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Limitare il consumo di carne rossa ed evitare le carni processate

Uno studio pubblicato su Lancet Oncology nel 2015, dall'Agenzia Internazionale per

la Ricerca sul Cancro (IARC), ha inserito le carni processate tra i cancerogeni certi

(il cosiddetto gruppo 1, che comprende anche l'amianto, l'alcol etilico e il fumo, le radiazioni ultraviolette e il Papilloma virus), e le carni rosse tra le sostanze

probabilmente cancerogene per l'uomo (gruppo 2A).

Lo IARC puntualizza, che con carni rosse ci si riferisce a tutte le carni di mammiferi che la maggior parte della popolazione mondiale mangia: bovini, suini, equini, e ovini; mentre con carni processate a tutti i tipi di carne che subiscono una lavorazione spesso con processi di salatura, affumicatura, stagionatura.

Fanno parte di questa categoria gli insaccati, i wurstel, la carne in scatola e la carne essiccata.

Il gruppo di lavoro, istituito dallo IARC, composto da 22 scienziati provenienti da 10 paesi diversi, ha valutato più di 800 studi epidemiologici per investigare, in diversi paesi, l'associazione tra consumo di carne rossa o processata e cancro.

Per la valutazione, un peso maggiore è stato attribuito agli studi prospettici di coorte, fra questi sono stati giudicati più informativi quelli studi che stimavano, attraverso dei questionari alimentari validati, il consumo di carne rossa e processata separatamente, che includevano un campione numeroso di persone tenendo in considerazione i principali confondenti.

L'assunzione media di carne rossa, tra i consumatori, è stata registrata tra 50-100 gr per persona al giorno, mentre il suo consumo più alto, maggiore a 200 grammi. I dati che associano positivamente il loro consumo, con un aumento del rischio di cancro, riguardano più di 15 sedi tumorali differenti, tra cui: l'intestino, l'apparato digerente in generale, il tumore al colon-retto, al pancreas e allo stomaco.

Ma è stata trovata una associazione positiva anche con il cancro alla prostata.

Oltre a vari studi epidemiologici, una meta-analisi che comprende 10 studi di corte, riporta una relazione dose-risposta significativa dal punto di vista statistico tra consumo di carni rosse/processate e tumore del colon. Rileva un aumento di rischio del 17 per cento nel caso di un consumo giornaliero di carni rosse pari a 100 g al giorno e un incremento del 18 per cento per un consumo di carni processate pari a 50 g al giorno. «Per un individuo, le probabilità di sviluppare un tumore del colon-

retto per il consumo di carne rossa rimangono poche, ma questo rischio aumenta insieme al consumo di carne rossa» chiarisce Kurt Straif dell'OMS.

Nei paesi occidentali il rischio individuale è intorno al 5 per cento lungo tutto

il corso della vita, un aumento del rischio del 18 per cento significa arrivare a circa il 6 per cento di rischio.

Le sostanze coinvolte nel processo tumorale sono molte, tra queste: gli N-nitroso composti (NOC), il ferro-eme, le amine aromatiche eterocicliche (HAA) e gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA).

I NOC si possono formare nelle operazioni di affumicatura e conservazione delle carni e dal ferro-eme (contenuto nella carne), esso è un composto di coordinazione

Le HAA e gli IPA possono formarsi durante la cottura della carne, e tutti possono dare addotti al DNA.

In tal senso, sono importanti anche i metodi di cottura della carne, per esempio se questa è cotta direttamente sul fuoco, può generare una quantità maggiore di IPA e HAA. In particolare, la formazione di IPA durante la cottura alla griglia sul carbone (carbone di legna, noto anche come “carbonella”) dipende dal contenuto in grasso della carne, dal tempo di cottura e dalla temperatura.

La formazione può essere dovuta a varie cause: la combustione incompleta del carbone, la trasformazione di alcuni componenti dell’alimento quali trigliceridi e colesterolo, oppure (ed è la causa più frequente degli alti livelli di IPA) il grasso fuso della carne. Infatti, durante la grigliatura su carbone ad alte temperature, le gocce di grasso colano sul carbone rovente dando luogo a reazioni di pirolisi, con produzione di IPA che volatilizzano e si depositano sulla superficie della carne.

Anche le amine eterocicliche si formano nei processi di cottura ad alte temperature per la reazione tra aminoacidi e creatina, entrambi presenti nella carne; inoltre, se cotta a temperature superiori a 300 gradi e per lungo tempo può avere concentrazioni maggiori di HAA. [55]

In base alle stime più recenti del Global Burden of Disease Project, un'organizzazione indipendente per la ricerca accademica, circa 34 mila morti per cancro ogni anno sono correlati a diete ricche di carni lavorate.

Si sta parlando di associazioni, e non di rapporto causa-effetto.

Malgrado i rischi associati al consumo delle carni rosse e processate, secondo le recenti valutazioni dell' Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC), nel 2011, gli italiani hanno consumato circa 86 chili di carne procapite contro i 115 del Nord America e i 122 dell’Australia e Nuova Zelanda [56]

A puro titolo di raffronto dobbiamo ricordare che anche nei “ricchi” paesi europei fino al XX° secolo il consumo medio annuo pro capite di carne non superava i 10 kg. A queste importanti ricerche si è aggiunto ora il recente e poderoso studio "NIH-

AARP Diet and Health Study", che ha valutato la correlazione tra dieta e mortalità,

sia globale che legata a 9 cause note, su un numero di 536.969 persone - età compresa tra i 50 ed i 71 anni- seguite per 16 anni, in 6 stati e due aree metropolitane USA.(9)

Va ricordato che, il consumo di carni rosse negli USA, è tra i più elevati al mondo circa 100 kg all'anno pro capite, mentre nei paesi del Mediterraneo è molto più contenuto: questo dato tuttavia non modifica le conclusioni tratte da questa rigorosa analisi dei dati raccolti in un vasto campione di popolazione americana, dato che la tendenza in tutti i paesi ben sviluppati e nelle classi agiate dei paesi in via di sviluppo è quella di seguire le errate (!) abitudini alimentari americane. La forza dello studio sta nella numerosità del campione, nella stratificazione in numerosi sotto-gruppi, nell'analisi multivariata che ha ridotto notevolmente la distorsione di fattori confondenti.

Due limiti, sottolineati dagli stessi autori, sono la percentuale di soggetti che ha risposto al questionario ( i 536.969 soggetti erano solo il 17,6% delle persone contattate) ed il fatto che la rilevazione dei dati, sia pure molto accurata in quanto comprendente 124 item, sia stata effettuata solo all'inizio dello studio. Nonostante questi limiti, tuttavia, è stato possibile raccogliere una gran mole di dati ed esaminare le cause di morte in ben 128.000 persone: un campione molto numeroso e valutato con tale rigore, da ritenere che i fattori confondenti, ed i

possibili bias, possano essere molto contenuti. Gli autori, ricercatori del National

Cancer Institute of Bethesda, hanno analizzato le cause di morte dei soggetti e le

hanno relazionate con lo stato socio-economico, il BMI, le abitudini alimentari, con il consumo di frutta e verdura, alcool, fumo, attività fisica ecc., nella analisi finale dei dati si è scorporata l' influenza di tutti questi fattori sulla mortalità, evidenziando il ruolo della carne. E'stato possibile dimostrare chiaramente che, il consumo di carni rosse, in particolare se trattate, è direttamente correlato con l'aumento della mortalità generale ed in particolare per cancro, malattie cardiovascolari, ictus, diabete, malattie renali, malattie epatiche, malattie respiratorie, infezioni (hazard ratio for highest versus lowest fifth 1.26, 95% confidence interval 1.23 to 1.29).

Solo per le demenze tipo Alzheimer non è stata dimostrato un aumento di mortalità nei grandi consumatori di carne rosse, ed è addirittura possibile un effetto protettivo che tuttavia andrebbe confermato.

Un dato inaspettato ma coerente con l'ipotesi di tossicità delle carni rosse, specie se processate, è la forte correlazione con le malattie epatiche croniche, il cui rischio, è più che raddoppiato nei forti consumatori (hazard ratio 2.30, 1.78 to 2.99).

Vari studi in precedenza, avevano sottolineato la probabile tossicità di nitriti e nitrati, presenti particolarmente negli insaccati, e di ferro eminico, presente in alte concentrazioni nelle carni rosse (10-14).

Più precisamente, secondo i ricercatori, nitriti e nitrati sarebbero responsabili di un aumento della mortalità tra il 37 ed il 72% dell’incremento totale, mentre il ferro eme presente anche nelle carni non trattate sarebbe responsabile di un aumento di mortalità oscillante tra il 20 ed il 24%.

Un' importante acquisizione dello studio, giustamente evidenziata dai ricercatori, è che pur mantenendo un costante introito di proteine animali, la semplice sostituzione di carni rosse con carni bianche, ed in particolare con pesce, comporta una diminuzione del rischio di morte per tutte le cause del 25%. [58]

In conclusione, fintanto che un nuovo studio di comparabile numerosità e rigorosità non riuscirà a smentire questa ricerca, rimangono validi il sintetico commento proposto dall’ epidemiologo John Potter: "il consumo di carne rossa fa male alla salute degli uomini oltre a quella del pianeta" e la esortazione dell’ Editor in Chief

del British Medical Journal Fiona Godlee: "Cosa possono fare i medici ora che conoscono questi dati? Possono promuovere ulteriori più approfondite ricerche e possono offrire un modello come fecero 30-50 anni, quando alcuni medici cessarono di fumare ed esortarono i pazienti a seguirli.” [59]

I meccanismi, attraverso i quali, un eccessivo consumo di carni rosse e processate, promuove l'insorgenza di patologie croniche e aumenta il rischio di mortalità, potrebbero essere molteplici.

Nel 2010, i risultati dello studio EPIC-PANACEA, hanno evidenziato la relazione tra il consumo totale di carne e la prospettiva di aumentare di peso. Tale esperimento, è stato condotto su un totale di 370'000 volontari, d'età compresa fra 25-70 anni, reclutati in dieci paesi europei, ed inseriti nel progetto PANACEA, inerente le buone abitudini alimentari e i corretti stili di vita (i volontari inseriti hanno, per es. smesso di fumare, di bere alcolici, di mangiare fuori casa, hanno iniziato a svolgere attività fisica etc).

La compilazione di questionari alimentari validati e la registrazione del loro peso e delle loro altezze è stata eseguita sia al momento del reclutamento che nei 5 anni

valutare l'associazione fra l'intake energetico per il consumo di carne (Kcal/giorno) e l'aumento di peso annuale (gr/anno), in relazione all'età, il sesso, l'intake energetico totale, l'attività fisica, la dieta seguita e altri potenziali confondenti. E' stato possibile dimostrare, aggiustando l'intake energetico totale, che il consumo totale di carne è positivamente associato con l'aumento di peso in entrambi i sessi, nei soggetti sovrappeso e normopeso e nei fumatori e nei non-fumatori. Un aumento nell'assunzione di 250 g/giorno di carne (circa 450 Kcal), ha portato ad un incremento di peso di 2 kg ogni 5 anni (95% CI: 1.5, 2.7 kg).

Questa associazione positiva è stata osservata sia per la carne rossa, sia per il pollame e la carne processata. Lo studio conclude che, sulla base dei risultati ottenuti, un decremento del consumo di carne aiuta a migliorare il controllo del peso. [60]

Definire come rappresentare una dieta bilanciata dal punto di vista dei macronutrienti rimane una questione aperta e un'importante priorità della ricerca nel campo della nutrizione.

In quest'ottica, si aggiungono molti studi che non analizzano più solo gli effetti specifici dell'intake proteico ma anche la scelta delle fonti proteiche, che influenza inevitabilmente gli altri componenti della dieta, come i macro-micro nutrienti e i fitochimici, oltre ad essere un determinante di rilievo per ottenere esiti favorevoli di buona salute.

Per esaminare l'associazione tra l'assunzione di proteine animali o vegetali e il rischio di mortalità per cause specifiche e per tutte le cause, un ampio studio di corte, che comprende 131'342 partecipanti, provenienti dall'"Nurses' Health Study e dall'

Health Professionals Follow-up Study", sono stati seguiti per ben 32 anni di follow-

up, durante i quali vennero somministrati loro dei questionari sia al momento del reclutamento, sia ogni due anni, per informarsi sullo stile di vita e lo stato di salute. L'intake medio proteico registrato, in riferimento alla percentuale di energia giornaliera, era il 14% per le proteine animali il 4% per quelle vegetali.

Dopo un aggiustamento per i fattori di rischio, l'assunzione di proteine animali è stata debolmente associata ad un alto rischio di mortalità, in particolare per le patologie cardiovascolari, mentre l'assunzione di proteine vegetali venne associata a un basso rischio di mortalità.

L'associazione risultò più debole per i partecipanti senza alcun fattore di rischio, ma molto più forte per coloro che avevano associato almeno un fattore di rischio (fumatori, assumevano alcolici, sovrappeso o obesi che non facevano attività fisica). La sostituzione di proteine di origine animale, con quelle di origine vegetale, è stata associata a un rischio inferiore di mortalità. In particolare il rischio relativo per tutte le cause era del 0.66, con la sostituzione del 3% dell'energia proveniente da proteine vegetali con quella da proteine animali, esso aumenta fino al 0.88 per le carni non processate e allo 0.81 per le uova.

Questo studio evidenzia l'importanza della fonte proteica, sulla base del principale risultato ottenuto, ovvero che la sostituzione di proteine animali, specialmente quelle provenienti da carni rosse, con quelle vegetali riduce il rischio di mortalità.[60] In molti studi, infatti, uno stile alimentare caratterizzato dal consumo di carni rosse e salumi, e in generale di proteine animali, si associa a un'aumentata concentrazione di molecole dell'infiammazione nel sangue.

Tra questi, uno studio trasversale, condotto su 2.198 volontari, sia uomini e donne, si è posto l'obiettivo di esaminare l'associazione tra il consumo di carne rossa e pane

ottenuto da cerali integrali, sui livelli plasmatici dei biomarcatori correlati al metabolismo del glucosio, allo stress ossidativo, all'infiammazione e all'obesità. Dopo aver rilevato attraverso questionari alimentari lo stile di vita e quello dietetico, associati alle misurazioni antropometriche, il consumo di carne rossa e di pane ottenuto da cereali integrali è stato suddiviso in quintili, secondo l'assunzione. Successivamente si è proceduto con l'esaminare la concentrazione plasmatica dei seguenti marcatori: metabolismo del glucosio (HbA1c), sensibilità insulinica (adiponectina), infiammazione (CRP), stress ossidativo ( GGT), accumulo epatico di acidi grassi (AAT, GGT) dislipidemia (HDL e TG).

L'analisi ha riportato che, un alto consumo di pane ottenuto da cereali integrali, è significativamente associato a valori modestamente bassi di GGT, ALT e hs-CRP; mentre un alto consumo di carni rosse è significativamente associato ad alti livelli di GGT e hs-CRP, dopo l'aggiustamento per i potenziali fattori confondenti correlati allo stile di vita e a quello dietetico.

E' interessante notare che in questo studio, come in altri (per esempio in una sperimentazione clinica condotta su pazienti diabetici del NHS), la relazione fra carni rosse ed infiammazione si abbassa significativamente quando si corregge l'analisi statistica per indice di massa corporea.

Nel presente studio, a seguito dell'aggiustamento per BMI e circonferenza vita, l'associazione tra consumo di carne rossa e incremento della concentrazione plasmatica di CRP, non è risultato così statisticamente significativo, a dimostrazione del fatto che il grado l'obesità viscerale è, probabilmente, la causa principale dello stato infiammatorio cronico che caratterizza le popolazioni. I risultati di questo studio, suggeriscono inoltre che, gli alti livelli plasmatici di CRP, correlati ad un alto consumo di carne rossa, possono ridursi con una concomitante assunzione di pane da cereali integrali [61]

Figura 5. Valori dei livelli plasmatici di proteina C reattiva (IC al 95%), tra i diversi quintili di assunzione di carne rossa, in riferimento alle diverse categorie di consumo di pane integrale.

Una riduzione della proteina C-reattiva è stata osservata anche nello studio giapponese "Dietary patterns and C-reactive proteine in Japanese man and woman". La peculiarità di questo studio è quella di analizzare non più singoli alimenti o nutrienti, bensì 4 modelli alimentari, in rapporto alla concentrazione plasmatica dei markers infiammatori, in particolare, quello della CRP.

I diversi modelli alimentari sono stati realizzati sulla base dei questionari alimentari compilati dai volontari e sulla frequenza di consumo di 49 alimenti.

Tra i pattern alimentari prescritti ai volontari, il modello "healthy", caratterizzato da un alto intake di vegetali, di frutta, di prodotti della soia, e di pesce, è risultato essere inversamente associato alle concentrazioni di hs-CRP, rispetto a "high-fat, seafood, and Westernized breakfast patterns".

Sebbene, anche la dieta "seafood", abbia riportato una debole riduzione della hs- CRP, solo il modello "healty" ha riportato la stessa riduzione anche a seguito dell'aggiustamento dei fattori confondenti.

Perciò, lo studio conclude, che l'healthy dietary pattern, può essere correlato a una riduzione dell'infiammazione.

Un ulteriore meccanismo, attraverso il quale, una dieta ricca di proteine animali, aumenta il rischio di mortalità per cause cardiovascolari, è la produzione, da parte del microbiota, del metabolita TMAO, trimetilammina N-ossido.

I cibi ricchi di proteine animali, come le carni rosse, lavorate ed i formaggi, oltre agli integratori amminoacidici, sono ricchi di colina e L-carnitina, che per azione della flora batterica intestinale, vengono metabolizzate in trimetilammina, la quale dopo essere ossidata nel fegato, genera TMAO, una sostanza che accelera l'ateroscelarosi in modelli animali e che è associata ad un aumentato rischio di malattie cardiache nell'uomo.

Uno studio condotto su topi e pubblicato dalla rivista "Cell", si è concentrato sull'inibizione degli enzimi del microbioma intestinale coinvolti nella metabolizzazione della colina in TMA.

Questo studio rappresenta una svolta rispetto ai precedenti, che si erano concentrati sull'inibizione degli enzimi dell'ospite, dando risultati sfavorevoli, quali danno epatico ed accumulo di TMA. Il composto identificato, per ridurre i livelli di trimetilammina, è il 3,3-dimetil-1-butanolo (DMB), che è naturalmente abbondante in alcuni oli extra vergine di oliva spremuti a freddo, aceto balsamico e oli di semi d’uva.

Nei topi che erano stati sottoposti ad una dieta ricca di colina e geneticamente predisposti all’aterosclerosi, il trattamento con DMB ha ridotto notevolmente i livelli di TMAO e inibito la formazione di placche arteriose, senza produrre effetti tossici. Ulteriori esperimenti hanno suggerito che DMB esercita i suoi effetti benefici inibendo la formazione TMA. Inoltre, DMB non ha ucciso i microbi intestinali, ma ha ridotto le proporzioni di alcuni batteri associati con alti livelli di TMA, TMAO e l’aterosclerosi.

Il trattamento con DMB differisce dai farmaci ipo-colesterolemizzanti perché si rivolge ai percorsi molecolari dei microbi intestinali, ma non delle cellule umane. “Se

i risultati dello studio saranno replicati sull’uomo, questo scoperta potrebbe diventare un nuovo approccio per il trattamento delle malattie cardiovascolari e metaboliche”, dice Hazen. “Nel frattempo, i nostri risultati suggeriscono che potrebbe non essere una cattiva idea quella di consumare una dieta mediterranea che aiuta ad evitare le malattie cardiache e altri problemi di salute”. [62]

A questo proposito è interessante notare come la razione giornaliera di proteine raccomandata dall'OMS sia al momento di 0,82 g per chilo di peso corporeo al giorno, che corrisponde a circa il 10% delle calorie giornaliere.

Oggi la stragrande maggioranza degli italiani e degli abitanti del Nord Europa e degli Stati Uniti, invece, consuma quasi il doppio del valore consigliato di proteine (più di 1,3g/kg/giorno). [63]

Tra tutti i macronutrienti, la restrizione proteica e di alcuni amminoacidi, è stata associata ad un aumento dell'aspettativa di vita e ad una riduzione dell'incidenza e della progressione delle patologie croniche e correlate all'invecchiamento, come gli eventi cardiovascolari, il diabete e il cancro.

Nella maggioranza dei modelli eucariotici, le vie di segnale che sono coinvolte nella regolazione del metabolismo e della crescita, come il target per la rapamicina (TOR)/S6 e l'adenilato-ciclasi PKA, promuovono anche l'invecchiamento e un aumento della mortalità.

Queste vie metaboliche si sono conservate e selezionate a partire dagli organismi ancestrali, come meccanismo protettivo verso il danno intrinseco ed estrinseco dovuto ai periodi di scarsità di cibo.

Sia nel modello di studio del lievito S. Cerevisiaes, che nei moscerini, una riduzione dell'intake proteico e aminoacidico, determinano l'inibizione della via metabolica mTOR (Mammalian Target of Rapamycin), IIS (Insulin/IGF-1 like) ed un aumento di GCN2 (General Control Nonderepressible 2 ), un'importante proteina chinasi coinvolta nel mantenimento dell'omeostasi e nell'adattamento alla crescita cellulare in risposta a condizioni di scarsità aminoacidica.

Tutti questi meccanismi portano ad un'attivazione della trascrizione dei geni di resistenza allo stress, uno stimolo all'autofagia, ed un aumento del fitness metabolico, promuovendo una maggior aspettativa di vita in salute. In particolare, nelle cellule di lievito, è stato dimostrato che sono principalmente tre gli aminoacidi ad essere coinvolti in una forte sensibilizzazione delle cellule allo stress ossidativo e all'invecchiamento.

In particolare la serina attiva la via di segnale Pkhs, mentre la treonina e la valina attivano Tor, una sua disattivazione genica, nelle cellule di lievito ha quintuplicato l'aspettativa di vita, oltre a diminuire i danni al DNA età dipendenti.

La riduzione dell'intake di questi tre aminoacidi, ha portato nei lieviti l'inibizione di