1. Il pluralismo giudiziario
Il confronto tra magnati e popolani rappresenta uno dei temi tra i più clas- sici della storiografia italiana e fiorentina quanto una fonte inesauribile di inda- gine. L’evasività di larga parte della storiografia sugli esiti che il conflitto ebbe a Firenze al di là delle principali emergenze degli ultimi due decenni del XIII secolo – la difficoltà, cioè, a riconoscere il fallimento coercitivo e a spiegare l’in- tensificarsi semmai, proprio dopo il 1295, delle lotte di fazione –, lascia aperto, per esempio, il problema di ripensare le questioni del rapporto tra politica e giu- stizia da nuovi punti di vista. Una rilettura delle fonti, innanzitutto di quelle nor- mative, consente in particolare di evidenziare i limiti di una visione tradizionale degli Ordinamenti di giustizia come legislazione intesa, oltre che all’esclusione dei magnati dagli uffici politici, anche a reprimere le pratiche magnatizie della vendetta. Un valido punto di partenza potrà essere quello di valutare le impli- cazioni dell’operare nella società comunale di una pluralità di sistemi giudiziari tra loro interagenti. Se è palese infatti che le misure antimagnatizie costituirono uno dei principali momenti di affermazione dell’amministrazione pubblica della giustizia, è vero altresì che quella erogata dai tribunali del comune non esauriva affatto la gamma dei modi di esercizio della giustizia.
Si tratta in sostanza di inquadrare le misure antimagnatizie nel contesto più ampio della pluralità dei modi di risoluzione dei conflitti. Modi che potevano anche essere, e che per la più parte erano, infragiudiziari: vale a dire, pratiche non repressive di composizione delle dispute sia in forma pacifica (tregua, con- cordia o arbitrato) sia in forma violenta (faida o vendetta), che pur interagendo talora con le procedure di tribunale trovavano comunque al di fuori della sede processuale la loro soluzione. La ricerca più recente sta evidenziando infatti con sempre maggiore chiarezza come la giustizia amministrata dal podestà e dagli altri rettori ordinari non costituisse che uno dei vari sistemi giudiziari attivi nella società comunale, e soprattuto come essa non si contrapponesse alle forme co- siddette “private” di esercizio della giustizia1.
1 Cfr. J.-C. Maire Vigueur, Justice et politique dans l’Italie communale de la secon-
de moitié du XIIIe siècle: l’exemple de Pérouse, “Comptes rendus de l’Académie des
Andrea Zorzi, La trasformazione di un quadro politico. Ricerche su politica e giustizia a
Firenze dal comune allo Stato territoriale, ISBN 978-88-8453-576-X (online) ISBN 978-
È infatti dal superamento di una visione di netta e antagonistica separazione tra privato e pubblico, e di una concezione evoluzionistica dei sistemi sociali che si può riavviare utilmente l’analisi. Non dunque, per esempio, reiterando una concezione della vendetta come antiquata sopravvivenza di costumi barbari – che si sottintenderebbero pertanto come peculiari di una presunta società an- teriore (magari germanica) più rozza2–, o, collegata a essa, di una giustizia delle
leggi e dei tribunali che si affermerebbe proprio nei confronti della vendetta3.
Bensì osservando come la documentazione prodotta dalla società comunale met- ta in evidenza l’ordinarietà culturale di pratiche che per convenzione chiamiamo infragiudiziarie ma che nella coscienza degli individui di allora non costituivano altro che una gamma di alternative entro cui disegnare le relazioni di amicizia e di inimicizia e le strategie di gestione e di soluzione delle dispute (tra singoli, all’interno della famiglia, o tra lignaggi diversi).
Un esempio concreto aiuterà a cogliere meglio la coordinazione e l’inter- dipendenza dei sistemi giudiziari attivi nella società comunale. Corso Donati è una delle figure più note della vita politica di Firenze in età comunale. Cavaliere, magnate, “che per sua superbia fu chiamato il Barone”4, la sua immagine preva-
lente è quella di violento protagonista della lotta per il potere cittadino, promo- tore della maggiore divisione fazionaria della città, e litigioso leader del regime nero che signoreggiò sanguinosamente Firenze nei primi anni del Trecento. In realtà si tratta di una ricostruzione parziale del personaggio, condizionata dalle descrizioni per lo più negative che ne fece la cronachistica coeva, e che a lun- go ha dominato la storiografia fiorentina5. Al contrario, molti episodi della sua
vita, anche i più noti per la loro clamorosità e violenza, possono essere riconsi- derati proprio sotto l’aspetto della pluralità e dell’interdipendenza dei modi di
Inscriptions et Belles-Lettres”, (1986), pp. 312-328; M. Vallerani, Il sistema giudiziario
del comune di Perugia. Conflitti, reati e processi nella seconda metà del XIII secolo, Perugia,
1991; Id., L’amministrazione della giustizia a Bologna in età podestarile, “Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna”, XLIII (1992), pp. 291- 316; e i contributi di chi scrive già citati nella nota 5 dell’introduzione a questa sezione.
2 Cfr., per esempio, A. Pertile, Storia del diritto penale, in Id., Storia del diritto ita-
liano, Torino, 1892, vol. V, pp. 14 sgg., ove l’azione del comune sugli usi della vendetta è
intesa come “santa lotta contro gli avanzi della barbarie”.
3 Cfr., per esempio, B. Lenman - G. Parker, The State, the community and the crimi-
nal law in early modern Europe, in Crime and the law. The social history of crime in western Europe since 1500, ed. by V.A.C. Gatrell - B. Lenman - G. Parker, London, 1980, pp. 23-
25; P. Spierenburg, The spectacle of suffering. Executions and the evolution of repression:
from a preindustrial metropolis to the European experience, Cambridge, 1984, pp. 10 sgg. e
23 sgg.; R.I. Moore, The formation of a persecuting society. Power and deviance in western
Europe, 950-1250, Oxford, 1987, pp. 109-110.
4 Dino Compagni, La cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, a cura di I. Del
Lungo, RR.II.SS., IX/2, 2 voll., Città di Castello, 1913-1916, II, XX, p. 126.
5 Una ricostruzione biografica equlibrata è ora quella di S. Raveggi, Donati, Corso,
risoluzione dei conflitti. Corso Donati incarnò infatti nei propri atteggiamenti e nei propri comportamenti la complessità delle pratiche sociali dei suoi anni.
Nei molti conflitti, nei contenziosi, nelle dispute in cui fu coinvolto, il Barone adottò infatti una molteplicità di strategie tra loro coerenti. Capo di uno dei maggiori lignaggi fiorentini, lo guidò nel lungo confronto che lo contrappose alla casata dei Cerchi nell’articolazione tipica della faida, vale a dire nella struttu- razione di un conflitto condotto su tutti i fronti e con tutti i mezzi possibili: dalla concorrenza degli interessi mercantili e bancari al ruolo delle donne nei legami matrimoniali, nei beni dotali, nelle eredità patrimoniali; dall’aggregazione di ma- snade e clientele violente all’utilizzazione di poeti, giullari e mettiscandali nella diffusione della cattiva fama; dall’esercizio della vendetta di sangue alla ricerca dello scontro di gruppo in occasioni pubbliche. Ricorse inoltre personalmen- te alla violenza per sanare conflitti individuali – come nei confronti del cugino Simone Galastrone o di Guido Cavalcanti –, ma al contempo sostenne nelle corti dei tribunali cause di natura patrimoniale – in occasione quasi sempre, per esem- pio, dei suoi contrastati matrimoni – che potevano essere risolte solo attraverso la mediazione del ceto degli iudices. Né esitò, in più occasioni, a corrompere i giusdicenti o ad aggredire i rettori per imporre i propri interessi nei processi che lo vedevano in qualche modo coinvolto nelle sedi giudiziarie ufficiali – per esempio, quando cercò con la forza di sottrarre al patibolo il consorte Totto dei Mazzinghi6.
Allo stesso tempo coprì più di una volta gli stessi ruoli funzionariali di rettore in altri comuni: podestà a Bologna nel 1288, per esempio, chiese persino i pieni poteri inquisitori per fronteggiare i “multa maleficia [que] quotidie in civitate Bononie committantur”7, e, sempre da Bologna, lui magnate che più di una volta
si scontrò a mano armata con i popolani fiorentini, fu richiesto di reggere la cari- ca di capitano del popolo negli anni immediatamente successivi all’emanazione degli Ordinamenti sacrati e sacratissimi8. Un percorso biografico, dunque, molto
intenso, tracciato attraverso strategie solo apparentemente contraddittorie, ma al contrario coerenti, pervase da una logica immanente le pratiche sociali e i modi culturali tipici di una società complessa come quella comunale. La coesistenza tra forme ‘private’ di soluzione dei conflitti, il ricorso ai metodi processuali, la promozione di accordi di pace, e la repressione penale non si ponevano tra loro
6 Cfr., per una prima ricostruzione, i capitoli di Compagni, La cronica, cit., I, XX-
XXIII, pp. 55-74.
7 Petizione presentata ai consigli citata da M. Vallerani, Conflitti e modelli procedu-
rali nel sistema giudiziario comunale. I registri di processi di Perugia nella seconda metà del XIII secolo, “Società e storia”, XIII (1990), p. 277, nota 30.
8 Sulla coerenza della presenza di milites alla guida delle istituzioni di ‘popolo’, si
rammentino, peraltro, le osservazioni di G. Tabacco, Egemonie sociali e strutture del pote-
in un’elidente concorrenza. L’uso di rifarsi in giudizio presso i tribunali ordinari, e, al contempo, di comporre le dispute con atti di pace, o di perpetuare i conflitti con la violenza, senza che tali modi apparissero agli stessi protagonisti delle forme alternative le une alle altre, costituiva un insieme coerente di possibilità diverse entro cui combinare e disegnare le singole strategie giudiziarie.
Si tratta allora di inquadrare le misure antimagnatizie fiorentine in questo contesto di interdipendenza tra i diversi sistemi giudiziari, evidenziandone la natura eminentemente politica di risorsa della competizione per il potere. La di- scriminazione giudiziaria dei lignaggi più potenti da parte delle forze di ‘popolo’ non fu infatti tesa a contestare la presunta pretesa dei magnati di esercitare la giustizia in forme private e a colpire le loro pratiche della faida e della vendet- ta – pratiche, peraltro, niente affatto peculiari dei ceti cavallereschi –, quanto piuttosto a individuare nella disciplina penale del loro stile di vita violento uno strumento di contrattazione politica. L’ideologia di una giustizia al servizio del bene comune e della pacificazione civica sulla quale vennero prendendo forma gli Ordinamenti di giustizia, servì infatti la legittimazione del nuovo ordine po- litico corporativo, e si pose come punto di riferimento per l’attuazione di una politica che alla repressione penale preferiva nei fatti la remissione delle pene e la negoziazione delle misure di disciplina del comportamento magnatizio. Ciò spiega l’apparente fallimento delle misure coercitive e il disciplinamento sociale in cui invece si risolse la questione magnatizia nel corso del secolo XIV.
2.1. La faida come pratica sociale
In via preliminare occorre fare chiarezza su un equivoco di fondo che una per- sistente tradizione di studi continua a perpetuare. Dai saggi di Nicolai Rubinstein alla più parte delle ricerche recenti, uno degli attributi fondamentali della defi- nizione sociale dei magnati viene infatti individuato, accanto ai criteri normativi della dignità cavalleresca e della pubblica fama, nella pratica della vendetta9. Il
9 Cfr. N. Rubinstein, La lotta contro i magnati a Firenze. II. Le origini della legge sul
“sodamento”, Firenze, 1939, pp. 43 sgg. e 51 sgg.; E. Cristiani, Nobiltà e popolo nel comu- ne di Pisa. Dalle origini del podestariato alla signoria dei Donoratico, Napoli, 1962, pp. 78
sgg. e 82 sgg.; M.B. Becker, A Study in Political Failure: the Florentine Magnates (1280-
1343), “Medieval Studies”, XXVII (1965), pp. 248 sgg.; Tabacco, Egemonie sociali, cit.,
pp. 332-334; F. Cardini, “Nobiltà” e cavalleria nei centri urbani: problemi e interpretazioni, in Nobiltà e ceti dirigenti in Toscana nei secoli XI-XIII: strutture e concetti, Monte Oriolo, 1982, pp. 13-28; C. Lansing, The Florentine Magnates. Lineage and Faction in a Medieval
Commune, Princeton, 1991, pp. 164 sgg. e 184 sgg.; S. Gasparri, I “milites” cittadini. Studi sulla cavalleria in Italia, Roma, 1992, pp. 88, 121 e 130-131; e da ultimo anche la voce Magnati del Dizionario del medioevo, a cura di A. Barbero - C. Frugoni, Roma-Bari, 1994,
dettato testuale delle fonti normative antimagnatizie contraddice però questa interpretazione. Da un lato, infatti, nella legislazione antimagnatizia fiorentina non si trova traccia alcuna (né nelle leggi degli anni ottanta, né negli ordinamenti degli anni novanta, né nelle provvisioni trecentesche) di una regolamentazione della vendetta: addirittura, il termine “vindicta” non vi compare nemmeno; e nulla pertanto autorizza a interpretare questa legislazione come una disciplina coercitiva della vendetta. Dall’altro, gli studi paiono muovere invece dall’assunto aprioristico che la vendetta si configuri come una prerogativa di esercizio della “giustizia privata” che i milites si arrogherebbero per antico privilegio cetuale10
o per stile di vita (accanto al possesso di case fortificate in città, alla definizio- ne di una cultura cortese, e alla ritualità cavalleresca11), e comunque in netta
contrapposizione con la giurisdizione del comune; la legislazione antimagnatizia affermerebbe così il netto prevalere del principio pubblicistico della pena sul- l’esercizio privatistico della vendetta12. La questione può essere vista però anche
da un’altra angolazione, e prima di suggerire gli elementi per una diversa inter- pretazione, sarà opportuno riconsiderarne alcuni altri.
In primo luogo, il censimento delle notizie documentarie (relative al XIII e XIV secolo) di faide e vendette tra casate fiorentine mette in evidenza come tali pratiche non fossero affatto prerogativa dei soli lignaggi magnatizi: su circa 100 conflitti di cui si ha notizia, in quasi la metà dei casi (47 su 98) appaiono coinvolte famiglie di stato popolare, e ben in un caso su quattro (25 su 98) la faida si svolse tra soli casati di ‘popolo’13. Le evidenze smentiscono dunque con
chiarezza l’assioma aprioristico che “l’uso della faida deve esser stato legato in modo particolarmente intimo alla vita della nobiltà cavalleresca”, e che le faide degli altri ceti rappresentassero “quantità trascurabili”14.
D’altra parte, basterebbe riflettere sull’identità dei protagonisti di una delle faide più note – quella tra i Mannelli e i Velluti – per vanificare la fondatezza della tesi che vorrebbe la legislazione antimagnatizia emanata per combattere l’attributo peculiarmente magnatizio della vendetta. Ricchi mercanti di ‘popo-
10 A cominciare da Rubinstein, Le origini della legge sul “sodamento”, cit., pp. 17
sgg.
11 Aspetti sui quali insistono in particolare Cardini, “Nobiltà” e cavalleria, cit.;
Lansing, The Florentine Magnates, cit.; e Gasparri, I “milites” cittadini, cit.
12 Rubinstein, Le origini della legge sul “sodamento”, cit., pp. 56-57; Becker, A Study
in Political Failure, cit., pp. 256-257; Lansing, The Florentine Magnates, cit., pp. 197 sgg.
13 Cfr. A. Zorzi, La giustizia a Firenze in età comunale (1250-1343). Pratiche sociali,
sistemi giudiziari, configurazioni istituzionali, tesi di dottorato di ricerca in storia medieva-
le, Università degli studi di Firenze, 1992.
14 Cfr., per esempio, Rubinstein, Le origini della legge sul “sodamento”, cit., p. 32, e,
in generale, gli studi citati alla nota 11. Solo D. Cavalca, Il ceto magnatizio a Firenze dopo
gli Ordinamenti di Giustizia, “Rivista di storia del diritto italiano”, XL-XLI (1967-1968),
lo’ di salda fede guelfa, i Velluti cominciarono a comparire sulla scena politica negli anni dell’istituzione del priorato fino ad assumere, proprio a partire dai mesi in cui si mise mano alla redazione degli Ordinamenti di giustizia del 1295, “una parte importante nel ceto dirigente”15. Ebbene, proprio in quei giorni, essi
esercitarono clamorosamente una vendetta covata per quasi ventotto anni con- tro la casata magnatizia dei Mannelli, un cui membro, Mannello di Tommasino aveva ucciso nell’autunno 1267 Ghino di Donato Velluti per vendicarsi del fatto che questi aveva fatto “trarre di bando” un nemico dei Mannelli, probabilmen- te Fornaino di Rosso dei Rossi che il sabato santo precedente aveva ferito in volto Tommasino Mannelli16. “Dalla nostra parte”, scrive Donato Velluti nel
proprio libro di ricordanze familiari, “non si fece vendetta infino al dì di San Giovanni 1295”17, festa patronale, quando il padre di Donato, Lamberto, in-
sieme con i cugini Lapo e Gherardino di Donato, fratelli del Ghino ucciso nel 1267, e Cino Dietisalvi Bonamichi, suo zio per parte di madre (vale a dire, “a noi congiunto d’amore, parentado e vicinanza”), assalirono e uccisero Lippo di Simone Mannelli, nipote di Mannello di Tommasino, mentre stava rincasan- do dall’aver visto correre il palio. Si considerino alcune date: nel marzo 1295 viene bandito Giano Della Bella, il 24 giugno i Velluti esercitano la propria vendetta, il 5 luglio i magnati tentano un colpo di mano armato per rovesciare il regime popolare, il giorno successivo vengono emanati i nuovi Ordinamenti di giustizia18. Siamo nel cuore degli avvenimenti politici salienti di quell’anno,
già turbato in gennaio dalle violenze provocate da Corso Donati19; eppure, i po-
polani Velluti non temono di esercitare la propria vendetta, ritenendo semmai di poter approfittare della debolezza politica del lignaggio nemico, colpito della normativa antimagnatizia.
Come ritorsione immediata i Mannelli accusarono di omicidio di fronte al podestà sia gli esecutori sia colui che essi individuavano come il mandante,
15 Cfr. N. Ottokar, Il Comune di Firenze alla fine del Dugento [1926], Torino, 1962,
pp. 52-54; D. Medici, I primi dieci anni del priorato, in S. Raveggi - M. Tarassi - D. Medici - P. Parenti, Ghibellini, guelfi e popolo grasso. I detentori del potere politico a Firenze
nella seconda metà del Dugento, Firenze, 1978, pp. 217-218n, 234; e P. Parenti, Dagli Ordinamenti di Giustizia alle lotte tra Bianchi e Neri, ivi, pp. 274, 287, 294, 297 e 326.
16 Nell’ambito degli scontri tra guelfi e ghibellini di quell’anno: cfr. Paolino Pieri,
Cronica delle cose d’Italia dall’anno 1080 all’anno 1305, a cura di A.F. Adami, Roma,
1755, p. 33.
17 Donato Velluti, La cronica domestica, a cura di I. Del Lungo - G. Volpi, Firenze,
1914, pp. 10-11. Su questa vendetta, cfr. anche I. Del Lungo, Una vendetta in Firenze il
giorno di San Giovanni del 1295, “Archivio storico italiano”, s. IV, t. XVIII (1886), pp.
355-409.
18 Avvenimenti sui quali cfr. R. Davidsohn, Storia di Firenze [1896-1927], 8 voll.,
Firenze, 1973, vol. III, pp. 714 sgg. e 736 sgg.; e G. Salvemini, Magnati e popolani in
Firenze dal 1280 al 1295 [1899], Torino, 1960, pp. 255 sgg.
vale a dire Filippo di Bonaccorso Velluti, padre di Lamberto e probabilmente l’esponente più autorevole, in quel momento, del lignaggio nemico20. Il tentativo
era chiaro: fare passare la vendetta dei Velluti come un’offesa originaria, come un omicidio estraneo a logiche di ritorsione. Il ricorso al tribunale si configu- rava nella loro strategia come una tappa intermedia nella gestione della faida, come una mossa tattica in attesa di ricorrere a loro volta alla ritorsione violenta. Nonostante la produzione di 24 testimoni d’accusa, i Mannelli non riuscirono pertanto a provare “cosa per la quale e’ fussino condannati, ma furno assoluti”. Gli esecutori materiali, che per precauzione non si erano presentati in giudizio, furono condannati solo per non aver risposto alla citazione; la sanzione fu pagata dalla compagnia di famiglia21.
L’intervento delle autorità pubbliche fu invece quello consueto di favorire e, là dove possibile, costringere alla pace le parti che avessero raggiunto un provvisorio equlibrio nel conflitto. Per questo il comune riuscì a far stabilire una concordia “in persona” che conteneva obbligazioni e sodamenti: la pace, appunto, “de hodiis inimicitiis iniuriis et offensionibus inter eos [...] quomodocumque et quandocu- mque illatis et factis”22 che fu solennemente stipulata nella chiesa ‘civica’ di san
Piero Scheraggio il 17 luglio dello stesso anno alla presenza delle massime autorità del comune23. Con questa cerimonia il comune riconosceva e sanzionava pubblica-
mente la soluzione del conflitto tra le parti, anche se nulla poteva garantire che essa fosse definitiva: ai Mannelli rimase infatti per lungo tempo “la gozzaia loro” per- ché, ricorda Donato Velluti, “erano sì grandi e potenti d’avere e di persone in quel tempo, che pareva loro essere oltraggiati per avere fatta la vendetta i nostri pas- sati”. La faida rimase infatti aperta, e i Mannelli “in tanta salvatichezza stettono” che Lamberto Velluti scampò all’ultimo momento da una ritorsione vendicatrice e a suo figlio Donato fu manifestato ancora, passata ormai una generazione, il “mal fiele” che “eglino aveano [...] contra noi”. Solo con la morte degli esponenti più anziani della famiglia nemica e approfittando della volontà di alcuni dei Mannelli di farsi recare a ‘popolo’ dopo il 1343, Donato Velluti seppe accortamente prestar- si a favorire tale richiesta, ricomponendo definitivamente il conflitto: “di che da poi in qua siamo stati fratelli senza niuna salvatichezza”24.
L’esempio di questa faida insieme con i dati che emergono dal citato cen-