5. IL RITORNO DI POLANY
5.1 Una nuova prospettiva antropologica
Sono, dunque, numerosissimi i lavori usciti negli ultimi cinque, sei anni sull’opera di Polanyi o influenzati da essa. La maggior parte di essi prende spunto e sottolinea le analogie tra la recente crisi economica e la grande trasformazione economico istituzionale degli anni ’20, descritta da Polanyi. Alcuni definiscono lo studioso ungherese un “profeta78”, altri- come l’economista Stiglitz, che ha curato l’introduzione
alla edizione americana del 2001 di La grande trasformazione- sottolineano come Polanyi nei suoi scritti sembri parlare delle questioni presenti. Si tratta di un fermento e di un dinamismo nuovi, tali da far sostenere a Sobrero che «solo tra la metà degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo (…) l’interesse per l’opera di Polanyi ha conosciuto una simile intensità». (ibid. p. 255).
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95 Tuttavia, sempre secondo Sobrero, l’età dell’oro dell’antropologia economica e il recente ritorno di Polanyi sono accomunati anche da un altro fattore, questa volta negativo, che riguarda il modo in cui è stata letta e interpretata l’opera polanyiana. Sobrero ricorda come negli anni ’60 e ’70, Polanyi fosse molto letto anche in Italia, soprattutto grazie alla divulgazione delle sue opere da parte di Salsano e Grendi, ma che questa lettura scontasse un limite di fondo. « Per lo più lo leggemmo male: o forzandolo nella lezione dei Grundisse marxiani, o mettendolo accanto ai libri di Marcuse, Fromm, Adorno. (…) Il nostro errore non stava certo nel riconoscere un Polanyi “filosofo della politica” e un Polanyi “antropoologo”; l’errore che si faceva allora (e che spesso si sarebbe fatto anche in seguito) era di separare i due Polanyi, o ben peggio, di utilizzare Polanyi per cercare nel passato le fondamenta della nostra visione del presente. Era il peggior torto che, proprio dal punto di vista polanyiano, si potesse fare alla sua riflessione» (ibid. p. 255- 256). Questo tipo di impostazione, secondo Sobrero, era comune anche agli antropologi che maggiormente si confrontarono col pensiero polanyiano che tra gli anni ’60 e ’70 si concentrarono sul Polanyi antropologo, trascurando «l’attualità del suo pensiero politico» (ibid. p. 256). A questa scissione tra i “due Polanyi” non sfugge neanche la ripresa attuale, «cambia lo scenario, ma rimane che, come allora, ognuno legge Polanyi a proprio modo» (ibid. p. 257). Economisti e politologi recuperano il Polanyi «profeta del disastro dell’economia virtuale e critico delle cure iperliberiste (…) dal canto loro i sociologi e gli antropologi accostano Polanyi a Mauss, come antesignano degli studi sulla vitalità nella nostra società di forme di scambio estranee alla logica mercantile» (ibid.). Ora, secondo Sobrero questo approccio frammentato rischia di banalizzare il pensiero di un intellettuale la cui originalità e importanza sta proprio nel tentativo opposto, cioè quello di unificare l’approccio delle scienze sociali nello studio dei fatti economici. Come fa rilevare Sobrero, l’opera di Polanyi «scomposta in porzioni di scuola non offre molto di nuovo». (ibid.). È questa una constatazione comune, già Godelier ad esempio aveva mostrato come alcuni concetti ripresi da Polanyi fossero stati espressi prima e meglio da Marx. Lo stesso Polanyi sottolinea il proprio debito nei confronti di pensatori come Aristotele, Marx, Menger e come buona parte delle suoi concetti siano riproposizioni del pensiero di questi autori.
96 Come leggere dunque Polanyi oggi? Un possibile modo di interpretare l’autore ungherese è proposto da Sobrero, che sostiene che «Polanyi vada letto nell’ambito di un’antropologia generale o per dirla come Salsano come promotore di una scienza unificata delle società umane» (ibid. p. 258) e per fare ciò è necessario valorizzare e comprendere quale è stato il ruolo e il peso assunto dalla ricerca etnologica nel percorso polanyiano, in quale modo la “sorpresa dell’antropologia” sia coniugata e fusa con la continua attenzione di Polanyi nei confronti della società a lui contemporanea. Seguendo questa proposta interpretativa, le ricerche che più si confanno al metodo e alla sensibilità polanyiana e che soprattutto possono al meglio trarre spunti e strumenti dall’opera del maestro ungherese, sembrano essere i lavori di etnografia del mercato contemporaneo e della crisi.
Come rilevato da Sobrero, ma anche da Hart e Ortiz, un approccio molto diffuso alla crisi attuale è quello economicistico, che tende a sottovalutare sia le cause sia le conseguenze politico antropologiche della crisi. Tra gli effetti culturali della recente fase vi è, ad esempio, una rimessa in discussione del significato stesso di economia e uno dei possibili compiti dell’antropologia, può essere proprio quello di contribuire a una nuova definizione di economia. Secondo Hart e Ortiz, dopo un periodo estremamente dinamico negli anni ’70, proprio in coincidenza di un’altra crisi economica ed energetica, l’antropologia economica ha perso la sua forza propulsiva, disperdendosi tra studi e interpretazioni generali del macro fenomeno capitalistico e micro studi di realtà interstiziali e residuali. «L’anello mancante tra la vita di tutti i giorni e il mondo nel suo complesso si può trovare nell’opera di Mauss e di Polanyi. Un’attenzione ininterrotta alla distribuzione a tutti i livelli, dal globale al locale, mette in luce le conseguenze sociali della politica economica» (Hann e Hart, 2011, p. 206).
La recente crisi economica fornisce, dunque, agli antropologi l’opportunità di rimettere la loro disciplina al centro. Attraverso la rilettura di Polanyi e di Mauss, l’antropologia può essere la scienza che svela i meccanismi sociali che si nascondono dietro le formule matematiche di economisti e finanzieri. Come gli antropologi hanno indagato la funzione logica e sociale sottesa alla magia degli scambi kula, così oggi essi possono riportare l’economia alla sua dimensione concreta.
Il denaro, ad esempio, non deve più essere trattato come «una forza sovraumana dagli effetti devastanti ma come il prodotto delle idee e delle istituzioni umane, che da esse
97 può essere modificato» (Hart e Ortiz, 2008). L’antropologia del denaro è senz’altro un settore che ha subito un notevole impulso in seguito alla crisi economica. «Gli antropologi e i sociologi hanno respinto da tempo l’approccio impersonale ai soldi e ai mercati offerto dall’economia tradizionale» (Hann e Hart, 2011, p. 114). Tale punto di vista è, ad esempio, contestato da Zelizer. La sociologa ha dedicato un lungo periodo di studio al significato della moneta nella società odierna, parte delle sue ricerche sono presentate nel saggio del 1989, The Social Meaning of Money, in cui sostiene che «sotto l’influenza dei modelli economici la maggior parte delle interpretazioni mantengono una dicotomia rigida tra il denaro primitivo, che può essere vincolato per scopi sociali e il denaro moderno, per tutti gli scopi, che può fungere da mezzo efficace di scambio universale, in quanto valuta unica e non gravata da controlli rituali o sociali» (Zelizer, 2009, p. 119).
Il lavoro di Zelizer ha influenzato e contribuito allo sviluppo degli studi antropologici e sociologici sul denaro. Sebbene le sue ricerche mantengano un impianto anti polanyiano, Steiner ha notato come in un certo modo Zelizer abbia fatto progredire la riflessione di Polanyi su un tema solo intravisto dall’autore ungherese, ovvero di come si presenti la vita sociale moderna una volta che la sfera economica è penetrata in quella sociale. Le risposte della Zelizer sono profondamente influenzate da un approccio che contesta l’accezione di embeddedness polanyiano e che non chiarisce, al contrario di quanto fa Polanyi, la differenza tra sistema di mercato e mercato in sé e pertanto non possono essere inserite negli studi inerenti il ritorno di Polanyi. È giusto però ricordarle proprio perché offrono degli spunti tematici che partono da dove il maestro ungherese si era fermato.
Al contrario di Zelizer, Hart offre una lettura del denaro che riprendendo le riflessioni polanyiane presenti in La grande trasformazione, riconosce la presenza di un denaro contrassegno, prodotto dallo Stato e un denaro merce. Hart esorta gli antropologi a tenere in maggiore considerazione la natura duplice del denaro. «Gli antropologi dovrebbero essere in grado di mettere a confronto i loro esotismi con un’immagine più approfondita delle idee e delle realtà del mondo industriale che ci sostiene. (…) La moneta ha una buona ragione per avere due facce, sono entrambe indispensabili. Il denaro, allo stesso tempo, rappresenta un aspetto delle relazioni tra le persone e una cosa distaccata dalle persone» (Hart, in Hann e Hart, 2011, p. 116). Rifacendosi alla
98 definizione polanyiana della «moneta come sistema semantico, simile al linguaggio, alla scrittura o ai pesi e alle misure» (Polanyi, 1983, p. 135), Hart definisce il denaro come una “banca della memoria”, « un deposito che permette agli individui di tenere traccia di quegli scambi che intendono quantificare e inoltre una fonte di memoria economica della comunità» (Hart, in Hann e Hart, 2011, p. 118).
Gli antropologi non possono limitarsi a verificare in quale misura e in quale modo le persone abbiano imposto forme di controllo sui soldi e sugli scambi. Questi sono « aspetti della pratica personale. Questo è il mondo quotidiano che ciascuno di noi conosce. Dobbiamo anche raggiungere gli ambiti macro economici che non conosciamo, se vogliamo evitare la rovina che essi possono farci cadere addosso» (ibid. p. 119). In questa riflessione sulle potenzialità, il significato e i pericoli del denaro nella società attuale, Hart si rifà anche al lavoro di Simmel, che sosteneva che «il denaro è il simbolo concreto del nostro potenziale umano di rendere universale la società» (ibid.). Anche dalla riflessione sul denaro di Hart e Hann emerge la necessità e l’opportunità per l’antropologia di uscire da una «postura conoscitiva eccessivamente particolarista» , rivolta solo «al residuale e al frammentario» (Aria, 2012, p. 492). Una necessità che è espressa con forza anche da uno degli antropologi contemporanei più discusso, David Graeber. In un’intervista rilasciata nel 2012 a proposito del successo riscosso dal suo libro, Debt. The first 5000 years, pubblicato nel 2011, Graeber sostiene che l’antropologia è una delle poche discipline che può attingere a tutta la gamma dell’esperienza umana, ma che pare aver rinunciato a questa ambizione. «L’imperativo della disciplina sembra sempre di più essere, pensare in piccolo!» (Graeber, Houtman, 2012, p. 17). Si tratta di un retaggio degli anni ‘80 «che nel convincerci di come le nostre conoscenze siano un prodotto del potere coloniale, ci ha portato a credere che al loro interno ci fosse qualcosa di sbagliato e che proprio per questo sia altrettanto pernicioso diffonderlo oltre alla ristretta cerchia degli antropologi» (Aria, 2012, p. 492). Di fronte a questo uso “personale”e privato degli strumenti antropologici Graeber sostiene il ruolo pubblico dell’antropologia «che ha qualcosa di unico da dare a coloro che cercano di immaginare altre possibilità umane» (Graeber, Houtman, 2012, p. 17). In Graeber, come in Polanyi, la ricerca accademica si unisce all’impegno politico, un impegno ben più militante di quello dello studioso ungherese ma che è parimenti indirizzato a «sovvertire i fallaci assunti neoliberisti» (Aria, 2012, p. 492).
99 I lavori di Graeber e di altri antropologi anglofoni mostrano che l’antropologia economica, nei suoi sviluppi più recenti, sta tornando a fare teoria. In questa ottica vanno, ad esempio, lette le ricerche etnografiche dei mercati azionari, delle agenzie di rating e in generale tutti i lavori antropologici che cercano di comprendere i significati e le conseguenze della globalizzazione, della finanziarizzazione e della crisi economica da un punto di vista non solo economicista, che unisca la prospettiva antropologica a quella storica ed economica. Procedere attraverso un tale approccio metodologico costituisce uno dei modi migliori per raccogliere l’eredità lasciata da Polanyi.
Anche i contenuti del pensiero polanyiano sono recuperati insieme a quelli di Mauss. I due studiosi che non si sono mai incontrati in vita, né personalmente né intellettualmente, sono stati spesso accostati, paragonati, uniti nelle interpretazioni fatte dai posteri. Una lettura che, nel caso del MAUSS è stata considerata talvolta forzata e che invece in questa recente fase di nuova espansione dell’antropologia economica deve essere più rispettosa delle specificità dei due autori.
È proprio alle «teorie antropologiche del dono e della reciprocità» (ibid. p. 493) a cui si ispira Graeber per scrivere la sua contro storia del debito. Quella di Graeber è una ricerca a ritroso per comprendere da dove nasca la convinzione comune secondo cui tutti «i debiti devono essere saldati» (Graeber, 2012, p. 11); una ricerca che si trasforma anche in una proposta di teoria alternativa della moneta e del capitalismo. Aria ha rilevato come i passaggi più originali del lavoro dell’antropologo siano quelli di aver rappresentato il debito “come un dispositivo di schiavitù” e di aver colto l’origine e le modalità della trasformazione dell’obbligo morale in un debito, misurabile matematicamente e quantificabile attraverso la moneta. Ed è questa, infatti, la questione dichiarata “centrale” dallo stesso Graeber ovvero cercare di comprendere i motivi e i modi attraverso i quali «il nostro senso di moralità e giustizia si è ridotto a un linguaggio di affari» (ibid. p. 21).
«Il debito è dibattuto da almeno cinquemila anni. (…) Analizzare questa prospettiva pone in una posizione privilegiata perché ci permette di considerare quanto del nostro linguaggio morale e religioso sia originariamente emerso proprio da questi conflitti» (ibid. p. 15-16).
Come detto precedentemente, secondo Graeber la concezione economica e non più solo morale del debito è strettamente legata alla comparsa della moneta, per questo «una
100 storia del debito è necessariamente una storia del denaro» (ibid. p. 27). Graeber tenta di scardinare alcuni “miti fondativi” della teoria economica, come quello del baratto. Al pari di Polanyi, egli ritiene che il baratto non sia all’origine dello scambio e che nessuna società della storia abbia basato la sua organizzazione economica esclusivamente sul baratto. Graeber mostra come quelli che sono comunemente letti come atti di baratto, sono in realtà scambi inseriti in ben più complesse relazioni di reciprocità, implicanti non tanto elementi economici, quanto sociali. Graeber dunque si serve del concetto di reciprocità polanyiano, lo declina e lo studia attraverso la lente del debito. I rapporti sociali includenti quelli economici, nell’antichità come nelle società moderne, sono inseriti in forme di reciprocità e sono basati su debiti. Ogni membro di qualsiasi società è indebitato in vari modi e in varie forme con una svariata quantità di persone e si tratta di debiti non solo economici.
Un altro elemento affine al pensiero polanyiano è, dunque, il ruolo attribuito alla moneta, non più considerata il passaggio successivo al baratto nella nascita dello scambio di mercato, ma un’istituzione più tardiva che ha il ruolo di trasformare il debito da obbligo di natura morale in una forma di vincolo violento. Graeber, al pari di Polanyi, relativizza il significato economico della moneta, mostra come essa sia stata a lungo solo un’unità di conto e sempre seguendo l’interpretazione polanyiana, poi attualizzata da Hart, considera simbolicamente le due facce della moneta come indicative del duplice valore di questo mezzo, la moneta come unità di conto e la moneta come mezzo di scambio. Nella ricostruzione di Graeber, la moneta assume un ruolo centrale nella creazione del debito, attraverso l’intervento dello stato che controlla la moneta in quanto unità di conto e che arroga a sé il diritto di emetterla. In particolar modo è attraverso lo strumento della tassazione che lo stato crea un vero e proprio mercato della moneta e indebita gli individui. Proprio come aveva fatto Polanyi, Graeber smentisce la pretesa naturalezza della genesi del mercato teorizzata da Smith. «Per raccontare la storia del debito, bisogna ricostruire la maniera in cui il linguaggio del mercato è arrivato a pervadere ogni aspetto della vita umana» (ibid. p. 88). Questa affermazione descrive con efficacia in che cosa consiste il valore dell’opera di Graeber. Come ha fatto notare Aria, Debito non è un lavoro privo di limiti e completamente riuscito, probabilmente proprio per la vastità del progetto che ne sta alla base. L’originalità di Graeber sta «nel sottolineare che l’economics tende a trattare ogni
101 relazione umana come una forma di scambio e a concepire ogni scambio come se non avesse niente a che fare con guerra, passione, avventura, mistero, sesso e morte» (Aria, 2012, p. 498).
Polanyi aveva dimostrato quanto l’economicismo pervadesse la comune interpretazione dell’essenza della realtà economica, deformandola e proiettando lo sguardo contemporaneo anche sulle società più antiche e più remote. Allo stesso modo, l’antropologo statunitense mostra come «lo straordinario ruolo che oggi l’economia detiene nelle scienze sociali» (Graeber, 2012, p. 89) non permetta di vedere come l’origine del significato del debito non sia esclusivamente economica e come la traslazione dal significato morale a quello economico sia avvenuta attraverso un lungo processo che ha coinvolto la religione, il diritto e le tradizioni, contaminandone i linguaggi.
Lo studio delle nuove prospettive dell’antropologia economica è stato in questa sede solo accennato e ciò è, almeno in parte, dovuto alle difficoltà di confrontarsi con materiale molto recente e quindi non ancora sedimentato e difficile da reperire. Queste difficoltà non impediscono, tuttavia, di accogliere con interesse il rinnovato dinamismo interno al mondo dell’antropologia economica e il tentativo di uscire dalla nicchia dello studio dei microcosmi in favore di un approccio di ampio respiro. Un approccio che non esclude l’interdisciplinarietà ma che anzi privilegia l’incontro con altri campi del sapere, a partire dalla storia ma anche dall’economia. Come è stato più volte sottolineato è questo uno dei migliori modi di raccogliere l’eredità di Polanyi.
Conclusioni
Raggiunta la conclusione di questo lavoro, la sensazione non è proprio quella di una fine. È piuttosto quella di essere di fronte a un nuovo inizio, a potenziali e interessanti sviluppi futuri. Questo è senz’altro dovuto alle prospettive aperte dai recenti lavori di antropologia economica e dal fenomeno, anch’esso recente, del “ritorno di Polanyi”. Ma non si tratta solo di questo. La percezione di una mancata conclusione, di una incompiutezza è legata alla stessa essenza dell’opera polanyiana. I lavori di Polanyi, soprattutto La grande trasformazione ma non solo, hanno dei caratteri enigmatici, contengono una promessa che rende il loro studio a tratti frustrante, a tratti
102 entusiasmante. A ogni nuova lettura delle opere di Polanyi è possibile trovare qualcosa in più, qualcosa di nuovo, che era sfuggito alla lettura precedente. Tale fatto da una parte può lasciare atterriti e disorientati, ma rappresenta anche una ricchezza, il grande lascito di Polanyi. È proprio la dimensione inesplorata dell’opera dell’intellettuale ungherese la fonte della sua attualità e della sua freschezza. Caratteristiche che appaiono tanto più straordinarie se si pensa quanto l’opera di Polanyi fosse volutamente “incastrata” nel suo tempo e avesse l’obiettivo dichiarato di ricercare le «origini politiche ed economiche» (Polanyi, 2010, p. 5) del crollo della civiltà del diciannovesimo secolo e «della grande trasformazione che l’ha seguito» (ibid.).
La ricchezza e la complessità del pensiero polanyiano sono all’origine di molteplici ricerche e interpretazioni, che sono state oggetto di analisi in questo lavoro. Attraverso lo studio della ricezione dell’opera polanyiana, è stato possibile osservare come alcune delle sue teorizzazioni più importanti, come quella del duplice significato del termine “economico”, e alcuni suoi concetti, primo tra tutti quello delle economie embedded/disembedded, siano stati al centro di vere e proprie dispute teoriche. Vi sono differenze enormi tra la ricezione di Polanyi nel periodo che è stato preso in esame, che va dal dibattito tra formalisti e sostantivisti degli anni Sessanta, passa per la fase di egemonia marxista degli anni Settanta per arrivare al momento di espansione della sociologia economica statunitense e francese, fino a giungere all’attuale ritorno di Polanyi. Cambia il modo di leggere Polanyi, alla luce di nuove sensibilità, di nuove scoperte storiche e di mutamenti socio politici. Quello che rimane è la capacità del pensiero polanyiano di accendere discussioni, di suscitare dibattiti, di animare ricerche. Da molti è stato ricordato come la molteplicità delle interpretazioni dell’opera dell’intellettuale ungherese abbia comportato talvolta la forzatura del suo pensiero. Polanyi, infatti, è stato oggetto di interesse da parte di alcuni ambienti della nuova destra francese; altri hanno tentato di farne un esponente del neo comunitarismo e la sua opera è stata addirittura citata in ambienti conservatori e liberali79. Tuttavia, se la ricchezza e la complessità del pensiero polanyiano si prestano a molte letture, questo non ne giustifica un utilizzo eccessivamente eclettico. Il maestro ungherese non può essere al contempo “sia questo, che quello”, perché se vi è un aspetto univoco e
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103 inamovibile del pensiero polanyiano è la sua ostilità alla società di mercato e la necessità di un suo superamento attraverso una soluzione che egli definisce socialista,