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2. DIBATTITO TRA FORMALISTI E SOSTANTIVIST

2.1.1 Marshall Sahlins

Secondo Cangiani29, Sahlins è tra coloro i quali hanno meglio interpretato e sviluppato il pensiero sostantivista polanyiano. Alla base del pensiero dell’autore di L’economia nell’età della pietra sta l’idea mutuata da Polanyi che l’economia vada considerata non come «un’azione umana, (…) un comportamento individuale che soddisfi i bisogni», bensì come «una componente della cultura» (Sahlins, 1980, p. 190, nota). Al pari di Polanyi, Sahlins pensa che «oggetto dell’analisi economica devono essere le forme sociali dell’economia» (Cangiani, 1998, p. 24). A differenza di Dalton, Sahlins rimette al centro delle economie primitive lo scambio e tenta di elaborare una “sociologia dello scambio primitivo30”.

A proposito del tema dello scambio o comunque della circolazione dei beni, bisogna ricordare che una delle critiche che è stata rivolta a Polanyi da una prospettiva marxista è quella di aver dato un’importanza eccessiva alla fase della circolazione dei beni a scapito di altre fasi economiche, prima tra tutte quella produttiva. Rispetto a questa osservazione, la replica di Dalton e quella di Sahlins divergono. Il primo afferma che le tre forme di integrazione economica non sono state pensate da Polanyi solo per la fase della circolazione dei beni, ma possono essere applicate anche al processo produttivo. Secondo Sahlins, invece, nelle società primitive la fase della circolazione e dello scambio dei beni ha davvero preminenza rispetto alla fase produttiva. Questo perché nelle suddette società è il cibo il bene ad avere un ruolo predominante e la tecnologia e la divisione del lavoro sono poco sviluppate.

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Cfr. Cangiani, 1998

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45 Tra le forme di circolazione teorizzate da Polanyi, Sahlins si concentra sulla reciprocità. Egli analizza, integra e offre alcuni approfondimenti rispetto a questa forma di integrazione. In questo studio sulla reciprocità, effettuato dall’antropologo statunitense, emerge con chiarezza l’approccio sostantivista polanyiano, l’attenzione alle forme sociali dell’economia, al concetto di embedded.

« Ciò che nell’opinione corrente è condizione “non economica” o “esogena”- afferma Sahlins- nella realtà primitiva è l’organizzazione stessa dell’economia. Una transizione materiale in genere è un episodio momentaneo in un rapporto sociale continuo». (Sahlins, 1980, p. 189-90). Un rapporto sociale che, secondo Sahlins come per Polanyi, condiziona e determina il flusso dei beni. In questo senso l’economia è istituzionalizzata e in questo senso «l’economia è vista come il processo di approvvigionamento della società» (ibid. p. 189 nota). È proprio da questi passaggi fondamentali che si evince la distanza dai formalisti, ma anche da antropologi non strettamente riconducibili a uno dei due campi, come Herskovits. I formalisti rimuovono «il problema della struttura sociale, per cui oggetto dell’analisi economica diventa l’homo oeconomicus», ovvero «la forma economica del comportamento individuale» (Cangiani, 1998, p. 27). Herskovits, invece, propone una sorta di economia comparata, in cui i principi dell’economia convenzionale sono sì applicabili a tutte le società umane ma tenendo conto delle variabili socio culturali di ogni realtà. Herskovits sembra presupporre «che la differenza tra i più lontani sistemi economici sia solo di grado» (ibid. p. 24).

Lo stesso Dalton, nel suo riferirsi alla dimensione socioeconomica delle società primitive, sembra non porre molta attenzione alle forme sociali dell’economia, ai processi di integrazione, quanto piuttosto a ribadire che nello studio delle società primitive bisogna dare importanza alla dimensione sociale, dato di fatto accettato anche da molti antropologi formalisti.

Quello che è importante sottolineare è che l’approccio sostantivista polanyiano non si limita a ribadire l’importanza dei dati culturali e sociali nelle realtà primitive, ma propone una visione alternativa delle società primitive, legata a sua volta a una sua «teoria complessiva della società capitalistica» (ibid. p. 69).

Tornando a Sahlins, questi approfondisce il concetto di reciprocità elaborato da Polanyi, inserendovi elementi degli studi di altri antropologi come Malinowski e Mauss. Nel fare ciò, ribadisce il suo approccio sostantivista, specificando che il flusso dei beni nelle

46 società primitive ha spesso il ruolo di sanzionare o avviare rapporti sociali. In società in cui mancano autorità centrali, infatti, la «pacificazione non è uno sporadico evento intersocietario, ma un processo continuamente attivo nella società stessa» (Sahlins, 1980, p. 190). Le transazioni che Sahlins studia, dunque, non sono importanti perché approvvigionano la gente, ma perché «approvvigionano la società in modo decisivo: mantengono i rapporti sociali, la struttura della società» (ibid. p. 191, nota).

Rifacendosi alla classificazione elaborata da Malinowski a proposito degli scambi trobriand, Sahlins pensa alla reciprocità come una «intera classe di scambi» (ibid. p. 194), un continuum che va dal “puro dono” di Malinowski a scambi “negativi, come il raggiro, la truffa e il baratto. Secondo questo criterio, Sahlins individua tre tipi di reciprocità, che definisce generalizzata, equilibrata e negativa e che sono presentate secondo un’intensità decrescente del legame sociale tra gli attori dello scambio.

La prima rimanda a transazioni di natura “altruistica”, si tratta di doni, aiuti, assistenza tra parenti, atti per i quali la contropartita non è obbligatoria. Nel caso della reciprocità equilibrata si ha uno scambio diretto, il flusso dei beni è in questo caso sempre bidirezionale; è il caso, ad esempio, dei trattati di pace. Infine si ha la reciprocità negativa ovvero quegli scambi in cui il legame sociale tra le parti è nullo e si assiste al tentativo di appropriarsi di un bene massimizzando il proprio utile, è il caso del furto, ma anche del baratto.

Come ricordato precedentemente, Sahlins considera le forme di reciprocità come un continuum ed è quindi possibile che trovare forme più o meno “socievoli” all’interno dello stesso tipo di reciprocità.

L’intensità del legame sociale tra i soggetti dello scambio è condizionata dal ruolo svolto dalla distanza parentale e dal rango parentale.

Queste osservazioni che valgono per gli scambi tra individui più o meno prossimi ma comunque interni a una comunità, valgono anche per gli scambi tra tribù. Anche alla luce di alcuni studi di Lévi- Strauss, Sahlins ritiene che «bisogna rendersi conto che il commercio tra comunità o tribù primitive è un’impresa delicatissima, potenzialmente esplosiva» (ibid. p. 297). In questo contesto le transazioni assumono un valore strategico dal punto di vista sociale. La transazione serve a non inimicarsi la controparte. Per questo si assiste a una “generosità imposta” ovvero a scambi non equilibrati, a contraccambi di valore maggiore rispetto al bene ricevuto, quasi

47 “esagerati”. Nel caso melanesiano, studiato da Sahlins, tale forma di scambio arriva ad assumere caratteristiche fisse, con tassi di scambio stabili e creazioni relativamente durature di partnership. La costanza di alcune caratteristiche e variabili fa sì che si possa giungere ad un primo tentativo, da parte di Sahlins di delineare una “teoria primitiva del valore di scambio”.

Un altro tema centrale in Polanyi, ripreso e approfondito da Sahlins, è quello della scarsità. Proprio come il maestro ungherese, Sahlins ritiene che è «il sistema industriale di mercato a istituire la scarsità, in maniera completamente nuova e in un grado mai prima sfiorato (…). Scarsità è la sentenza emanata dalla nostra economia» (ibid. p. 16). Se Polanyi si concentra sul passaggio storico in cui la scarsità assume questo nuovo e fondamentale ruolo, Sahlins cerca di smentire la naturalità di questo assunto, ipotizzando un’originaria “opulenza” delle società primitive. È una affermazione che può apparire provocatoria e incomprensibile agli occhi dei contemporanei accecati, secondo Sahlins, da uno dei primi pregiudizi nei confronti delle società primitive e in particolar modo delle economie di caccia. Il pregiudizio per cui le società di cacciatori del paleolitico fossero dotate di economie di mera sussistenza, con mezzi perennemente scarsi e che riuscivano a garantire a malapena la sopravvivenza dei membri della comunità.

La realtà secondo Sahlins è un’altra, nelle società studiate i beni materiali sono abbondanti e accessibili a tutti. Non vi è scarsità perché i bisogni nelle società organizzate secondo un’economia di caccia sono limitati e i mezzi disponibili al soddisfacimento di questi bisogni sono adeguati. La scarsità infatti rimanda a un rapporto tra mezzi e fini. Il considerare le economie di caccia come economie di sussistenza rinvia a un’altra caratteristica dell’approccio formalista, stigmatizzata da Polanyi. «Il fatto che l’economia neoclassica finisca con l’escludere dall’ambito di sua competenza il problema dei fini, ridotti a preferenze individuali date» (Cangiani, 1998, p. 65) e si limiti a interrogarsi solo sul problema dei mezzi.

Il tema della scarsità e del rapporto tra mezzi e fini è presente in tutte le opere polanyiane e mostra come l’approccio sostantivista fosse già presente in nuce nella Grande trasformazione. In questa opera Polanyi osservava come, con l’avvento della società di mercato, si assistesse a un completo rovesciamento di prospettiva tra mezzi e fini. Lo scambio e il baratto che nelle società pre capitaliste erano inseriti in un sistema

48 sociale precostituito, cioè organizzato socialmente per la sussistenza umana, diventavano il principio organizzatore della produzione. È in questo contesto che la fame assume una connotazione completamente diversa da quella avuta nelle società non di mercato. Essa non rappresenta più il problema della sussistenza dell’uomo, ma diventa uno dei mezzi attraverso cui organizzare l’economia. Nella concezione economica classica, la paura della fame e il desiderio di guadagno guidano le scelte economizzanti dell’individuo in una società di mercato. Nella società di mercato la fame assume una “rilevanza sistematica”, diventa uno dei motivi principali dell’organizzazione economica. E ancora una volta, secondo Polanyi, questo avviene per una determinazione sociale. La fame diventa il motivo preminente dell’attività economica in luogo di altri motivi come lo status, gli obblighi sociali, le consuetudini31. In questa breve presentazione di alcune posizioni sostanzialiste, è evidente come la critica al formalismo fatta da Polanyi e Sahlins non si limiti a considerare inapplicabile l’analisi economica convenzionale alle economie premoderne, ma ne contesti anche alcuni dei principali assunti di base. Il ripensamento del ruolo della scarsità e della scelta, ad esempio, non è limitato alla loro applicazione alle economie primitive, ma sottende in Polanyi e in alcuni sostantivisti, una critica ben più radicale alla definizione formale di economia, che si basa proprio su questi concetti. Infatti, nella sua confutazione del formalismo, Polanyi si richiama alla definizione di economia data dall’economista inglese Lionel Robbins, per il quale l’economia è la scienza che studia il comportamento umano come rapporto tra fini e mezzi scarsi che hanno scopi alternativi. In effetti è alla definizione di Robbins che la maggior parte degli economisti e degli antropologi formalisti fanno riferimento32.

2.2 I formalisti

Affrontato fino ad ora attraverso lo sguardo dei suoi detrattori, è venuto il momento di conoscere i tratti fondamentali dell’approccio formalista.

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Cfr. Cangiani, 1998, p. 39

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49 Secondo Schneider gli studiosi formalisti, sebbene non collocabili «sotto un’unica etichetta» (Schneider, 1985, p. 19), sono accomunati dall’«accettazione parziale o totale della tesi dell’applicabilità della teoria formalizzata a ogni tipo di cultura» (ibid.). L’indirizzo formalista in antropologia si sviluppa tra gli anni ’30 e gli anni ’40 e deve la sua origine al, già citato, scontro tra Knight e Herskovits del 1940, nonché agli importanti studi dell’antropologo neozelandese, Raymond Firth. Allievo di Malinowski, Firth è stato uno dei più importanti antropologi economici del mondo anglosassone. I suoi studi, basati sulle ricerche sul campo a Tikopia (isola del Pacifico occidentale), in Malesia, in Africa e in Nuova Guinea e le sue opere, tra cui Primitive Economic of the

New Zeland Maori del 192933 hanno contribuito grandemente all’affermazione di un

approccio formalista negli studi antropologici.

Come ha modo di notare Schneider, tra i formalisti, Firth è uno degli studiosi più vicini alle posizione sostantiviste. Egli appartiene a un’area interna al formalismo, ma molto sensibile al tema del condizionamento sociale del comportamento economico, definita proprio per questo “antropologia sociale”. Secondo gli antropologi sociali quello economico è uno tra i tanti tipi di comportamento e non il «modo di configurare tutti i comportamenti» (Scheider, 1985, p. 20). Il comportamento economico è inoltre distinto e governato da quello sociale.

Per questo, Firth si trova d’accordo con Sahlins nel ritenere che «il rapporto tra sforzo materiale e relazione sociale sia reciproco, poiché una data relazione sociale può imporre un dato movimento di beni, ma una specifica transazione suggerisce una particolare relazione sociale» (Firth, in Tentori, 1974, p. 202). Ora, continua Firth, se è vero che talvolta gli economisti si sono disinteressati degli aspetti sociali delle transazioni, l’errore degli antropologi sostantivisti sta proprio nell’atteggiamento opposto. Essi avrebbero, nell’opinione dell’antropologo neozelandese, esagerato «la misura in cui il comportamento economico nelle società “primitive” è regolato da criteri sociali» (ibid. p. 207), finendo per svalutare completamente l’autonomia de momento economico e il peso della razionalità nel comportamento umano. Secondo Firth il tentativo di formalizzare alcuni comportamenti umani da parte degli economisti o degli antropologi formalisti, non presuppone necessariamente la sottovalutazione degli aspetti

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50 «emotivi e irrazionali sul modo di pensare economico» (ibid.). Questo tipo di fraintendimento, secondo Firth, sarebbe dovuto ad alcune valutazione relative alla natura dei mercati che avrebbero portato a conclusioni errate sull’esistenza di atteggiamenti economizzanti nelle società primitive. I sostantivisti, è un dato ormai noto, negano che nelle società premoderne esistesse un mercato inteso come meccanismo autoregolato di allocazione delle risorse in cui gli individui sono mossi dal desiderio di profitto. Ora, secondo Firth, la grande distanza tra le economie “primitive” e rurali e quelle moderne così come l’assenza del meccanismo di mercato autoregolantesi nelle prime sono dati ormai accettati. L’errore compiuto dai sostantivisti è di far derivare da questi assunti «la mancanza di qualsiasi concetto di vantaggio economico» (ibid. p. 205). È proprio in questo frangente che emerge con chiarezza il formalismo di Firth in quanto egli afferma che esiste un’universalità, un «comportamento omogeneo per tutta la serie di sistemi economici umani» (ibid.), per quanto riguarda i meccanismi di scelta. I concetti della teoria economica convenzionale non sono sempre e completamente applicabili alle economie tradizionali, spesso devono essere adattati e modificati, ma questo non comporta che l’intero apparato analitico dell’economia classica debba essere rigettato dall’antropologo.

Gli antropologi sociali, dunque, sono molto vicini al pensiero sostantivista, alcuni come Manning Nash lo sono ancora più di Firth; tuttavia si collocano nel campo formalista, poiché accettano il valore della formalizzazione economica.

Tra i formalisti, oltre agli antropologi sociali, secondo Schneider, è possibile individuare altri due gruppi, i teorici dello scambio sociale e i materialisti. Le figure maggiormente rappresentative del primo gruppo sono Belshaw, Salisbury e Barth. Alla base di questo approccio sta l’idea che lo scambio sociale, ovvero uno scambio che non concerne i beni materiali, deve entrare a fare parte dell’analisi economica. Gli antropologi materialisti, infine, rappresentati da Goodfellow e Cook, sono i più vicini a egli economisti classici. Essi ritengono che l’economia convenzionale sia sempre applicabile a qualsiasi realtà umana e dedicano le loro ricerche soprattutto allo scambio di beni materiali. Come è facilmente comprensibile, i formalisti materialisti sono i più inflessibili tra gli avversari del sostantivismo. Toni piuttosto accesi nel dibattito si ebbero ad esempio con la pubblicazione nel 1966 di The Obsolete Antimarket Mentality: A Critique of the Substantive Approach to Economic Anthropology. In questo

51 saggio tornano molte alcune delle accuse più ricorrenti dei formalisti nei confronti deo sostantivisti, ad esempio quella della natura normativa e ideologica delle posizioni polanyiane o il pregiudizio positivo e romantico verso l’uomo primitivo, considerato sempre altruista. Nel suo saggio, inoltre, Cook, rifacendosi allo scambio tra Knight ed Herskovits, accusa i sostantivisti di “induttivismo”, in opposizione al metodo deduttivo proprio dell’economia convenzionale. Quella tra “induttivisti” e “deduttivisti” è una delle dispute metodologiche precedenti al dibattito tra formalisti e sostantivisti e vede opporsi i sostenitori di un metodo di ricerca scientifica empirico e i sostenitori di un approccio basato sulla logica formale.

Secondo Schneider, l’induttivismo dei sostanzialisti è dovuto a un implicito orientamento funzionalista. Il funzionalismo concepisce la società come un tutto unico, in cui le varie istituzioni hanno il ruolo di mantenere in equilibrio il sistema. Secondo i suoi detrattori, il funzionalismo, al pari del sostantivismo, si rifà a un’idea di società statica ed è pertanto inadatto allo studio del mutamento sociale.

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