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Università di Macerata

3. Lingua e poetiche sperimental

Se spostiamo l’attenzione dalla sperimentazione linguistica a quella poetica, possiamo distinguere fra due attitudini principali che con- traddistinguono gli scrittori sperimentali di lingua inglese (e non solo di lingua inglese). Da un lato si può individuare una categoria di scrit- tori e scrittrici che considera la lingua un’eredità storica e un codice talmente strutturato e compiuto da impedire radicali innovazioni e, in particolare, la creazione di nuove parole. Scrittrici assai differenti quali Virginia Woolf e Gertrude Stein appartengono a questo grup- po. Stein credeva che la lingua, essendo “una ricreazione intellettuale” (“an intellectual recreation”), non potesse essere cambiata9. Woolf,

7 Penso in particolare ai suoi “La natura dei pronomi” e “La soggettività nel linguag- gio”, in Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano, 1971, pp. 301-320. 8 A. Blonstein, the read of two mouths, dattiloscritto inedito, May 2010, rispettivamen-

te, pp. 4, 5, 63.

9 G. Stein, “Poetry and Grammar” in Look at Me Now and Here I Am, edited by P. Meyerowitz, Penguin, Harmondsworth, 1967, p. 142.

a sua volta, riteneva che per usare parole nuove in modo corretto si dovesse inventare una nuova lingua10. Sia Stein che Woolf non solo considerano difficile se non impossibile cambiare la loro lingua, ma il loro immaginario linguistico è profondamente monolingue, e rigoro- samente radicato nella tradizione letteraria di lingua inglese. Le paro- le, dal loro punto di vista, conservano il loro potere perché sono state intessute nei testi; perché nel tempo hanno contribuito a forgiare non solo l’identità storica e culturale collettiva e individuale ma, introiet- tate, hanno contribuito a definire l’entità e le forme della realtà e del mondo. Le parole, in sintesi, formano per queste due scrittrici una rete linguistica che regge e organizza sia realtà che immaginario.

All’estremo opposto si trovano scrittori che considerano la lingua come un “work in progress”, materiale di laboratorio, manipolabile e continuamente soggetto a cambiamenti, capace di denominare re- gioni ancora inesplorate della mente, di far emergere rappresentazio- ni inedite di nuclei d’esperienza soggettiva e oggettiva. Sono loro che vanno continuamente alla ricerca di nuove parole, spesso ibridando la loro lingua. James Joyce ne è il massimo esponente nella lingua inglese, mentre nella lingua italiana lo è Amelia Rosselli, a sua volta profondamente influenzata dalla poesia inglese. Anne Blonstein ap- partiene a questo secondo gruppo.

Questi scrittori si misurano con la lingua a partire da una pro- spettiva che si potrebbe definire ‘nomadica’. Si pongono ai confini di diverse lingue e mondi linguistici, esplorano le possibilità di contami- nazione, sono alla ricerca di risposte alla mutevole varietà del mon- do, della vita e dell’immaginario. Finnegan’s Wake di Joyce, secondo Samuel Beckett, è profondamente radicato nella vicenda biografica di un autore transnazionale e multilingue, che cerca il modo di far aderire la lingua a nuove agglutinanti esperienze della realtà. Beckett paragona le parole coniate da Joyce a quelle di Dante che, per tutta ri- sposta alla dominazione scarsamente immaginativa del latino, creò un volgare italiano estraendolo dai diversi dialetti parlati nel suo tempo.

10 Si veda in particolare V. Woolf, “Craftsmanship”, in The Death of the Moth and Other

Amelia Rosselli, giustamente ritenuta la più famosa poeta speri- mentale italiana del ventesimo secolo, trasforma l’italiano letterario in una lingua contaminata dall’inglese e dal francese, rigettando con questo gesto sia la nostra tradizione aulica, sia la purificazione da ogni contaminazione straniera decretata in epoca fascista. Pur avendo scelto l’italiano per le sue poesie, Rosselli rifiuta di chiuder- si nei confini della sua grammatica e fonologia e ammette di usa- re “forme grammaticali inglesi nell’italiano, anche consciamente”, molto più di quanto il pubblico non riesca a comprendere. Quanto Rosselli dice a proposito della sua scrittura può essere considerato rappresentativo del sentire di questo gruppo di poeti cosmopoliti. “La maestria dello scrivere”, asserisce, “è prendere la lingua tra le mani e rinnovarla, altrimenti l’autore è semplicemente un accade- mico…. L’autore manipola la lingua, se vale qualcosa”11.

Inserendosi nella tradizione sperimentale di lingua inglese – ma prendendo anche da quella di lingua tedesca – Anne Blonstein la arricchisce facendo rivivere nella sua poesia pratiche che caratteriz- zano l’ermeneutica ebraica. Notarikòn e ghematrià, scrive la stessa Blonstein, “sono metodi rabbinici usati per interpretare le scritture ebraiche”, il notarikòn essendo una sorta di acronimo al rovescio in cui ogni lettera della parola è usata (in genere) come lettera iniziale di un’altra parola12.

Vi sono sequenze di poesie e raccolte intere, come l’inedito the read of two mouths, in cui vediamo Blonstein riappropriarsi di una storia che la sua famiglia di ebrei assimilati aveva passato sotto si- lenzio e nello stesso tempo riscriverla e interpretarla intessendola nel presente. the read of two mouths, in particolare, si sviluppa come notarikòn sulla lingua ebraica e su due testi canonici della Torà: il Cantico dei Cantici e i Salmi, in particolare il 23. Blonstein trova nel- le scritture la memoria degli sradicamenti e peregrinazioni formanti la rete dell’identità personale e etnica che, oltre a farla risalire ai suoi

11 Entrambe le citazioni sono tratte da: M. Camboni, “Incontro con Amelia Rosselli”, in DWF, 1 (29) gennaio-marzo 1996, p. 67.

12 Vedi quanto A. Blonstein scrive al riguardo in “About this Book”, introduzione al suo correspondence with nobody, ellectrique Press, Basel, 2008.

antenati, connette il suo presente al passato, la sua scrittura a quella biblica. A esplicita conferma di quanto appena asserito, in alcuni versi di the butterfly and the burnings, ultima raccolta pubblicata, leggiamo:

how often did my ur-uncles get lost in that immense hum of a masterless desert narrative? moses verging you on deracinated from the sure of chronology to an open promise. the dents reach my cautious heart tenses. the dents link the entrances13.

Qui, il breve accenno alla “narrazione del deserto” rievoca, e insieme condensa, la storia di Mosè e dell’Esodo del popolo ebraico dalla ter- ra d’Egitto, una storia di antenati che Blonstein vede tuttora aperta a ulteriori narrazioni, “masterless” com’è, senza padrone. Si tratta di una storia di sradicamento e di esilio, dove le ruote dentate del tem- po cronico, come quelle di un orologio, fanno girare anche quelle del tempo mitico o escatologico della promessa. È quella promessa che, come il dente della ruota, ha presa nel cuore dell’io. È quella promessa, difatti, che secondo Blonstein distingue ebrei e gentili, e instaura la differenza che si trasforma in discriminazione, sì che “gentile rhymes with the next exile”14.

4. Ibridi

Il contributo testuale e strutturale dato da Anne Blonstein alla lin- gua e alla poesia del ventunesimo secolo risiede a mio parere nell’abi- lità con cui piega il notarikòn ai fini della creazione poetica, da vera virtuosa della scrittura – virtuosa come può esserlo la musicista che suona il suo strumento riscrivendo a suo modo lo spartito. Due versi condensano in una splendida immagine il particolare modo in cui l’inglese di Anne Blonstein si innesta su altre lingue – l’ebraico, il tedesco, il francese, o anche l’italiano – e le sue poesie su altri testi, sviluppandosi come risultanti di un incontro amoroso:

13 A. Blonstein, the butterfly and the burnings, Dusie Press, Portland, 2009, p. 41. 14 Ivi, pp. 41-42.

She curls her language around foreign kisses15.

La raccolta da cui i versi sono tratti, worked on screen, mette insieme 108 poesie nate come risposta ad altrettanti quadri di Paul Klee. Le parole tedesche del titolo dei singoli quadri forniscono la lettera iniziale alle parole di ciascuna poesia, e tuttavia il discorso poetico si sviluppa come chiave che apre, interpreta e riscrive non solo e non più il testo tedesco del titolo, ma l’immagine stessa del quadro, creando un dialogo fra linguaggi artistici oltre che fra due lingue. Il pittore Paul Klee, inoltre, fa emergere un aspetto importante del- la poesia di Blonstein: quello mistico-spirituale venato di energia rigeneratrice, che non sorprendentemente trova un nucleo di scrit- tura comune nelle interpretazioni dell’angelo della storia di Walter Benjamin, anch’esso ispirato a Klee.

Ma non è questa la prima volta che Blonstein si cimenta col po- tenziale strutturante e innovativo del notarikòn, con un artista ebreo e con una dimensione identitaria che è insieme linguistica, semiotica ed etnico-razziale. correspondence with nobody, del 2001 ma pubbli- cata nel 2008, è la prima delle sue raccolte nata dal bacio amoro- so di due lingue, costruita come notarikòn di un testo sull’altro, e come critica congiunta della cultura inglese e dell’antisemitismo eu- ropeo. In quest’opera Blonstein riscrive e interpreta i 21 sonetti di Shakespeare tradotti da Paul Celan in tedesco. Le sue parole inglesi prendono l’avvio da ciascuna delle lettere delle parole tedesche, e si dispiegano in componimenti in cui con prepotenza emergono le tensioni dell’autrice e del presente.

È come se lo straniamento provocato dai versi di Shakespeare tradotti in tedesco avesse permesso a questa scrittrice di riaccostarsi in modo creativo e personale al più grande maestro della lingua e della letteratura inglese, di riappropriarsene filtrandolo attraverso la propria identità di ebrea. “Celan mi ha aperto gli occhi”, mi dirà Blonstein16. Celan, l’ebreo rumeno di madrelingua tedesca, è stato il

15 A. Blonstein, worked on screen, cit., p. 28.

filtro di cui aveva bisogno per arrivare a comprendere come un au- tore possa accogliere e insieme resistere al testo di un altro autore da lui tradotto. Per Blonstein i nuclei di traduzione in cui il poeta ma- nifesta resistenza verso i contenuti di Shakespeare condensano anche la sua identità di ebreo segnato dall’olocausto. Quanto alla stessa Blonstein, il problema per lei non è mai stato Shakespeare, che oltre a Shylock le ha dato l’inglese moderno, ma la cultura britannica in cui è cresciuta e la relazione di questa con gli ebrei. Non sorprende, allora, che nella doppiamente mediata (dal tedesco e dal notarikòn) rilettura/riscrittura di Shakespeare e Celan che sono le sue poesie, emerga la consapevolezza etica della shoà e di quanto nel presente ripropone soluzioni liquidatorie in altri contesti.