4.2. Contenuto
4.2.1. Materia autobiografica, eterodiegesi e paradigma del Vero
A grandi linee, ciò che distinguerebbe l’autobiografia dalla biografia e dal romanzo è la coincidenza fra voce narrante e ordito narrato, attraverso la quale si andrebbe costruendo un principio di identità del sé parlante235. Considerando che tale demarcazione è stata problematizzata in vario modo a partire da Lejeune e dato che Loss and Gain non offre coincidenza onomastica fra autore, narratore e personaggio né omodiegesi, la narrazione non può definirsi autobiografica236. Piuttosto, si può riconoscere nel testo il patto fra autore e lettore che Lejeune definisce “romanzesco”, grazie al quale il testo newmaniano può essere definito “romanzo autobiografico”:
J’appellerai ainsi tous les textes de fiction dans lesquels le lecteur peut avoir des raisons de soupçonner, à partir des ressemblances qu’il croit deviner, qu’il y a identité de l'auteur et du personnage, alors que l’auteur, lui, a choisi de nier cette identité, ou du moins de ne pas l’affirmer. Ainsi défini, le roman autobiographique englobe aussi bien des récits personnels (identité du narrateur et du personnage) que des récits “impersonnels” (personnages désignés à la troisième personne); il se définit au niveau de son contenu. A la différence de l’autobiographie, il comporte des degrés. La “ressemblance” supposée par le lecteur peut aller d’un “air de famille” flou entre le personnage et l’auteur, jusqu’à la quasi-transparence qui fait dire que c’est lui “tout craché” [...]. L’autobiographie, elle, ne comporte pas de degrés: c’est tout ou rien237.
Adottando la prospettiva di Lejeune, per comprendere quale sia la modalità di rappresentazione di sé adottata da Newman occorre dunque guardare
235 Cfr. Michael Benton, Literary Biography. An Introduction, Oxford, Blackwell, 2009; Park Honan, Authors’ lives: on literary biography and the arts of language, New York, St. Martin’s Press, 1990; Ira Bruce Nadel, Biography: Fiction, Fact and Form, London, Macmillian, 1984; Alan Shelston, Biography, London, Metheuen, 1977; John Updike, On Literary Biography, Columbia, University of South Carolina Press, 1999.
236 “Pour qu’il ait autobiographie […], il faut qu’il y ait identité de l’auteur, du narrateur e du personnage”. Cfr. Philippe Lejeune, Le pacte autobiographique, Paris, Seuil, 1974, p. 15. 237 Ibid., p. 25.
al contenuto, ossia alle modalità di disposizione del materiale autobiografico all’interno del romanzo. Esso risulta testualizzato secondo due procedimenti retorici fra loro saldamente intrecciati nella lavorazione del materiale linguistico: la dislocazione dell’Io nella terza persona e l’uso dell’allusione.
La tecnica eterodiegetica, chiamando in causa un tipo di distanza prospettica dagli eventi che facilita sia l’investigazione filosofica della controversia religiosa del tempo, sia la presentazione della propria conversione al pubblico, autorizza l’autore a rendersi il biografo di se stesso, ossia a trattare
il soggetto protagonista della narrazione come altro da sé; è infatti nella
costruzione di un altro sé, o meglio nel processo di spersonalizzazione narrativa, che l’autore può muoversi liberamente per comprendere e rendere comprensibile quanto esperito in vita, compiendo un gesto simile a quello del biografo intento allo studio del soggetto da narrare, ossia operare “The kind of understanding that Wittgenstein (1974 [1953]: §122) regarded as the proper aim of philosophy— namely, ‘understanding that consists in seeing connections’” 238.
Tuttavia, collocare Loss and Gain all’interno del filone biografico vittoriano rischierebbe di aprire uno spiraglio critico incongruo con gli scopi dello studio. Bisognerà circoscrivere la fluidità tipologica del romanzo newmaniano all’interno della macrotestualità dell’autore: si vedrà come la narrazione in Loss and Gain risulti motivata, a livello teorico, dal principio dell’economia così come formulato da Newman nell’Apologia e appaia perfettamente coerente con le strette frequentazioni letterarie che l’autore intratteneva con la classicità. Occorre pertanto accantonare per un attimo le speculazioni narratologiche, rimarcando in un’ottica macrotestuale come Newman abbia semplicemente applicato al proprio scritto i princìpi della
narrative poetry così come da lui stesso enucleati:
He finds connected events separated from each other by time or place, or a course of action distributed along a multitude of agents; he limits the scene or duration of the tale, and dispenses with his host of characters by condensing the mass of incident and action in the history of a few. He compresses long controversies into a concise argument, and exhibits characters by dialogue, and (if such be his object) brings prominently forward the course of Divine Providence by a fit disposition
238Ray Monk, “Life without Theory: Biography as an Exemplar of Philosophical Understanding”, Poetics Today, XXVIII, 3 (Fall 2007), pp. 527-570, p. 528.
of his materials. Thus he selects, combines, refines, colours, -in fact, poetizes239.
L’analisi così condotta spinge a considerare i nuclei autobiografici presenti in Loss and Gain non tanto come conferme testuali dell’ascrivibilità dell’opera a un genere, ma come una base formale, funzionale all’esposizione di una vicenda che, foggiata secondo la disposizione all’impersonalità garantita dall’eterodiegesi, mira a costruire un paradigma portante l’intera vicenda nel “corso della Divina Provvidenza” riconoscibile nella successione sintagmatica degli eventi. Tale paradigma, sovrapponendosi all’opposizione assiologica e tematica fra vero e falso, fra reale e ideale rintracciata nella struttura del romanzo, comporta che nel punto più alto vada a situarsi la Verità/realtà della Provvidenza e, nel punto più basso, l’idealità/finzionalità allegorizzata nella vicenda, intesa come diegesi al cui interno agiscono e sono caratterizzati personaggi finzionali:
Vero/Reale
Ideale/finzionale Diegesi
Un simile schema, mirando a rendere intellegibili i meccanismi di disvelamento della Realtà ultima nel corso degli eventi umani, esperisce un tipo di realismo molto diverso da quello codificato nel romanzo moderno; per dirla con Watt, parrebbe che il realismo letterario perseguito da Newman muova lontano dall’epistemologia cartesiana fondata su “the study of the particulars of experience by the individual investigator240”, pur conservandone la pretesa di
239 Cfr. nota 140.
240 Ian Watt, The Rise of the Novel. Studies in Defoe, Richardson and Fielding, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1957, p. 12
oggettività narrativa: il reale che Newman intende rappresentare non passa attraverso la “verità umana di Rembrandt”, ma si dimostra nell’ “idealità poetica della composizione”241. Per tale ragione è necessario constatare che Newman modelli il proprio modus scribendi su assunti filosofici di tipo premoderno e scolastico, in forza dei quali è l’universale a costituire la realtà, la quale si rifrange nella secondaria significanza del mondo umano e sensibile. Accogliere tale sfumatura del realismo newmaniano nella nostra argomentazione rende necessaria la messa a punto di una precisazione terminologica per facilitare la lettura di quanto seguirà; utilizzeremo, di qui in poi, il termine reale come sinonimo di Verità trascendente, mentre riferiremo alla fiction del romanzo come alla composizione ideale:
[…] the term ‘realism’ in philosophy is most strictly applied to a view of reality diametrically opposed to that of common usage -- to the view held by the scholastic Realists of the Middle Ages that it is universals, classes or abstractions, and not the particular, concrete objects of sense-perception, which are the true ‘realities’. This, at first sight, appears unhelpful, since in the novel, more than in any other genre, general truths only exist post res; but the very unfamiliarity of the point of view of scholastic Realism at least serves to draw attention to a characteristic of the novel which is analogous to the changed philosophical meaning of ‘realism’ today: the novel arose in the modern period, a period whose general intellectual orientation was most decisively separated from its classical and mediaeval heritage by its rejection –or at least its attempted rejection –of universals242.
La dislocazione dell’Io operata da Newman in Reding, finalizzata alla rivelazione della Provvidenza, muove quindi dall’ideale della fiction alla realtà del Vero, perseguendo quel tipo di realismo individuato da Auerbach nelle narrazioni bibliche, nelle quali
Le cose stanno in modo completamente diverso […]. L’incanto dei sensi non è nelle loro intenzioni, e se ciò nonostante agiscono vivacissimamente anche sui sensi, avviene perché fatti etici, religiosi, intimi, ai quali unicamente mirano, concretizzano negli elementi sensibili della vita. Il fine religioso determina […] una pretesa assoluta di verità storica. […] Quanto [il narratore biblico] esponeva non mirava dunque in primo luogo alla
241 “‘Réalisme’ was apparently first used as an aesthetic description in 1835 to denote the ‘vérité humaine’ of Rembrandt as opposed to the ‘idalité poétique’ of neo-classical painting”. Ibid., p. 10.
“realtà”, e se pur anche gli riusciva, ciò era pur sempre un mezzo e non uno scopo; mirava invece alla verità243.
Il contenuto del romanzo è dunque la testualizzazione autobiografica della
conversione come cammino paradigmatico verso la Verità: se manteniamo la
validità di tale ipotesi, essa giunge a conformare tematicamente il testo all’interezza del sistema teologico newmaniano il quale, come si è visto, fonda se stesso nella persona e nell’eremenutica della vicenda biografica interiore come dispositivo di rivelazione del Divino e del Vero.
La condensazione della vicenda in una fiction che lascia scorgere il disegno divino nella conversione del protagonista, l’adozione della narrazione in terza persona, la costruzione di un alter-ego in Charles Reding e di un plot finzionale, segnalano da un lato la precisa volontà autoriale di frapporre una distanza di cognizione fra il proprio sé e la sua rappresentazione e, dall’altro, permettono all’autore di adottare strategie rappresentative che, muovendo fuori dal circoscritto campo esperienziale e linguistico dell’Io, possano ramificarsi nell’azione di varie personae che sulla scena si fanno portatrici di istanze a un tempo personali e sociali.
Investigare le ragioni di tale presa di distanza ci porterebbe a intraprendere una strada psicologistica che, se forse aiuterebbe a far luce su molti aspetti biografici riguardanti la vicenda di conversione newmaniana, d’altro canto ci allontanerebbero dal testo e dalle istanze letterarie da esso ricavabili; considereremo perciò tale distanza narrativa come funzionale alla rappresentazione del sé empirico autoriale, definendo questo sé come elemento linguistico comprensivo di aspetti materiali, sociali, spirituali ed egotici secondo la strumentazione jamesiana: “In its widest possible sense […] a man’s Self is
the sum total of all that he CAN call his”244. La vicenda autobiografica, declinata secondo precisi accorgimenti teorici, è utilizzata da Newman come materia
prima d’indagine che assolve alla duplice funzione di testimoniare l’opera
divina ed esporre la propria esperienza al lettore, consegnando all’opinione pubblica il racconto della propria verità, pur nella forma di una fiction. In questo senso, Loss and Gain può dirsi testo che dice il sé autoriale, nella misura in cui:
243 Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Volume primo, Torino, Einaudi, 2000, pp. 16-17.
244 William James, The Principles of Psychology in Two Volumes, New York, Henry Holt and Company, 1890, Vol. 1, p. 291.
Non si può […] prescindere da concetti quali “verità” (la cui sopraggiunta necessità spinge il soggetto scrivente ad entrare nella propria opera), “menzogna” ([…] la fictio che l’autore costruisce per poi negarla con la propria verità […]). Sono […] termini che si legano inscindibilmente al genere autobiografico e non solo ne sostengono le fila, ma […] ne causano la nascita245.
Si assiste pertanto in Loss and Gain alla (ri)costruzione dell’identità autoriale in relazione al disegno della Provvidenza, in un gesto ermeneutico che indaga la dimensione più intima del sé e allo stesso tempo la presenta al pubblico secondo determinate modalità espressive; una di queste è la scelta di affidare l’autodiscorsività alla concertazione di una vicenda riguardante una terza
persona, collocando la testualità del romanzo in un terreno liminare fra
autobiografia e fiction che la critica tende a definire life narrative nei termini generali di “self-referential narrative”246.
La seconda modalità di testualizzazione autobiografica, si è detto, risiede nell’allusione come espediente retorico per fondare il racconto nella realtà storica, com’è il caso dell’intertestualità attivata con l’opera di Keble e con i
Tracts for the Times di cui si è dato conto nella sezione precedente; più in
generale, l’espediente allusivo, inteso come
accenno velato o insinuante a qualcuno o qualcosa che non si voglia nominare esplicitamente. […] Nella varietà dei suoi aspetti il parlare allusivo è un ‘dare a intendere’ appellandosi a conoscenze effettive o presunte del destinatario […]247,
è ampiamente utilizzato nel testo, come ad esempio nel seguente passaggio a conclusione del Capitolo II, parte seconda, nel quale Reding, Sheffield e il loro
tutor si trovano a discutere della relazione fra l’esercizio del libero esame di
stampo protestante e l’esistenza di partiti religiosi all’interno della Chiesa inglese:
When they were left to themselves Charles asked Carlton if he really meant to acquit of party spirit the present party leaders in Oxford. “You must not misunderstand me,” answered he; “I do not know much of
245 Cesare Grisi, Il romanzo autobiografico. Un genere letterario tra opera e autore, Roma, Carocci, 2011, p. 9.
246 Sidonie Smith, Julia Watson, Reading Autobiography: A Guide for Interpreting Life
Narratives, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2001, p. 3.
them, but I know they are persons of great merit and high character, and I wish to think the best of them. They are most unfairly attacked, that is certain; however, they are accused of wishing to make a display, of aiming at influence and power, of loving agitation, and so on. I cannot deny that some things they have done have an unpleasant appearance, and give plausibility to the charge. I wish they had, at certain times, acted otherwise. Meanwhile, I do think it but fair to keep in view that the existence of parties is no fault of theirs. They are but claiming their birthright as Protestants. When the Church does not speak, others will speak instead; and learned men have the best right to speak. Again, when learned men speak, others will attend to them; and thus the formation of a party is rather the act of those who follow than of those who lead.” (155-6)
Il passaggio è esemplare di molti nel romanzo in cui si fa riferimento al Movimento Trattariano, senza mai nominarlo; qui, in particolare, si osserva come Carlton alluda ai Trattariani quando, mediante la semantizzazione generalizzante che riferisce a un generico “partito” e agli uomini che ne fanno parte come “leaders in Oxford”, li definisce attraverso i termini della controversia pubblica: “They are most unfairly attacked, that is certain; however, they are accused of wishing to make a display, of aiming at influence and power, of loving agitation, and so on. I cannot deny that some things they have done have an unpleasant appearance, and give plausibility to the charge”. Sulla stessa linea espressiva vanno interpretati i numerosi rimandi intertestuali, come ad esempio quelli a The Christian Year: l’allusione al testo di Keble, come anche ad altri testi iconici e non, costituisce una strategia oggettivizzante il racconto nella storia che guida il lettore a guardare oltre la pagina, fra le pieghe della realtà umana. In questo senso anche l’intertestualità concorre alla lavorazione della storia personale sebbene, come vedremo, tali rimandi siano funzionali più al gioco tematico che il testo dinamizza negli scambi fra personaggi che alla narrazione di sé.
È infatti nei raccordi diegetici, altrove chiamati condensazioni, che la determinante espressiva poc’anzi definita come allusione autobiografica pone in essere quel meccanismo di nascondimento e rivelazione che informa l’economia testuale, newmanianamente intesa. Guardiamo alla prosecuzione del Capitolo III, prima parte, analizzato in apertura del Paragrafo 4.2. L’intero capitolo, si diceva, costituisce una delle condensazioni diegetiche e tematiche del testo in cui il narratore intende tratteggiare opinioni e carattere del protagonista e dei personaggi a lui vicini, assimilando l’immaturità dei giovani alle prese con la materia religiosa al diffuso malcostume intellettuale dell’establishment
britannico. Una volta sottolineata la mancanza di sistematicità intellettuale in materia di religione nei ragazzi (“Neither of the friends had what are called views in religion”), l’autore procede come segue, esemplificando come tale mancanza fosse connaturata all’inevitabile atmosfera interiore che la giovane età dipinge nell’animo dell’uomo, ossia la “season of poetry, in the sweet spring-time, when the year is most beautiful, because it is new”. L’impatto con la novità è causa di una visione “poetica” delle cose, caratterizzata da una “gay confusion” che, via via che l’uomo matura, gli impone di esaurire quel senso di “novelty” nell’esperienza che predispone l’individuo a numerare, ordinare e misurare le cose del mondo, allontanandolo dalla poesia e avvicinandolo alla filosofia e alla verità:
He [Reding] liked, as he walked along the road, and met labourer or horseman, gentleman or beggar, to say to himself, “He is a Christian.” And when he came to Oxford, he came there with an enthusiasm so simple and warm as to be almost childish. He reverenced even the velvet of the Pro.; nay, the cocked hat which preceded the Preacher had its claim on his deferential regard. Without being himself a poet, he was in the season of poetry, in the sweet spring-time, when the year is most beautiful, because it is new. Novelty was beauty to a heart so open and cheerful as his; not only because it was novelty, and had its proper charm as such, but because when we first see things, we see them in a “gay confusion,” which is a principal element of the poetical. As time goes on, and we number and sort and measure things—as we gain views—we advance towards philosophy and truth, but we recede from poetry.
When we ourselves were young, we once on a time walked on a hot summer-day from Oxford to Newington—a dull road, as any one who has gone it knows; yet it was new to us; and we protest to you, reader, believe it or not, laugh or not, as you will, to us it seemed on that occasion quite touchingly beautiful; and a soft melancholy came over us, of which the shadows fall even now, when we look back on that dusty, weary journey. And why? because every object which met us was unknown and full of mystery. A tree or two in the distance seemed the beginning of a great wood, or park, stretching endlessly; a hill implied a vale beyond, with that vale's history; the bye-lanes, with their green hedges, wound and vanished, yet were not lost to the imagination. Such was our first journey; but when we had gone it several times, the mind refused to act, the scene ceased to enchant, stern reality alone remained; and we thought it one of the most tiresome, odious roads we ever had occasion to traverse.
But to return to our story. Such was Reding. (25-6)
Dopo aver enucleato nel cammino intellettuale verso il Vero il contenuto del romanzo, il narratore illustra la gradualità del suddetto cammino nell’acquisizione di procedimenti ermeneutici e di codifica dell’esperienza: numerazione, ordinamento e misura delle cose (“number and sort and measure
things”). In tal modo, si annuncia proletticamente quale sarà l’avventura di Reding verso la filosofia e la Verità e, allo stesso tempo, si allude, col repentino cambio di persona osservabile nel secondo paragrafo, alla similarità sostanziale fra la vicenda ideale rappresentata e quella della voce narrante: “When we
ourselves were young” apre la narrazione sul percorso da Oxford a Newington
intrapreso dall’autore stesso con un’indeterminata compagnia, tracciando un parallelo fra il cammino, anche metaforicamente inteso, di un generico “noi” e quello della compagnia di Reding.
Nel cambiamento indicale da “he/they” a “we”, rafforzato semanticamente dal riflessivo “ourselves” e nel racconto esplicativo che segue, è scorgibile un procedimento straniante che, se spinge il lettore a operare per analogia procedendo a un’identificazione fra la compagnia di Reding e quella dell’autore, gli procura anche uno strumento ermeneutico per codificare la