizio di nuove forme di protezionismo economico. Si tratta di una argomentazione spesso utilizzata, al di fuori dei confini comunitari, dai Paesi che intendano esportare in Europa le proprie produzioni [4]in particolare da quelli emergenti.

Nella valutazione del rapporto tra sicurezza alimentare e libera circolazione delle merci, quindi, bisogna considerare la portata delle disposizioni contenute nel Regolamento (CE) n. 178/02 sotto il profilo strettamente commerciale. Forme di neo-protezionismo, infatti, possono essere individuate:

- nell’art. 11 che dispone che: “gli alimenti e i mangimi importati

nella comunità per essere immessi sul mercato devono rispettare le pertinenti disposizioni della legislazione alimentare o le condizioni riconosciute almeno equivalenti della Comunità, o quando fra la Comunità e il paese esportatore esiste un accordo

specifico le disposizioni ivi contenute” [6]. Da tale lettura, quindi,

non è azzardato pensare che anche l’attività di promozione della qualità possa costituire uno strumento di protezione del mercato interno nei confronti delle economie estere emergenti caratterizzate da una standardizzazione verso il basso della qualità;

- nelle implicazioni sottese all’applicazione dell’art. 7 cioè del principio di precauzione (“nel dubbio scientifico è meglio proibire”). L’incertezza scientifica, così, diventa un fatto giuridicamente rilevante nel quale la Commissione gioca un ruolo fondamentale nell’autorizzare o vietare l’importazione di prodotti alimentari o parti di alimenti provenienti da Paesi terzi.

Va sottolineato, tuttavia, che un assetto normativo del genere cerca sempre di privilegiare la libera circolazioni delle merci rispetto le eccezioni, che gli Stati membri, possono rilevare anche ai fini del perseguimento della tutela della salute. Tutto ciò confermato, anche, dal costante indirizzo della giurisprudenza comunitaria, che ha, ad esempio, escluso che uno Stato Membro possa vietare l’importazione di un prodotto (in questo caso carne con alcuni ingredienti non di carne) per la ragione che avrebbe un valore nutritivo inferiore a quello di un altro prodotto già presente sul mercato [17].

1.5 QUALITA’, STANDARD E CERTIFICAZIONI NEL