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Indicazioni nutrizionali nel reparto di "Oncologia Medica ed Ematologia" - ASST di Mantova: risultati e osservazioni

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Farmacia

Corso di Laurea Magistrale in Scienze della Nutrizione Umana

TESI DI LAUREA

Il cambiamento dello stile alimentare adiuvante

le terapie oncologiche e per prevenire il rischio di recidiva:

incontri con i pazienti Oncologici

dell'Ospedale"C. Poma"di Mantova

Relatrice:

Dott.ssa Lara Testai

Correlatrice:

Candidata:

Dott.ssa M. Chiara Bassi

Sofia Peparini

Anno Accademico: 2016/2017

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INDICE

Abstract pag 3

Introduzione pag 4

Il cibo, la nutrizione, l'attività fisica e la prevenzione del cancro: una prospettiva globale

1. Capitolo uno pag 8

1.1 Il grasso corporeo: mantenersi snelli all’interno del range

di normalità del peso corporeo pag 8

1.2 Mantenersi fisicamente attivi nella vita di tutti i giorni pag 13 1.3 Limitare il consumo di alimenti ad alta densità calorica ed

evitare il consumo di bevande zuccherate pag 18

1.4 Basare la propria alimentazione prevalentemente su cibi di provenienza vegetale, con cereali non industrialmente raffinati e legumi in ogni pasto e un’ampia varietà di verdure non

amidacee e di frutta pag 26

1.5 Limitare il consumo di carne rossa ed evitare le carni processate pag 34

1.6 Limitare il consumo di bevande alcoliche pag 42

1.7 Limitare il consumo di sale e di cibi conservati sotto sale.

Evitare cibi contaminati da muffe, in particolare cereali e legumi pag 47 1.8 Assicurarsi un apporto sufficiente di tutti i nutrienti essenziali

attraverso il cibo pag 51

1.9 Allattare i bambini al seno per almeno sei mesi pag 55

1.10 Nei limiti dei pochi studi disponibili sulla prevenzione delle recidive, le raccomandazioni per la prevenzione alimentare

del cancro valgono anche per chi si è già ammalato pag 56 2. Capitolo due

Percorso di continuità del progetto DIANA 5 per la prevenzione terziaria: incontri di nutrizione nel reparto di Oncologia Medica

e Ematologia dell'Azienda Ospedaliera "C. Poma" di Mantova pag 58

3. Capitolo tre pag 66

Incontri nutrizionali con i pazienti oncologici in prevenzione terziaria

3.1 Obiettivi dello studio pag 66

3.2 Materiali e metodi pag 68

3.3 Risultati pag 68

3.4 Osservazioni pag 74

3.5 Discussione pag 76

3.6 Prospective pag 78

4. Opuscolo “Alimentazione e Chemioterapia” pag 79

(3)

Abstract

Nel reparto di "Oncologia Medica e Ematologia"- ASST di Mantova, diretto dal Prof. Maurizio Cantore, è stato proposto, per i pazienti oncologici in prevenzione terziaria ed i loro famigliari, un percorso conoscitivo ed informativo per un'alimentazione più corretta e consapevole.

Questa iniziativa, alla quale ho potuto partecipare attraverso l'attività di stage, è iniziata nel mese di giugno 2017: la Nutrizionista Dott.ssa M. Chiara Bassi, la quale ha seguito il conclusosi progetto Diana 5 (DIeta e ANdrogeni - Istituto tumori di

Milano e Asl di Mantova) e la Psicologa Dott.ssa Chiara Iridile, hanno guidato,

attraverso cicli di incontri prima a cadenza quindicinale, poi settimanale, un gruppo di pazienti e famigliari in questo percorso di cambiamento.

L'Obiettivo è quello di migliorare, sia durante la cura che la fase di follow-up, la qualità della vita, adiuvare le terapie oncologiche e ridurre il rischio di recidiva. Le indicazioni nutrizionali sono state desunte da meta-analisi redatte dal WCRF nel 2007, dallo IARC di Lione nel 2004 (Codice Europeo di Prevenzione Oncologica) e dalla letteratura corrente. Molta attenzione è riposta nel ridurre i parametri di sindrome metabolica, ridurre l'infiammazione cronica, la stimolazione di eventuali fattori di crescita e la glicemia.

Per valutare l’applicazione consapevole dei consigli nutrizionali e le modifiche dello stile di vita dei pazienti ho somministrato, durante gli incontri, due tipologie di questionari alimentari: uno dedicato ai partecipanti al primo incontro, l'altro ai partecipanti ad incontri successivi al primo.

Con questo metodo, ho raccolto ed elaborato i dati provenienti dai questionari, per analizzare il processo di modifica delle abitudini alimentari e le difficoltà riscontrate nel cambiamento; per valutare la consapevolezza di una sana alimentazione e l'efficacia degli incontri nutrizionali, contestualmente al ruolo primario del counselling nutrizionale e psicologico.

Due sono state le principali difficoltà rilevate attraverso i questionari: reperire gli ingredienti per cucinare, per i partecipanti al primo incontro - cucinare menù differenziati per se stessi e per la propria famiglia, per i partecipanti agli incontri successivi al primo.

E' inoltre emerso che i partecipanti al primo incontro hanno ritenuto il cambiamento alimentare proposto come un intervento a breve termine, mentre i partecipanti agli incontri successivi lo hanno considerato come un intervento a lungo termine.

Questi ultimi hanno dichiarato nella quasi totalità che la nuova alimentazione ha influito positivamente sul loro stile di vita: in particolare, hanno limitato il consumo di carni processate e carne rossa, l'acquisto di piatti pronti/prodotti confezionati e industriali e hanno inserito i legumi almeno 1-2 volte a settimana nella loro dieta. Tutti i pazienti ritengono di aver ricevuto informazioni chiare durante gli incontri. Inoltre, per ridurre gli effetti collaterali delle terapie, abbiamo redatto e diffuso, all'interno del reparto, l'opuscolo "Alimentazione e Chemioterapia" che con consigli nutrizionali mirati, da adottare prima durante e dopo la chemioterapia, promuove un'alimentazione adiuvante.

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Introduzione

Il cibo, la nutrizione, l'attività fisica e la prevenzione del cancro: una prospettiva globale

Nel novembre del 2007 è stato pubblicato il rapporto congiunto del World Cancer Research Fund (WCRF) e dell’American Institute for Cancer Research (AICR), intitolato “Food, nutrition, physical activity and the prevention of cancer: a global perspective” (WCRF 2007). WCRF e AICR, attraverso la collaborazione di un gruppo di lavoro internazionale da loro istituito, hanno concluso l'opera di revisione di tutti gli studi scientifici sul rapporto fra alimentazione, obesità, stili di vita e prevenzione dei tumori. Da questo lavoro ciclopico è stato possibile fornire indicazioni concrete basate su un'evidenza medico-scientifica per la prevenzione universale e dedicata dei tumori. I risultati più solidi della ricerca scientifica sono stati riassunti in dieci raccomandazioni, con lo scopo di promuovere i corretti stili di vita, attraverso la divulgazione e la presa di coscienza dei fattori che si sono dimostrati essere associati ad un maggior rischio di cancro. Queste raccomandazioni sono utili sia in un contesto di prevenzione primaria, per mantenere la condizione di benessere ed evitare la comparsa di malattie; sia di prevenzione terziaria, quando la malattia è già in atto e l'obiettivo è evitare/limitare le complicazioni e gestire i deficit consequenziali ad uno stato patologico disfunzionale cercando di limitare il rischio di recidive. [1]

In merito alla prevenzione primaria il WCRF nel 2009 nel suo report "Policy and

Action for Cancer Prevention" ha stimato che il 25% dei tumori nei paesi occidentali

potrebbe essere prevenuto adottando un regime alimentare corretto, riducendo il sovrappeso e raggiungendo livelli sufficienti di attività fisica giornalieri. In particolare, questa percentuale sale intorno al 40% per il tumore dello stomaco, del colon retto e della mammella e supera il 60% per i tumori di esofago, tratto aerodigestivo superiore ed endometrio. La prevenzione primaria dei tumori ottenibile mediante cambiamenti dello stile di vita avrebbe inoltre il vantaggio di essere efficace contro altre patologie a elevata incidenza e mortalità nel mondo occidentale, che presentano fattori di rischio in comune con la patologia tumorale, come, per esempio, le malattie cardiocerebrovascolari. Secondo gli ultimi dati rilasciati dall'OMS, il numero maggiore di decessi è dovuto alle malattie cardiovascolari (17,7 milioni di persone), seguite dai tumori (8,8 milioni), dalle malattie respiratorie (3,9 milioni) e dal diabete (1,6 milioni). [2]

L'American Hearth Association dichiara che: "Modificando alimentazione e

introducendo stili di vita corretti si possono prevenire malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2 e le neoplasie più diffuse nella popolazione quali tumore alla mammella, colon, polmone e prostata". Il "Department of Health and Human Services" in uno studio di prevenzione e incidenza del diabete negli U.S.A ha

aggiunto che l'introduzione di un corretto regime alimentare porta ad una riduzione dell'insorgenza di diabete di tipo due del 31%. Questa percentuale cresce fino al 42% se alla dieta si associa un inferiore peso corporeo e fino al 58 % se viene aggiunta anche una costante attività fisica. Questo dimostra che l'associazione di stili di vita corretti ha un'azione sinergica e moltiplicativa nella prevenzione delle malattie croniche. Queste ogni hanno sono causa di morte per 40 milioni di persone (circa il

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caratteristiche: sono malattie non trasmissibili e progrediscono lentamente. Il lungo decorso è il risultato della combinazione di più fattori di rischio: genetici, fisiologici, ambientali e comportamentali. Un fattore di rischio è una specifica condizione che risulta associata ad una malattia e si ritiene possa concorrere allo sviluppo o accelerarne il decorso. La sua assenza non esclude la comparsa della malattia, ma la sua presenza aumenta notevolmente il rischio di malattia.

Questi fattori, interagendo insieme, portano a delle alterazioni e quindi allo sviluppo delle patologie croniche e tumorali. I fattori di rischio si classificano in modificabili e non modificabili. Quelli non modificabili fanno parte delle caratteristiche di una persona e sono: l'età, la familiarità e il sesso; mentre quelli modificabili sono l'ambiente (sia interno che esterno) il fumo, l'alcol, la sedentarietà, l'alimentazione e la sindrome metabolica.

Quindi la salute è un equilibrio fra le caratteristiche della persona e l'ambiente esterno. I fattori di rischio modificabili hanno possibilità di prevenzione in quanto derivano dagli stili di vita che una persona sceglie. Essi rappresentano il 66% delle principali cause di morte per le patologie tumorali.[3]

Molte volte però gli stili di vita proposti o la motivazione nel perseguirli non sono sufficienti: per adottare stili di vita corretti bisogna anche essere in un contesto che ci permetta di fare scelte e ci permetta di applicarle. Occorrono politiche sociali, culturali, ambientali ed economiche in linea con questi principi.

L'OMS ha redatto dei target che mirano a prevenire ed abbassare del 25% l'incidenza delle patologie croniche a livello globale entro il 2025. Questi obiettivi includono la riduzione di molti fattori di rischio, per esempio: una riduzione del 10% del consumo di alcol (relativo al contesto nazionale), dell' inattività fisica; una riduzione del 30% del consumo abituale di tabacco e dell'intake di sale; una riduzione del 25% dei valori di pressione alta; una riduzione del 50% delle persone che ricevono cure farmacologiche per prevenire infarti e ictus; arrestare la crescita di diabete e obesità; aumentare dell'80% la disponibilità, a prezzi accessibili, delle medicine e delle tecnologie di base essenziali per trattare le patologie croniche sia all'interno delle strutture pubbliche che in quelle private. [4]

Il gruppo collaborativo Comparative Risk Assessment nel 2005, sulla base dei dati di mortalità dell'OMS, ha stimato le frazioni attribuibili di rischio di morte per tumore nella popolazione mondiale in generale e suddivisa per paesi a reddito elevato, basso e medio. Nei paesi ad alto reddito, il 37% dei tumori sarebbe attribuibile ai fattori di rischio modificabili, per un totale di 64.000 casi di morte prevenibili. [5]

La ricerca sui determinanti dei tumori legati all'alimentazione, al peso corporeo e alla sedentarietà, in seguito al rapporto del 2007 del WCRF, è proseguita intensamente. Lo stesso WCRF da allora ha condotto un'attività sistematica di raccolta, valutazione e analisi dei dati di letteratura; ad oggi il numero di studi disponibili per la maggior parte delle sedi tumorali è il doppio rispetto a quelli del 2007. Inoltre i dati relativi alle singole sedi tumorali vengono costantemente aggiornati da un panel di esperti indipendente attraverso il Continuous Update Project (CUP).

Nel 2014 la Commissione Europea ha reso noto il Codice Europeo contro il Cancro (ECAC) redatto in collaborazione con L'International Agency for Research on Cancer (IARC) di Lione. Ispirandosi alle raccomandazioni del WCRF, esso è un decalogo di raccomandazioni (12 in totale) per ridurre il rischio di cancro. In continuità con quanto già sostenuto in precedenza dal WCRF, l'ECAC afferma che: "oltre il 30% dei tumori sarebbe evitabile se modificassimo il modo di mangiare e

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oltre il 50% se modificassimo il nostro stile di vita". Pertanto Il Codice Europeo Contro il Cancro consiglia: non fumare e rendere gli ambienti in cui si vive liberi dal fumo; mantenere un peso salutare; svolgere attività fisica ogni giorno; limitare il consumo di alcolici; evitare un'eccessiva esposizione al sole; proteggersi dall'esposizione ad agenti cancerogeni noti e ridurre i livelli di radon presenti in casa. Inoltre per le donne raccomanda di preferire, ove possibile, l'allattamento al seno del bambino per almeno sei mesi. Tale comportamento riduce il rischio di cancro per la madre e il rischio di obesità in età adulta per il bambino che viene allattato; al contrario, la terapia ormonale sostitutiva (TOS) aumenta il rischio di alcuni tipi di cancro e pertanto si raccomanda di limitarne l'uso.

Le raccomandazioni proseguono invitando a vaccinare i propri figli, a partecipare ai programmi di screening per il cancro e seguire una dieta sana. In merito a una dieta sana, lo studio EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and

Nutrition), il quale ha studiato la frequenza dei decessi in una popolazione di oltre

500.000 persone, ha evidenziato una tendenza ad ingrassare a distanza di dieci anni per quelle persone che seguono una dieta ipercalorica, rispetto a quelle che seguono una dieta sana ed equilibrata. In generale, le più importanti raccomandazioni provenienti dalla letteratura scientifica indicano di adottare le stesse strategie nutrizionali sia per la prevenzione delle patologie oncologiche sia per le loro recidive, ovvero quando una persona si è già ammalata.

Quindi per seguire una dieta sana è raccomandato:

1. Basare la propria alimentazione prevalentemente su cibi di provenienza vegetale, con cereali non industrialmente raffinati e legumi in ogni pasto e un’ampia varietà di verdure non amidacee e di frutta.

2. limitare i cibi ad alto contenuto calorico, come quelli ricchi di zuccheri e grassi. 3. limitare il consumo di carni rosse (suine, bovine, ovine e di cavallo)

4. evitare le bevande zuccherate

5. evitare la carne conservata (salumi e affini) 6. limitare il consumo di alcolici

7. limitare il consumo di sale (non più di 5 grammi al giorno) e di cibi conservati sottosale.

Il Codice Europeo Contro il Cancro, nella sua definizione di "piatto sano" mette bene in evidenza che 1/4 della nostra alimentazione deve essere occupato dalla frutta, 1/4 dalle verdure (intese come ortaggi ad esclusione delle patate), 1/4 dai cereali integrali e 1/4 da cibi proteici: pesce, carne, uova e legumi.

Tra gli organismi che si occupano di indicare le strategie di controllo e prevenzione delle malattie, si ricordano i CDC, Centers for Disease Control di Atlanta (USA). La divisione Cancer Prevention and Control ha una sezione specifica che tratta dei più frequenti tumori dal punto di vista epidemiologico e della prevenzione secondaria. Una sezione ad hoc sulla nutrizione e sull’attività fisica fornisce linee guida per un corretto stile di vita.

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Anche il Global Action Plan for the Prevention and Control of NCDs (noncommunicable diseases) 2013-2020 dell’OMS, si propone di ridurre morbosità e mortalità delle malattie croniche tramite un approccio che tenga conto della necessità di equità, promuovendo azioni nelle diverse fasi della vita (life-course

approach), azioni multisettoriali e che coinvolgano i singoli individui e le comunità.

Tra gli obiettivi di questo piano vi è la riduzione dei fattori di rischio modificabili, tra cui la riduzione del consumo di alcol, la riduzione della sedentarietà e la promozione dell’attività fisica e di una dieta sana.

A questo proposito, sono fornite indicazioni specifiche riguardanti la riduzione del sale aggiunto negli alimenti, la riduzione degli acidi grassi saturi a favore degli insaturi, la sostituzione degli acidi grassi trans, la riduzione degli zuccheri semplici e aggiunti in alimenti e bevande, la promozione dell’aumento del consumo di frutta e verdura, anche aumentandone disponibilità e accessibilità e la riduzione del consumo di alimenti a elevata densità energetica.

Analoghe strategie nutrizionali vengono anche raccomandate dalla Società Europea di Cardiologia che ha scritto linee guida per la prevenzione delle malattie cardiovascolari.

Questo significa che la ricerca, anche se per motivi diversi, sollecita ad adottare analoghe indicazioni nutrizionali e gli stessi stili di vita per la prevenzione delle più frequenti patologie cronico-degenerative.

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Capitolo uno

Le dieci raccomandazioni del WCRF:

1.1 Il grasso corporeo: mantenersi snelli all'interno del range di normalità del peso corporeo

Il principale interesse della Scienza della Nutrizione, dall'inizio fino alla metà del ventesimo secolo, è stato quello di proteggere la popolazione dalla malnutrizione e dalle sue conseguenze.

Quest'attenzione era rivolta particolarmente alle popolazioni dei paesi a medio e basso reddito, dove uno stato di denutrizione che determina una maggior vulnerabilità per un ampio spettro di patologie, genera persone deboli e malate, quindi inabili a produrre e con una bassa aspettativa di vita.

A partire dagli anni '70 del ventesimo secolo l'industrializzazione e la crescente urbanizzazione, hanno portato, in tre decadi, ad un raddoppio della popolazione urbana, che è passata dai 4 miliardi nel 1975 agli attuali 7,3 miliardi [Word

population prospects, rapporto del 2015].

Di conseguenza un'economia famigliare basata sul lavoro manuale e sull’autoconsumo legato alla terra, è stata sostituita con forme di vita urbanizzate e dipendenti dall’acquisto di cibi a basso prezzo. L'inurbamento, a causa del cambiamento degli stili di vita alimentari e ad una maggior sedentarietà, è indissolubilmente legato ad un aumento delle malattie croniche non trasmissibili, come diabete ed obesità.

Le stime dell'International Diabetes Federation prospettano, fra 25 anni, un aumento del 50% delle persone attualmente affette da diabete, ad oggi 415 milioni; inoltre, i dati mostrano che l'obesità, solo negli ultimi 40 anni, è cresciuta del 600%, passando dai 105 milioni di obesi del 1975 ai 640 milioni di oggi.

Queste persone sono prevalentemente distribuite nei paesi ad alto reddito, dove il 22% della popolazione adulta è obesa, mentre nei paesi a medio e basso reddito la percentuale è inferiore al 4%.

Tuttavia, sulla base dei dati provenienti dall'American Journal of Clinical Nutrition, nella classifica dei paesi con più del 60% di persone obese fanno parte sia tre paesi ad alto reddito (Stati Uniti; Australia; Gran Bretagna), sia tre a basso reddito (Messico; Egitto; Sud Africa). [6]

Nei paesi a medio e basso reddito, l'obesità e le patologie ad essa correlate coesistono con patologie e disordini dovuti a denutrizione.

Figura 1. Stima della prevalenza dell'obesità e del sovrappeso, secondo tre range di BMI, in differenti paesi; GDP = gross domestic product per capita ($US). UK = United Kingdom. USA = United States of America.

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In generale l'obesità è più comune fra le donne rispetto agli uomini, anche se molti più uomini sono in sovrappeso.

I tassi relativi a sovrappeso e obesità sono soliti aumentare nella mezza età e

diminuire nella vecchiaia; inoltre l'obesità aumenta maggiormente nelle città e nelle aree urbane, mentre fra le comunità rurali questo incremento è molto più lento. [7] I tassi di obesità variano in relazione allo stato socioeconomico. In un'analisi tra diversi paesi, Il BMI aumenta rapidamente in funzione del reddito nazionale, si stabilizza, ed eventualmente decresce. Esso aumenta più rapidamente fino ad un reddito annuale di $US 5000, raggiunge un picco con un reddito di $US 12500 per le donne e $US 17000 per gli uomini. Nei paesi in cui il prodotto nazionale lordo procapite (PNL) è inferiore a $US 2500, l'obesità nelle donne è più frequente rispetto ai paesi ad alto reddito. Lo stesso vale anche per le donne in sovrappeso, queste sono in numero maggiore nei paesi con un prodotto nazionale lordo procapite sotto i $US 2500, come la Cina, rispetto ai paesi ad alto reddito. [8]

In conclusione l'obesità sta aumentando notevolmente e diventando un disagio sia per i poveri, sia per i paesi il cui PNL è in crescita. Pertanto in questo e negli ultimi due decenni del ventesimo secolo è emersa una differente e imperativa

preoccupazione riguardante la sanità pubblica: le persone obese, oggi, sono il doppio di quelle sottopeso.

La letteratura scientifica, ad oggi, riporta la presenza in tutto il mondo di 2,16 bilioni di adulti e 170 milioni di bambini in sovrappeso [BMI>25 kg/m] o obesi [BMI>30 kg/m]; mentre 462 milioni di persone al mondo sono sottopeso, fra queste 159 milioni sono bambini affetti da crescita rallentata e 50 milioni sono bambini troppo magri per la loro altezza. (Lobstein et al., 2004; Finucane et al., 2011)

BMI e morbosità

Nella pratica clinica e in molti studi epidemiologici il grasso corporeo è stimato usando il body-mass index (BMI) o indice di Quetelet. Il BMI si ricava dividendo il peso corporeo (in kg) per l'altezza (in metri 2

). Le raccomandazioni del WCRF 2007 indicano di mantenere un BMI tra 21 e 23.

I risultati provenienti dagli studi epidemiologici sono concordi nell'evidenziare un'associazione forte e lineare fra l'aumento del BMI, al di sopra del range di 23 kg/m2

, e il rischio di sviluppare diabete di tipo 2, ipertensione, patologie cardiovascolari (CVD), colelitiasi, molti tipi di cancro ed altre patologie croniche, in entrambi i sessi [Willett et al., 1999].

L'associazione più forte è stata osservata per il rischio di diabete di tipo 2.

In uno studio condotto dall'Università di Harvard su oltre 100.000 infermiere americane, si è visto che, già a partire da un BMI di 22 kg/m2

, il rischio relativo di diabete si eleva del 25% per ogni unità d'incremento del BMI. Anche il rischio relativo dell'infarto al miocardio aumenta del 25%, a seguito di un incremento ponderale di 5-8 kg [10].

In relazione alle cardiopatie coronariche (CHD), è da menzionare lo studio del 2005, condotto seguendo, con un follow-up di 9 anni, quasi 140'000 Coreani. Da questo lavoro è emerso un incremento del 14% del rischio relativo per le CHD, ad ogni aumento di una singola unità di BMI; inoltre, confrontando i dati tra un BMI di 18-18,9 kg/m2

e un BMI normopeso, quest'ultimo risulta associato ad un doppio rischio relativo per la suddetta patologia. Ampi studi di corte hanno trovato una forte

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relazione dose-risposta tra l'aumento di peso acquisito fin dall'adolescenza (età di 18 anni per le donne e 20 per gli uomini) e il rischio di sviluppare diabete, ipertensione, CHD e colelitiasi. Anche un modesto incremento di peso, (<5kg) a partire dall'adolescenza, è significativamente associato con un aumento del rischio di molte patologie croniche, indipendentemente dal peso di partenza. Perciò, monitorando i cambiamenti di peso fin dalla giovane età, si possono predire misure cliniche utili e sensibili ad una precoce individuazione delle patologie croniche.

Il "paradosso dell'obesità"

I numerosi studi epidemiologici hanno spesso riportato risultati variabili in merito alla correlazione rischio di morte - BMI. Infatti, in molti studi la mortalità non aumenta, come ci si aspetterebbe, in modo monotonico-lineare, all'aumentare del BMI. Molti studi prospettici, condotti su centinaia di migliaia di persone, mostrano che l'indice di massa corporea associato alla più bassa mortalità è pari a circa 25 kg/m2

, cioè al limite fra normopeso e sovrappeso. Questi studi mettono in relazione il peso corporeo con il rischio di mortalità attraverso la rappresentazione grafica di "curve ad U" che illustrano un maggior rischio di mortalità sia fra le persone obese, sia fra quelle snelle (con un BMI nella normalità). [11]

Figura 2. Il rischio relativo di morte in relazione al BMI in un campione di uomini statunitensi, arruolati per lo studio dieta e salute dal "National Institutes of Health (NIH)– AARP". Il RR è indicato con una linea continua, mentre gli IC al 95% con una linea tratteggiata.

L'associazione tra l'obesità e una decrescita del rischio di mortalità, così come l'associazione fra un BMI normopeso e un aumentato rischio di mortalità, definiscono il "paradosso dell'obesità", le cui basi biologiche oltre ad essere infondate, risultano potenzialmente pericolose per la salute pubblica.

La spiegazione più plausibile di questi risultati proviene da bias metodologiche derivanti da casualità inversa. Infatti, come si spiegherà per la metanalisi presentata in seguito, i pazienti arruolati con un basso BMI possono essere affetti da patologie che inducono una perdita di peso ed un più rapido declino; ciò porterebbe a considerare erroneamente un aumento del rischio di mortalità per chi ha un basso BMI e viceversa una diminuzione per chi presenta un alto BMI.

Inoltre, un altro errore metodologico è stato compiuto nel settare i range del BMI, ipotizzando che la mortalità fosse un criterio semplice ed affidabile con cui attribuire

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Una recente metanalisi, che ha coinvolto 97 studi prospettici di corte (2,9 milioni di individui), riporta un ridotto rischio di mortalità per i soggetti in sovrappeso ed anche per coloro che rientrano nel margine inferiore della prima classe di obesità.

Gli autori dello studio hanno comparato il BMI dei normopeso (18,5-<25 kg/m), con il rischio relativo di decesso nei sovrappeso (0,94); nella classe prima di obesità (0,95) e nelle classi 2 e 3 di obesità (1,29).

In relazione ad un peso nella norma, solamente i gradi 2 e 3 di obesità sono associati ad un alto rischio di mortalità per tutte le cause; il primo grado di obesità non è associato ad un alto rischio di mortalità e il sovrappeso è associato ad una significativa diminuzione del rischio di mortalità (Flegal et al., 2013).

Questi risultati contraddicono chiaramente le evidenze provenienti dalle basi scientifiche, cliniche ed epidemiologiche riguardo i benefici nel mantenere un peso salutare.

La validità di questi risultati è stata contrastata principalmente per due rilevanti problemi metodologici:

1. Molti studi prospettici (circa >6 milioni di partecipanti) sono stati esclusi dalla metanalisi poichè non usavano le categorie standard del BMI (18,5-24,9 per i normopeso; 25-29,9 per i sovrappeso; ≥30 per gli obesi).

2. La metanalisi include numerosi studi che hanno coinvolto un gruppo eterogeneo di persone composto da anziani, persone ammalate, fumatori correnti ed ex-fumatori; tali categorie non sono state in alcun modo differenziate dal gruppo di riferimento oggetto di studio, ne tantomeno escluse dallo stesso.

Questo sarebbe stato necessario, in quanto il gruppo di studio comprende persone snelle (BMI 18,5-24,9) ed attive fisicamente, a differenza dell'altro gruppo eterogeneo di persone, che per le loro condizioni sono soggette a un prevedibile calo di peso o ad un peso inferiore già all'inizio dello studio.

A causa di un'iniqua comparazione fra i due gruppi, le persone sovrappeso e obese (in generale quelle con il più alto BMI), presentano un'associazione sottostimata in relazione al rischio relativo della mortalità, creando di fatto un artefatto fra le suddette categorie. (Willet et al., 2013).

Questo problema, che emerge nel relazionare gli outcome dei tassi di mortalità con il BMI, è definito casualità inversa (Hu, 2008).

Al fine di minimizzare l'impatto degli errori metodologici provenienti da casualità inversa, è importante escludere dallo studio tutti gli arruolati che presentano patologie croniche in stadio preclinico o in corso.

I dati confondenti provenienti da questi pazienti, possono essere evitati escludendo i decessi dai primi anni di follow-up, poichè i pazienti con patologie croniche occulte o diagnosticate, tendono a decedere precocemente, già nei primi anni dello studio. Il problema della casualità inversa diventa ancora più pronunciato per gli studi condotti su persone anziane, in quanto l'incidenza delle patologie croniche aumenta con l'età.

L'età avanzata determina un'attenuazione fra l'associazione positiva BMI - mortalità. Inoltre, il BMI nelle persone anziane, è un indicatore poco affidabile: un suo calo può non essere direttamente relazionato ad una diminuzione del grasso corporeo, bensì a una diminuzione della massa muscolare, spesso dovuta a sarcopenia dell'anziano.

Questa minor affidabilità del BMI, nelle persone anziane, è emersa dallo studio "Cancer Prevention II", in cui un'analisi stratificata di tre gruppi di persone (30 - 64;

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65 - 74; ≥75 anni) ha dimostrato un' associazione più forte, tra rischio di mortalità e aumento del BMI, nei giovani rispetto agli anziani (Calle et al.,1999). [13]

La circonferenza addominale ed il rapporto circonferenza vita-fianchi (waist-hip ratio), sono misure maggiormente affidabili rispetto al BMI nel relazionare il rischio di mortalità. La circonferenza vita-fianchi, però non è raccomandata come indicatore dell'obesità addominale, infatti è la circonferenza addominale il miglior indicatore per stimare la quantità di grasso depositata sull'addome.

Come nel caso del BMI, i punti di cut-off per la circonferenza addominale, per le popolazioni Asiatiche e Messicane, sono più bassi di quelli stimati per le popolazioni d'origine Europea.

Questo perchè, le popolazioni Asiatiche e Messicane presentano un maggior rischio di ammalarsi anche solo per un modesto incremento del grasso intra-addominale. I valori di cut-off della circonferenza addominale riferiti dalla WHO, sono: 94 cm per gli uomini e 80 cm per le donne, stimati per un BMI di circa 25 kg/m2

; mentre valori di 102 cm per gli uomini e 88 per le donne stimati per un BMI di circa 30 kg/m2. Per

la popolazione Asiatica i valori di cut-off proposti sono invece di 90 cm per gli uomini e 80 cm per le donne.

La valutazione dell'impatto delle misure antropometriche sulla mortalità deve essere fatta calcolando il rischio assoluto (e le differenze del rischio), il rischio attribuibile alla popolazione e il rischio relativo (RR).

Le differenze del rischio danno la migliore valutazione dell'impatto sulla mortalità, ma sono raramente usate negli studi epidemiologici; il secondo è usato prevalentemente dalle compagnie assicurative, poichè offre una stima dei determinanti relativi alla mortalità in un livello di popolazione; il terzo è usato negli articoli scientifici come misura principale, sebbene abbia il limite di essere dipendente da un livello di rischio di fondo.

Lo studio EPIC (European Prospective Investigation on Cancer) ha confrontato, sia in soggetti giovani che in adulti di mezza età, la circonferenza addominale e la circonferenza vita-fianchi, con tutte le cause di mortalità.

Questo studio ha reclutato quasi 360'000 partecipanti provenienti da 9 nazioni europee ed ha registrato, durante il follow-up di 9 anni e 7 mesi, 14'723 decessi. La tabella 1 sottostante mostra i risultati del RR, suddivisi per quintili, in relazione alla misurazione della circonferenza vita-fianchi e di quella addominale, sia negli uomini che nelle donne.

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Inoltre, sottogruppi di analisi hanno rivelato che il RR, a seguito di un aumento della circonferenza addominale e delle circonferenza vita-fianchi, è maggiore nei range con un basso BMI (figura sottostante).

Per esempio, il RR nel quintile superiore, per gli uomini con un BMI < 24,9 è di 2,51 (95% CI: 1,59-1,96); mentre per quelli con un BMI ≥27,7 è di 0,87 (95% CI: 0,46-1,6). Risultati simili sono stati osservati anche per la misurazione della circonferenza vita-fianchi nelle donne. Per tutte le cause di morte (cancro, patologie circolatorie, respiratorie ecc) c'è una forte relazione con l' aumento della circonferenza vita-fianchi e di quella addominale, in entrambi i sessi. Negli uomini la causa di morte maggiormente correlata ad un aumento delle misure di entrambe le circonferenze, sono i decessi dovuti alle patologie respiratorie. [13]

1.2 Mantenersi fisicamente attivi nella vita di tutti i giorni

L'attività fisica è definita come ciascun movimento del corpo, prodotto dai muscoli scheletrici, che comporta una spesa energetica. Per stimare il dispendio energetico giornaliero di una persona si utilizzano i PAL (Physical Activity Level) o livelli di attività fisica. Il PAL deriva dal rapporto dell'energia totale spesa (TEE) sull'energia basale spesa (BEE). Gli individui, in funzione del loro PAL, vengono classificati in 4 distinte categorie:

• sedentari 1<PAL>1.4, una persona che ha una spesa energetica totale giornaliera (TDEE) poco maggiore del suo metabolismo basale e cammina meno di 30 minuti al giorno ad una velocità di 5-6.5 km/h. In questo caso il BEE -Basal rate of Energy Expenditure- include la spesa energetica data dalle azioni quotidiane necessarie per vivere autonomamente insieme all'effetto termico del cibo (TEF), ovvero il sottoprocesso della termogenesi che determina una spesa energetica (dispersione di calore) data da un aumento del consumo di ossigeno a seguito dell'ingestione di macronutrienti.

Secondo gli obiettivi di salute pubblica espressi dal WCRF, il numero di persone sedentarie, dovrebbe dimezzarsi ogni dieci anni, tale obiettivo necessita il supporto di politiche governative, come l'educazione e la promozione a uno stile di vita più attivo, integrato a progetti urbani e scolastici, che ne consentano il suo raggiungimento.

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• poco attivi 1.4<PAL<1.6, una persona che cammina 60 minuti al giorno. Per un adulto di 70 kg equivale a camminare circa 3 km ad una velocità di 5-6.5 km/h oppure svolgere altre attività che diano l'equivalente della spesa energetica della camminata. Tutte le attività, subentrano in aggiunta alle azioni quotidiane svolte per vivere autonomamente. Il secondo obiettivo espresso dal WCRF è quello di portare il PAL della popolazione sopra a 1.6, quando ad oggi la media del PAL per le persone che vivono nei paesi ad alto reddito è compreso fra 1.4 e 1.6 (quest'ultimo valore spesso è raggiunto da persone con un BMI nel range della normalità).

• attivi 1.6<PAL<1.9, una persona che cammina più di 60 minuti al giorno e percorre all'incirca 11 km alla velocità di 5-6.5 km/h

• molto attivi 1.9<PAL<2.5, una persona che cammina almeno due ore al giorno, percorrendo all'incirca 27 km alle velocità di 5-6.5 km/h [15]

Tabella 2. Le categorie PAL e la loro equivalenza in miglia/h di camminata alla velocità di 5-6 km/h

Il Fondo Mondiale per la Ricerca sul Cancro (WCRF), ha redatto le seguenti

raccomandazioni personali, al fine di conseguire uno stile di vita maggiormente attivo, che consenta una riduzione del rischio di patologie cardiovascolari e un aumento della qualità di vita. [16]

1. Cercate d'essere almeno moderatamente attivi tutti i giorni, ciò equivale a svolgere una camminata veloce di almeno 30 minuti ogni giorno. Anche l'attività fisica intermittente conferisce sostanziali benefici. Perciò la raccomandazione di compiere almeno 30 minuti al giorno di attività fisica, può essere conseguita accumulando momenti di attività fisica nel corso della giornata, per esempio: scendere a piedi le scale invece di usare l'ascensore, camminare invece di usare la macchina per fare brevi distanze, fare esercizi a corpo libero, fare cyclette mentre si guarda la televisione, fare giardinaggio etc..

2. Se il fisico lo consente svolgere un'attività fisica giornaliera di intensità moderata, uguale o maggiore a 60 minuti; oppure svolgerne una vigorosa pari o maggiore a 30 minuti.

Queste due raccomandazioni sono collegate: la prima deriva dalle evidenze sul cancro, mentre la seconda dalle evidenze sul sovrappeso e sull'obesità, entrambe

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Il Panel inoltre sottolinea che, per le persone sedentarie, per una buona parte del tempo della giornata, la prima raccomandazione è di estrema importanza. A tal proposito, una recente meta-analisi, sulla base dei risultati provenienti da sei studi prospettici, illustra come la mortalità si riduca progressivamente all'aumentare dell'attività fisica quotidiana espressa in minuti di camminata a passo veloce. La riduzione della mortalità si registra fino a un massimo di 1-2 ore al giorno di lavoro moderato, senza alcun vantaggio o addirittura qualche svantaggio per durate o intensità superiori. Le evidenze scientifiche dimostrano chiaramente che, gli effetti benefici per la salute, risultano già massimizzati svolgendo un'attività fisica moderata-intensa pari a circa 100 minuti al giorno.

Il WCRF conclude con la terza raccomandazione:

3. Limitare le abitudini sedentarie come guardare la televisione, tale comportamento è una delle cause dell'aumento di peso, del sovrappeso e dell'obesità. I bambini generalmente guardano la televisione per più di tre ore al giorno e sono esposti a strategie di marketing pubblicitarie, spesso riguardanti cibi energetici e bevande zuccherate.

Sulla base dei dati provenienti dalla letteratura scientifica sin dai primi anni '90, il WCRF, circa la relazione attività fisica e protezione tumorale organo-specifica, ha espresso alcune evidenze, classificate come convincenti o probabili.

Svolgere attività fisica, è stato dimostrato, con giudizio convincente, protettiva nei confronti del tumore al colon, e con giudizio probabile, anche per il tumore al seno e all'endometrio.

Risulta convincente l'evidenza in merito all'attività fisica e la protezione nei confronti dell'aumento di peso, del sovrappeso e dell'obesità; con egual giudizio, è stato valutato il rapporto fra le abitudini sedentarie, come guardare la televisione, e l'aumento del rischio di prendere di peso, essere in sovrappeso e obesi.

Tabella 3. Come raggiungere un livello di attività fisica (PAL) salutare

La tabella fornisce l'impatto di specifici e diversi momenti di attività fisica in riferimento al livello globale giornaliero della stessa. Le stime sono approssimative e arrotondate. Per esempio, per una persona con un PAL di 1.6, 30 minuti di camminata "extra" al giorno, a velocità moderata, portano il suo livello di attività fisica a circa 1,7.

I benefici ottenuti da un aumento dell'attività fisica dipendono dal livello iniziale della stessa.

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Figura 3. La curva dose-risposta riporta sull'asse delle ascisse l'attività fisica (dose) in relazione alle categorie: A (sedentari), B (moderatamente attivi), C (attivi), mentre su quello delle ordinate il beneficio in termini di salute (risposta)

La curva dose-risposta rappresenta il miglior metodo di valutazione per relazionare l'attività fisica (dose) con il beneficio per la salute (risposta). Dal grafico si nota che gli individui sedentari sono quelli a beneficiare maggiormente per un aumento dell'attività fisica al livello minimo raccomandato. [17]

Molti lavori scientifici riportano risultati concordi nell'affermare che, uno stile di vita sedentario, indipendentemente dal numero di sessioni di allenamento settimanale svolte, è positivamente associato con un rischio maggiore di mortalità per tutte le cause.

A tal proposito, nel 2015 è stato pubblicato su Annals of Internal Medicine un lavoro di meta-analisi che relaziona la sedentarietà con i risultati provenienti dagli studi su patologie cardiovascolari, diabete, cancro e mortalità per tutte le cause. Per ciascun risultato è stato quantificato un rapporto di rischio (hazard-ratio) che è maggiore per alti livelli di sedentarietà e bassi livelli di attività fisica. [18]

Sulla base di studi clinici e epidemiologici, sulla letteratura scientifica corrente e

sulle linee guida della WHO, svolgere 150 minuti di attività fisica moderata (3-5.9 MET-Metabolic Equivalent Intensity level-), 75 minuti di attività fisica

vigorosa (≥6 MET), oppure una combinazione equivalente delle due, porta ad ottenere benefici in termini di salute. In queste linee guida è implicito che un'attività moderata si equivalga in termini di benefici ad un'attività vigorosa, cosa che rimane non chiara o viene smentita in altri studi.

In merito, uno studio pubblicato su JAMA nel 2015, si è posto come obiettivo di esaminare la proporzione dell'attività fisica vigorosa (VPA) sul totale dell'attività fisica svolta da moderata a vigorosa (MVPA), in associazione a tutte le cause di mortalità. Lo studio ha coinvolto 217.755 partecipanti di nazionalità Australiana, di età compresa fra i 45 e i 75 anni. Fra questi, 13.213, sono stati esclusi dallo studio poichè non svolgevano alcuna attività fisica. I 204.542 partecipanti rimasti, sono stati classificati sia per la MVPA che per la VPA svolte, rispettivamente in quattro (0; 10-149; 150-299; ≥300 minuti di attività fisica alla settimana) e tre categorie (0; 0-30; ≥30 minuti di attività fisica alla settimana).

Lo studio ha riscontrato un maggior beneficio, in termini di riduzione della mortalità per tutte le cause, in coloro che svolgevano almeno un 30% di attività vigorosa alla

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Questo risultato ha affermato ciò che emerso anche da altri studi: coinvolgere le persone nello svolgere un'attività fisica vigorosa, risulta protettivo per tutte le cause di mortalità.

Uno studio scientifico, in merito alla riduzione del rischio cardiovascolare, ha concluso che: se l'attività fisica moderata riduce il rischio cardiovascolare, un'attività fisica di più alta intensità conferisce una maggior cardioprotezione. [20]

Altri studi epidemiologici, hanno riscontrato che, alte percentuali di attività fisica vigorosa rispetto all'ammontare dell'attività fisica totale, siano benefiche per la cardioprotezione, per la salute metabolica e il mantenimento delle funzioni fisiche. Infatti, un'attività fisica di alta intensità è associata ad aumento del volume cardiaco, della densità capillare, un aumento della funzione endoteliale, una riduzione della resistenza periferica, tutti questi benefici comportano un aumento del trasporti di ossigeno e di glucosio ai tessuti.

Studi scientifici hanno dimostrato che sessioni di esercizio fisico di elevata intensità -High Intensity interval Training (HIT)-, interposte da periodi di riposo o esercizi a bassa intensità, producono effetti metabolici uguali o superiori a quelli ottenuti con lunghe sessioni (45-90 minuti) di attività aerobica di bassa o moderata intensità. Poche sessioni di questo allenamento (2-3 alla settimana), stimolano un rimodellamento fisiologico comparabile a quello ottenuto con sessioni di esercizio fisico a moderata intensità, con la differenza di una sostanziale riduzione del tempo impiegato e del numero complessivo di esercizi da svolgere.

Questi risultati sono importanti, dato che la principale motivazione per cui non viene

svolta attività fisica regolarmente è la mancanza di tempo. [21] Nello specifico, uno studio pubblicato su The Journal Physiology, ha esaminato i

cambiamenti fisiologici conseguenti agli allenamenti HIT, attraverso esercizi che prevedono 4 serie da 30 secondi di pedalata ad altissima intensità, (85-90% della frequenza cardiaca massima), intervallati da 4 minuti di riposo o di recupero con esercizi a bassa intensità.

Eseguendo sei sessioni di questi esercizi per 2 settimane consecutive si è registrato un aumento della capacità mitocondriale e della capacità ossidativa dei muscoli scheletrici, associata ad un incremento della loro attività. Il prolungamento di queste sessioni di esercizi a 6 settimane ha aggiunto ulteriori effetti, quali: una riduzione del glicogeno a riposo, un tasso inferiore di glicogeno utilizzato e del lattato prodotto, un' aumentata capacità di ossidazione lipidica muscolare, un aumento delle funzioni periferiche vascolari, un aumento delle performance e dell'uptake massimo di ossigeno.

Lo studio ha anche esaminato i meccanismi molecolari alla base degli adattamenti dei muscoli scheletrici agli HIT, alcuni fra questi segnali molecolari inducono biogenesi mitocondriale. Dagli studi è emerso che, un basso numero di HIT attiva le chinasi AMPK e p38 MAPK, entrambe implicate nella fosforilazione e nell'attivazione del Coattivatore 1 del proliferatore Gamma del Perossisoma (PGC- 1 alfa).

Questa proteina promuove la trascrizione e quindi l'espressione di numerosi geni, tra cui quelli responsabili della biogenesi mitocondriale e dell'ossidazione dei grassi. Una sua abbondanza nucleare determina il legame a coattivatori trascrizionali, che attivano i fattori di trascrizione, i quali regolano l'espressione dei geni codificanti le proteine mitocondriali.

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Lo studio, che ha analizzato i segnali intracellulari indotti dalla biogenesi mitocondriale, ha rilevato un aumento del contenuto proteico di PGC 1 alfa, a seguito delle sessioni di allenamento HIT.

L'aumento della proteina nel nucleo è stato del 100%, nei giovani e negli individui in buona salute sottoposti a 6 settimane di allenamento, del 25% per coloro che erano sottoposti a 2 settimane di allenamento. Lo stesso periodo di allenamento di 6 settimane porta anche ad un aumento della capacità respiratoria che si riflette in un cambiamento dell'uptake massimo di ossigeno (VO2).

Svolgere un allenamento HIT, di 6 sessioni per 2 settimane, si è rilevato benefico anche per le persone sedentarie e sovrappeso, che hanno riportato un aumento della sensibilità all'insulina. [21, 22]

Quest' aspetto è stato successivamente chiarito da alcuni studi, che hanno associato l' aumento della sensibilità all'insulina con l' incremento dell'isoforma del trasportatore GLUT-4, esso a seguito di contrazioni muscolari, trasloca sulla superficie cellulare e viene attivato. La sua traslocazione termina dopo 40 ore dalla cessazione dell'attività fisica, infatti, questa proteina ha un'emivita breve, compresa in un range dalle 8 alle 10 ore. Perciò, al fine di mantenere questo adattamento, è necessario allenarsi almeno a giorni alterni e preferibilmente con esercizi intensi e sessioni di breve durata, dato che la sintesi e la concentrazione della proteina nel muscolo è maggiore per questa tipologia di allenamento, rispetto a quelli di lunga durata. [23]

Uno studio pilota, a seguito di sei sessioni di HIT per due settimane, ha rilevato anche una riduzione dei picchi di glucosio post-prandiali e della sua concentrazione media nel sangue nelle 24 ore. (Little et al. 2011)

Sebbene le evidenze ottenute da questi lavori siano molto interessati, occorre indubbiamente un numero maggiore di studi su larga scala per valutare se l'allenamento HIT sia una realistica alternativa per ridurre il rischio delle patologie cardio-metaboliche, promuovere la salute e il benessere di pazienti con patologie croniche, tenendo comunque presente che queste tipologie di esercizio non sono adatte per tutte le persone, come quelle a rischio per le patologie croniche metaboliche, per le quali si consigliano gli esercizi di moderata intensità, secondo le raccomandazioni del WCRF.[24]

1.3 Limitare il consumo di alimenti ad alta densità calorica ed evitare il consumo di bevande zuccherate

La raccomandazione di limitare gli alimenti ad alto contenuto calorico e di evitare le bevande zuccherate è riportata sia dal WCRF, nel report "Food, Nutrition, Physical

Activity, and the Prevention of Cancer: A Global Perspective", sia dal ECAC, nei 12

modi per ridurre il rischio di cancro.

La maggior parte delle prove che collegano tali cibi all'aumento di peso si riferiscono ad alimenti come formaggi, hamburger, bocconcini di pollo fritto, patatine fritte (chips), bevande zuccherate, spesso venduti in punti vendita di franchising internazionali.

L'effetto di questi alimenti, nel promuovere l'aumento di peso, è ascrivibile al loro alto contenuto calorico (< 225-275 Kcal per 100 g) e alla facilità nel reperirli, infatti, questi prodotti, che si trovano generalmente già pronti o facilmente disponibili, vengono spesso consumati assiduamente e in grandi porzioni.

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Questi alimenti, definiti con l'espressione comune "cibo da fast food", sono ad alto contenuto calorico, altamente trasformati, ricchi di grassi e/o zuccheri, poveri di fibre e generalmente con un basso valore nutrizionale, se non quello esclusivo di dare energia per le funzioni dell'organismo.

Il messaggio, di ridurre o eliminare i cibi ricchi di calorie vuote, lanciato dalle fondazioni scientifiche, mette in luce il ruolo basilare che ha la qualità del cibo con cui ci nutriamo. Non è assolutamente vero che "una caloria è solo una caloria" e che "unicamente la riduzione dell'introito calorico, a prescindere dagli altri nutrienti, sia responsabile degli effetti benefici della restrizione calorica sulla salute metabolica e sulla longevità". [25]

Nel 2015, su Cancer Epidemiology, uscì la revisione scientifica dell'ECAC, in merito alla tematica dieta e tumori, tale articolo, insieme ad altri, è alla base delle evidenze espresse su come ridurre il rischio di cancro.

Si legge "una dieta ricca di cibi ad alto contenuto calorico, come cibi grassi e ricchi di zuccheri, porta ad un incremento dell'intake calorico, promuove l'obesità e aumenta il rischio di insorgenza di tumore".[26]

I grassi e gli oli sono i costituenti maggiormente energetici presenti nella dieta, il loro contributo energetico è notevolmente aumentato con l'urbanizzazione e l'industrializzazione, tanto da rendere le carni di animali di allevamento e i prodotti animali, quali latte e formaggi, molto più grassi nella maggior parte dei paesi sviluppati.

Il panel del WCRF, circa una dieta relativamente abbondante di grassi e oli, esprime un'evidenza limitata nel sviluppare tumore ai polmoni, al seno, in età postmenopausale, e al colon retto.

Le motivazioni, sono principalmente: la difficoltà di quantificare precisamente i grassi assunti giornalmente dai pazienti reclutati dagli studi, oppure, la difficoltà nel relazionare l'assunzione di un grasso specifico, anzi che il consumo totale di grassi, con l'insorgenza o la protezione da tumori organo-specifici.

Il panel sottolinea che, l'assenza di giudizi convincenti o probabili in merito ad un alto intake di grassi e oli e lo sviluppo di tumore, non suggerisce tuttavia, che una loro assunzione e presenza relativamente alta in una dieta, possa proteggere verso qualsiasi forma tumorale. [27]

Per esempio, nello studio EPIC, "Dietary Fat Intake and Development of Specific

Breast Cancer Subtypes", è stato valutato l'intake di acidi grassi saturi, come fattore

predittivo nello sviluppo di sottotipi di tumore al seno positivi o negativi per i recettori estrogeno, progesterone e fattore di crescita dell'epidermide umano (Her2). Il loro consumo eccessivo è risultato essere associato a un maggior rischio per i tumori positivi ai recettori per gli estrogeni e per il progesterone e per quelli negativi al recettore Her2, suggerendo un coinvolgimento degli acidi grassi saturi nell'eziologia di questo sottotipo di cancro al seno. [28].

In una recente meta-analisi di studi di corte, un intake di acidi grassi polinsaturi è risultato essere debolmente associato ad un maggior rischio di insorgenza di cancro al seno in età post-menopausale. The "Women's Health Initiative Dietary

Modification Randomised Controlled Trial", ha esaminato se, un profilo dietetico a

basso consumo di grassi, potesse ridurre l'incidenza di cancro al seno e in altre sedi. Dopo 8 anni di follow-up, non è stata osservata alcuna riduzione nell'incidenza di cancro al seno, al colon-retto e all'endometrio, bensì è stata osservata solo una

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riduzione marginale per il cancro alle ovaie. Il risultato ottenuto però deve considerare che, le pazienti, hanno ridotto il loro consumo di grassi solo dal 38% al 29% e questa riduzione non ha comportato alcun cambiamento del livello ematico dei lipidi, ma solo una modesta riduzione di peso nei primi anni dello studio. [26]

The World Health Organisation, raccomanda di eliminare l'uso degli acidi grassi

trans, per la preparazione dei cibi processati, al fine di prevenire le patologie cardiovascolari. In base alla posizione degli atomi di idrogeno associati ai carboni impegnati nel doppio legame, un acido grasso può esistere in natura in due isoforme, una cis e una trans.

-cis: gli atomi di idrogeno legati ai C del doppio legame puntano dalla stessa parte, sono i grassi prevalentemente presenti in natura ed appartengono a questa categoria maggiormente gli insaturi. In questi la molecola tende a piegarsi su se stessa, le interazioni idrofobiche sono più lasse e a T ambiente sono liquidi

-trans: gli atomi di idrogeno legati ai C del doppio legame puntano da parti opposte, sono prevalentemente acidi grassi saturi, i quali conferiscono rigidità alla molecola, questi a T ambiente sono solidi e hanno un più alto punto di fusione. Essi derivano conseguentemente a trattamenti artificiali, quali il processo di rettifica, di uso industriale, che arricchisce i preparati in acidi grassi trans. Per esempio, la margarina ha origine vegetale ma subisce processi chimici di idrogenazione, in cui si effettua la rottura artificiale di un doppio legame e il composto da liquido passa allo stato solido.

Questi processi di idrogenazione sono stati ideati per conferire una maggior consistenza agli oli ed ai grassi insaturi. Una parte di acidi grassi trans è presente naturalmente nel cibo, come nel latte, carne e formaggi, poichè si forma nello stomaco dei ruminanti dall'azione di determinati batteri. Tutta questa attenzione rivolta agli acidi grassi trans è dovuta alle implicazioni salutistiche negative che il loro uso comporta. Infatti, il loro consumo provoca un aumento delle LDL, delle proteine aterogeniche, e del colesterolo totale, una diminuzione delle HDL, in modo dose-dipendente.

Gli acidi grassi trans, quindi, potrebbero partecipare notevolmente ai processi arterosclerotici e aumentare così i rischi per infarti del miocardio ed altri problemi correlati. Inibiscono la funzione degli enzimi associati alle membrane, come la delta-6 desaturasi.

Causano delle modifiche della citocromo ossidasi P450, alterazioni nelle proprietà fisiologiche delle membrane biologiche, comprese la capacità di trasporto e flessibilità della membrana cellulare. L'OMS e la FAO raccomandano di ridurre l'assunzione sotto al 1% del totale dell'energia assunta giornalmente attraverso la dieta mentre L'EFSA, l'Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, raccomanda che se ne assuma il meno possibile. [29]

I ricercatori dell'IRB di Barcellona, analizzando cellule tumorali prelevate da pazienti affetti da carcinoma orale, hanno scoperto che le metastasi derivano da una sottopopolazione di cellule cancerose che esprimono sulla loro superficie alti livelli della proteina CD36, un recettore che si lega in modo specifico con gli acidi grassi. La presenza di questa proteina sembra essere del tutto essenziale per lo sviluppo delle metastasi, infatti in un campione di linee cellulari cancerose non metastatiche, è

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processo metastatico. La partecipazione della proteina CD36 in tale processo, sembra essere una caratteristica comune per molti tipi di cancro (ovaio, polmoni, vescica, melanoma e mammella); inoltre, i ricercatori, hanno osservato un'associazione tra la sua espressione ed un'alta aggressività dei tumori, accompagnata da prognosi infausta.

Gli autori dello studio, pubblicato su Nature nel Gennaio 2017, sono stati in grado di bloccare il processo metastatico nei topi in cui erano state inoculate cellule tumorali umane.

Questo risultato è stato raggiunto attraverso la somministrazione di un anticorpo che blocca specificamente la proteina recettoriale. Sarà interessante valutare se lo stesso approccio potrà essere applicato per il trattamento di tumori umani. Alla luce di quanto scoperto, riguardo alla sopravvivenza e diffusione delle cellule metastatiche, attraverso lo sfruttamento del metabolismo dei grassi; il passo successivo dei ricercatori è stato quello di valutare se il consumo di una dieta "Occidentale", spesso ricca di grassi, potesse influenzare lo sviluppo metastatico.

Per valutare questo aspetto, si è proceduto alimentando i topi con una dieta ad alto contenuto di grassi (circa il 15 per cento in più rispetto a una dieta normale) e inoculando cellule tumorali umane. In condizioni normali le metastasi si sarebbero sviluppate in circa il 30 % dei topi; stavolta, invece, sono apparse nell’80 % degli animali.

"Nei topi inoculati con cellule tumorali umane sembra esserci un legame diretto tra

l'apporto di grassi saturi e il potenziale metastatico - spiega Salvador Aznar Benitah,

l'autore principale -. Servono più studi per verificare se la relazione esiste anche

nell'uomo. I grassi sono necessari per le funzioni del corpo, ma un'assunzione incontrollata può avere effetti sulla salute, come già visto per tumori come quello del colon e per le metastasi, come mostrato in questo caso". I ricercatori hanno anche

testato l’effetto di un grasso specifico, l’acido palmitico, componente essenziale dell’olio di palma: hanno trattato le cellule tumorali con questa sostanza prima di iniettarle ai topi nutriti, questa volta, con una dieta normale. In questo caso, la percentuale di metastasi sviluppate dagli animali è stata ancora maggiore. La relazione tra eccesso di grassi nella dieta, sviluppo di tumori e - in questo caso - di metastasi è oggetto da tempo di attenzioni. E il nuovo studio è un indizio in più che punta in questa direzione, anche se andrà meglio verificato. [30]

L'US Department of Agriculture (USDA) e la European Food Safety Authority, alla

luce di un consumo dello zucchero triplicato negli ultimi 50 anni e 35 milioni di decessi all'anno imputabili alle patologie croniche non trasmissibili, ritengono che l'attenzione, oltre ai grassi, debba essere rivolta anche agli "zuccheri aggiunti", definiti come ciascun dolcificante contenente molecole di fruttosio, che viene aggiunto nei cibi durante la fase di trasformazione.

Un consumo eccessivo di zuccheri aggiunti è correlato a obesità, NAFLD e sindrome metabolica. Molti di essi sono costituiti da parti circa eguali di glucosio e fruttosio, e quest'ultimo, secondo evidenze scientifiche, è da considerarsi come componente potenzialmente tossica. Nel 2012 su Nature venne pubblicato un articolo intitolato "The toxic truth about sugar", tale report preannuncia ciò che le evidenze scientifiche avrebbero confermato successivamente: "gli effetti del fruttosio sull'organismo sono simili a quelli dell'alcool, pertanto gli zuccheri aggiunti sono polveri dannose per la salute che andrebbero limitate e controllate così come si fa con l'alcool".

(22)

I dolcificanti artificiali non calorici - Non caloric Artificial Sweeteners (NAS) - sono di uso comune, poichè per il loro basso contenuto calorico, spesso, si associano alla perdita di peso e alla normalizzazione dei livelli di glucosio nel sangue.

Dopo una loro introduzione nei cibi, come addittivi alimentari, in sostituzione agli zuccheri altamente calorici, si è registrato un drammatico incremento, a livello mondiale, dell'obesità e dell'epidemia da diabete.

I dati scientifici, che supportano la sicurezza e i benefici sul consumo dei NAS, sono pochi e controversi.

Evidenze scientifiche riportano che, molti di essi, non sono digeriti a livello intestinale e arrivano direttamente a scontrarsi con il microbiota. [31]

I ricercatori dello studio "Artificial Sweeteners Induce Glucose Intolerance by

Altering The Gut Microbiota", pubblicato su Nature nel 2014, con lo scopo di capire

se un'assunzione cronica di NAS aumenti l'intolleranza al glucosio nei topi, hanno rilevato i cambiamenti apportati dai dolcificanti, sia nella composizione che nelle funzioni del microbiota. Aggiungendo una formulazione zuccherina di saccarina, sucralosio e aspartame, all'acqua che bevevano i topi, essi hanno riportato una disbiosi intestinale che è direttamente connessa allo sviluppo dell'intolleranza al glucosio.

In particolare, con il consumo dei dolcificati si è verificata una sovra-rappresentazione di Bacteroides e una sotto-sovra-rappresentazione di Clostridiale, questo assetto microbico, negli umani, è associato ad un aumento del diabete di tipo 2. Nello specifico, un consumo di saccarina nei topi, ha mostrato un microbioma analogo a quello umano, nei casi di diabete mellito e obesità. [32]

I risultati ottenuti da studi di coorte a breve e lungo termine, sul consumo umano di NAS, hanno riportato risposte differenti da individuo a individuo, probabilmente in relazione alla diversità della composizione e delle funzioni del microbiota, dovute alla diversa alimentazione. In quest'ottica occorrono altri studi che valutino la nutrizione dell'individuo connessa a patologie multi-fattoriali ed esiti medici differenti.

Il consumo di zucchero e di bevande con dolcificanti artificiali, è stato anche associato ad incidenti cardiovascolari e demenza, sulla base dei risultati provenienti da uno studio prospettico di coorte. Il lavoro è stato condotto sulla coorte "Framingham Heart Study Offspring ", costituita da 2888 partecipanti con età superiore a 45 anni, fra questi 1484 persone, di età superiore ai 60 anni, sono state valutate per il rischio di sviluppare demenza, i rimanenti per incidenti cardiovascolari.

Il consumo di zucchero e bevande con dolcificanti artificiali è stato quantificato attraverso la somministrazione di questionari, il follow-up è proseguito per dieci anni. Dopo un aggiustamento per età, sesso, educazione, intake calorico, qualità della dieta, attività fisica e fumo, l'assunzione cumulativa di bevande con dolcificanti artificiali, è stata associata a un aumento del rischio di ischemia, di tutte le cause di demenza e di Alzheimer.

Al contrario, il consumo di zucchero, in dosi eguali a quello contenuto nelle bevande dolcificate, non si è dimostrato associabile ad un aumentato rischio per le patologie sopra indicate. [33]

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Il consumo di fruttosio è quintuplicato nell'ultimo secolo e raddoppiato negli ultimi 30 anni. Prima del 1900 gli Americani assumevano approssimativamente 15 g/giorno di fruttosio, principalmente attraverso il consumo di frutta e verdura, mentre oggi gli adolescenti ne consumano 73 g/giorno.

Oltre all'aumento del consumo di fruttosio, L'US Department of Agriculture, ha registrato una diffusione degli zuccheri aggiunti contenenti fruttosio e dell'HCFS -High-Fructose Corn Syrup detto anche fruttosio commerciale.

Questo si ottiene principalmente convertendo il glucosio presente nell'amido di mais mediante un processo enzimatico (isomerizzazione), che dà luogo a un denso sciroppo di mais ricco di fruttosio (55-60%), da cui può anche essere estratto e cristallizzato il fruttosio puro. Il fruttosio, rispetto al glucosio, viene completamente metabolizzato dal fegato, dove esercita un effetto lipogenico, che è correlato a molte patologie croniche, quali l'obesità, la NAFLD, la sindrome metabolica e il diabete di tipo 2. [34]

Il fruttosio e l'etanolo, che è il sottoprodotto ottenuto dalla sua fermentazione, presentano molte analogie in comune, come: il metabolismo epatico, la fruttosilazione delle proteine e lo stimolo del "hedonic pathwey", responsabile del circolo vizioso connesso ad un loro eccessivo consumo. [35]

1) Il metabolismo epatico del fruttosio è simile a quello dell'etanolo, entrambi sono dei substrati per la Lipogenesi De Novo (DNL), il processo di conversione dei carboidrati in grassi da parte del fegato.

Infatti, sia l'etanolo, attraverso il suo metabolita acetaldeide, sia il fruttosio, attivano a livello epatico, la proteina legante gli elementi regolatori dello sterolo, SREBP-1C. Questa proteina, che stimola la biosintesi degli acidi grassi e dei lipidi, una volta attiva, migra dal reticolo endoplasmatico al nucleo, dove viene scissa ed agisce come fattore di trascrizione per la lipogenesi. Il fruttosio, inoltre, innesca il processo lipogenico anche mediante la Proteina legante gli Elementi Regolatori dei Carboidrati (ChREBP), che nel citosol, attiva gli enzimi responsabili della trasformazione del citrato in malonil-CoA, per poi generare acidi grassi.

Nel processo della DNL, l'intermedio malonil-CoA è formato in eccesso.

Il malonil-CoA è un inibitore stearico dell'enzima Carnitina Palmitoil Transferasi-1 (CPT1), uno degli enzimi responsabili del trasferimento degli acidi grassi a lunga catena dal citoplasma alla matrice mitocondriale, dove avviene la beta-ossidazione. Perciò, un aumento della DNL, inibisce la ß-ossidazione dei lipidi, portando ad un loro accumulo a livello intra-epatico. A supporto di tale evidenza, studi scientifici hanno riscontrato che:

• la DNL, in soggetti obesi con steatosi epatica, è responsabile del 26,1% del pool lipidico intra-epatico

• il consumo di fruttosio porta ad un aumento del 17% del processo della lipogenesi

• la sostituzione del consumo di glucosio con un consumo eguale di fruttosio, apporta, in soggetti sani un aumento della lipogenesi dal 2 al 10%.

Un ulteriore effetto ascrivibile sia all'etanolo che al fruttosio, è la soppressione dell'esportazione epatica dei lipidi, mediante la riduzione dell'attività epatica di PPARalfa.

Un suo deficit comporta una riduzione del trasferimento dei lipidi all'apo B-100; venendo meno il corretto folding lipidico effettuato dall'apolipoproteina, i lipidi non

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