Nel panorama degli studi che ruotano attorno al nesso scienza-potere, centrale è divenuto negli ultimi anni il tema dell’eugenetica. Di fronte alle numerose ricerche che, nel panorama internazionale, hanno scelto questa tematica come angolatura privilegiata per interpretare il sorgere di nuovi centri di interesse nel pensiero scientifico e l’importanza assunta, tra le due guerre, dal tema della salute familiare e nazionale nell’agenda politica degli Stati europei1, il
termine “eugenetica” ha subito negli ultimi anni un allargamento “ipertrofico”, divenendo una categoria sotto la quale collocare tutti i processi di biologizzazione del sociale, anche quelli che nascono da matrici diverse dal progetto di miglioramento del corpo sociale attraverso la regolazione dei meccanismi riproduttivi. Una dilatazione avvenuta anche per effetto della frequenza con cui, nel discorso pubblico, compare il concetto di eugenetica, a simboleggiare gli interventi più invasivi della scienza sulla vita umana2.
Il movimento eugenico costituisce oggi, inoltre, uno dei percorsi più battuti per comprendere le interazioni tra il razzismo degli stati totalitari e la cultura scientifica: per capire cioè in che misura le politiche razziali siano state preparate e supportate dalla cultura scientifica.
Nella storiografia italiana sono numerosi gli studi che hanno affrontato la nascita e lo sviluppo del movimento eugenico nel nostro contesto nazionale3. Grazie ai lavori di Claudio Pogliano, Francesco Cassata, Roberto Maiocchi e Claudia Mantovani, si è avviata una comprensione più articolata di ciò che è stata l’eugenetica sotto il fascismo - non semplice scienza di cui la
1 Per una prospettiva sull’espansione delle politiche sociali che interessa, negli anni tra le due guerre, gli Stati
democratici come i regimi autoritari si veda M. Mazower, Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi del
XX secolo, Garzanti, Milano 2005. Per i diversi modelli di integrazione delle masse nel corpo nazionale degli
Stati totalitari e dei sistemi politici democratici si veda, per lo stesso periodo, A. Rapini, I “cinque giganti” e la
genesi del welfare state in Europa tra le due guerre, in «Storicamente», 8 (2012); L. Paggi, Dallo stato di popolazione alla nazionalizzazione del consumo, in Id., Il popolo dei morti, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 271-
302; P. Corner, Il ruolo della previdenza e dell’assistenzialismo sotto il fascismo, in G. Procacci,
Assistenzialismo e politiche di controllo sociale nell’Italia liberale e fascista, Università degli studi di Modena e
Reggio Emilia, Modena 2001.
2 Cfr. E. Betta, Eugenetica, eugenetiche, in «Contemporanea», IX, (2006), pp. 787-793.
3 C. Pogliano, Scienza e stirpe. Eugenica in Italia (1912-1939), in «Passato e presente», 5 (1984), pp. 61-97; G.
Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Il Mulino, Bologna 1998; R. Maiocchi, Scienza italiana e
razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze 1999; C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004; F. Cassata, Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2006; C. Pogliano, L’ossessione della razza. Antropologia e genetica nel XX secolo, Edizioni della Normale, Pisa 2005; F. Cassata, Verso l’«uomo nuovo»: il fascismo e l’eugenetica «latina», in Storia d’Italia, XXVI. Annali, Scienza e cultura dell’Italia unita, a cura di F. Cassata, C.
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politica si è servita per portare avanti un programma di difesa del corpo sociale, ma movimento culturale ampio ed eterogeneo, il cui rapporto con il potere non si può misurare unicamente dall’analisi degli episodi di maggiore compromissione.
Gli studi hanno comunque finora privilegiato le figure più vicine ai vertici del potere, capaci di indirizzare le politiche “sociali” del regime - si pensi, ad esempio, all’interesse che ha suscitato nel panorama storiografico Corrado Gini, presidente dell’Istat dal 1926 al 1931 e della Sige (Società italiana di genetica e eugenica) dal 1924 al 1965, stretto collaboratore di Mussolini negli anni della svolta demografica e popolazionista4.
Diversa è però la prospettiva d’indagine che si apre con lo studio della medicina tropicale. Non si tratta di esaminare le figure del mondo scientifico più compromesse con il regime, sulle quali esiste ormai una cospicua letteratura5, ma di analizzare un settore nella sua
interezza, come campione significativo della cultura italiana durante il fascismo, e, più esattamente, far emergere come si strutturi un intero campo del sapere in corrispondenza della nuova politica imperialistica.
Piuttosto poi che analizzare la scienza come campo separato e impermeabile alle influenze esterne, questo lavoro cercherà di far dialogare la scienza con la società, ponendo il problema del razzismo non tanto come elaborazione scientifica ma come prassi diffusa. Oggetti e indirizzi attorno ai quali si svilupperanno le ricerche di patologia tropicale nella prima metà del secolo sono infatti tanto l’effetto degli orientamenti della scienza medica europea nel primo novecento quanto il prodotto dell’esperienza concreta dei medici in colonia, figure “ponte” tra le due realtà territoriali. I prossimi paragrafi tenteranno di chiarire quest’impostazione.
3.2 “Tropicalità”: una categoria dell’eccesso
Come tutte le discipline che studiano aspetti e manifestazioni delle civiltà extraeuropee, la medicina tropicale è parte integrante, si può dire, adottando il pensiero di Said, di un sistema consolidato di idee sull’“oriente”6; un sistema che costituisce un efficace veicolo di strutturazione dell’identità occidentale7. Non stupisce dunque che gli studi di patologia
coloniale prodotti tra otto e novecento in Italia si soffermino tutti, nel definire la specificità
4 Su Corrado Gini, demografo, presidente dell’Istat cfr. F. Cassata, Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica, Carocci, Roma 2006. C. Ipsen, Demografia totalitaria. Il problema della popolazione nell’Italia fascista, Il Mulino, Bologna 1997.
5 Su Nicola Pende, fondatore dell’Istituto biotipologico ortogenico di Genova, si veda la bibliografia già citata
nelle note precedenti. Su Lidio Cipriani, antropologo, direttore del museo di antropologia ed etnologia di Firenze, uno degli esponenti più aggressivi del razzismo anti-nero, collaboratore di «Gerarchia» e de «La difesa della Razza», cfr. S. Puccini, Note sul rapporto tra gli studi etno-antropologici italiani e il razzismo fascista. Il
«caso» della pura razza italica, in «Problemi», 58 (1980); G. Dore, Antropologia e colonialismo nell’epoca fascista. Il razzismo biologico di Lidio Cipriani, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli
studi di Cagliari», n. s., II (1981); F. Cavarocchi, La propaganda razzista e antisemita di uno ‘scienziato’
fascista. Il caso di Lidio Cipriani, in «Italia contemporanea», 219 (2000).
6 E. Said, Orientalismo. Immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano 2010, p. 21. 7 Ivi, pp. 329-330.
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della propria materia, sulla nozione di “tropicale”: una categoria dalla forte valenza simbolica, che serve a delimitare e racchiudere tutto ciò che si percepisce come differente dal mondo occidentale, come eccessivo o difettoso rispetto ad una norma europea. In realtà, molte delle malattie “tropicali” sono diffuse anche in Italia, in particolare nelle regioni meridionali della penisola. Come scrive Helen Power, ripercorrendo le tappe della scoperta del ruolo delle zanzare anofele nella trasmissione della malaria, il meridione ha costituito per lungo tempo un laboratorio per la ricerca di vettori e agenti patogeni delle malattie infettive: «[A fine ottocento] Laveran [si trasferisce] dall’Africa all’Italia dove le regioni meridionali fortemente malariche fornivano materiale clinico per ulteriori studi; l’Italia, come l’America, praticava in effetti la medicina tropicale “in casa propria”»8.
Stabilire, attraverso il ricorso alla categoria geografica di “tropicalità”, un criterio certo e netto di distinzione tra le malattie europee e non europee, senza esplicitare che malaria, tracoma, ecc. sono malattie diffuse anche nel sud della penisola, non costituisce dunque una mera operazione di denominazione accademica. È evidente invece come il meccanismo della contrapposizione culturale, tra contesto coloniale e madrepatria, sia funzionale al rafforzamento dei confini dell’identità nazionale9, un’esigenza tanto più impellente per un paese che, sul piano sanitario, mostra pericolose parentele con i territori di conquista.
Se poi in alcuni testi il parallelo tra le regioni africane e quelle italiane è reso manifesto, quest’operazione non è sempre indice dell’avvenuta comprensione dell’instabilità costitutiva che caratterizza la disciplina medica rivolta ai tropici. Il parallelo meridione-regioni tropicali e subtropicali, meridione-mediterraneo, risulta possibile, in molti casi, solo perché al sud della penisola è assegnato il posto di “residuo” da correggere nell’Italia unificata.
La definizione di ciò che la “tropicalità” racchiude in termini medici è oggetto di continue discussioni da parte degli specialisti coinvolti nell’espansione coloniale: è una linea che, secondo l’andamento della politica coloniale e degli orientamenti degli autori stessi, viene continuamente spostata a comprendere le sole colonie del Corno d’Africa, tutti i possedimenti italiani, l’impero etiope, le colonie delle altre potenze europee, ecc.
«Nella colonia libica - scrive nel 1926 il colonnello medico Giovanni Grixoni - oltre alle malattie cosmopolite se ne osservano altre annoverate fra quelle proprie dei paesi caldi, per quanto alcune abbiano acquistato diritto di cittadinanza nella costa settentrionale dell’Africa ed in tutte le regioni europee specchiantisi nel Mediterraneo»10.
Figlia della “rivoluzione” pasteuriana e della sua pretesa di costituire l’avvio della medicina moderna11, la medicina tropicale - scienza “particolare” - facilmente dimenticherà le radici
comuni della medicina mediterranea, a favore di una gerarchizzazione delle conoscenze che si tradurrà in gerarchizzazione degli spazi. Il Mediterraneo (libico) verrà così sospinto verso i “tropici” nonostante l’ammissione, sempre presente negli studi medici, di similarità climatica
8 Charles Louis Alphonse Laveran (1845-1922), medico militare francese. Le sue ricerche sulla natura
parassitaria della malaria costituirono un grande stimolo per i medici italiani impegnati nello studio eziologico della malattia. H. Power, La seconda rivoluzione scientifica: scienze biologiche e medicina. Medicina tropicale, in Storia delle Scienze, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2006.
9 Per la centralità dei meccanismi di contrapposizione culturale nella costruzione dell’identità nazionale italiana
si veda M. Nani, Ai confini della nazione. Stampa e razzismo nell’Italia di fine ottocento, Carocci, Roma 2006.
10 G. Grixoni, Geografia medica ed igiene dei nostri possedimenti coloniali, cit., p. 2014. 11 R. Waast (dir.), Les Sciences Hors d’Occident au XXème Siècle, cit.
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tra le propaggini sud dell’Italia e la costa libica; e al clima della colonia italiana saranno assegnati gli stessi caratteri deterministici che la letteratura medica riserva ai territori “tropicali”12.
Delineando con maggior chiarezza alcuni tratti della produzione medica di fine ottocento e prima metà del secolo, si cercherà di mostrare quale peso quest’operazione di “definizione” spaziale assuma nel quadro dei processi di razzializzazione. Le fonti mediche forniscono infatti un punto di vista privilegiato per osservare quali concezioni razziali fossero operanti nella scienza e nella cultura italiana negli anni dell’avventura coloniale.
A differenza dei coevi studi di antropologia, le pubblicazioni scientifiche dei medici coloniali difficilmente trattano esplicitamente o in modo insistente, prima degli anni trenta, di classificazioni razziali. Più frequentemente i medici operanti nei territori d’oltremare affidano a categorie ampie e meno connotate - quali “indigeni” e “tropici” - il compito di istituire una linea di confine tra contesto coloniale e madrepatria. Ciò non vuol dire che questi testi, come gli atteggiamenti dei medici in colonia, siano perciò a riparo dal razzismo. Il mancato ricorso a terminologie di matrice antropologico-positivista non costituisce di per sé un elemento sufficiente per determinare l’estraneità di un campo del sapere al “tema della razza”: «il razzismo - scrive Nani riprendendo Memmi - non abbisogna di categorie e concetti particolarmente raffinati per entrare a far parte del ‘senso comune’»13. L’assenza di un
vocabolario esplicitamente razzista suggerisce piuttosto di cercare questo tema nei meccanismi di costruzione delle gerarchie e delle divisioni tra coloni e colonizzati, invece che concentrare l’analisi sulla comparsa o meno del termine “razza” nei testi dei medici tropicalisti.