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Punto di partenza per uno studio del razzismo italiano sono le tesi di Renzo De Felice. L’attenzione di cui queste ultime sono oggetto da parte degli studi più recenti è dovuta all’influenza che il pensiero di De Felice ha esercitato in campo storiografico come alla convergenza che si è verificata tra il giudizio dello storico e il discorso pubblico a lungo dominante sull’esperienza coloniale e sulla legislazione antiebraica.

Come si legge nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (Einaudi 1961), secondo De Felice non è possibile giudicare il razzismo “spirituale” mussoliniano con lo stesso metro con cui era stato valutato, e condannato, il razzismo di stampo biologico del nazismo. Secondo tale prospettiva, non si sarebbe potuto parlare di vere e proprie concezioni razziste operanti nell’ideologia fino alla conquista dell’Etiopia e, anche dopo il 1936, la “svolta” razzista e

12 Questa operazione appare in modo evidente dalle pagine dell’Annuario delle colonie italiane del 1931, che

riserva, come ogni anno, una sezione alla descrizione delle condizioni sanitarie della Tripolitania: «Il clima [della Tripolitania] è generalmente salubre» - ma per i «cospicui scarti d’umidità, gli sbalzi di temperatura improvvisi e la frequenza dei venti meridionali» provoca «cefalee e disturbi nervosi in genere». Ciò nonostante «le condizioni sanitarie della Tripolitania costiera [...] [sono] pressoché uguali a quelle del litorale siculo». Istituto coloniale fascista, Annuario delle colonie italiane, Roma 1931.

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antisemita, istituzionalizzata dalla normativa coloniale del 1937-1940 e dalle leggi del 1938, andava ricondotta a motivazioni di carattere eminentemente politico (le necessità dell’imperialismo, l’alleanza con la Germania). Il razzismo appariva così una ristretta parentesi nella storia nazionale, un comportamento non radicato nella coscienza italiana: assunti difficili da smentire in un contesto nazionale dominato dalla rimozione del passato coloniale e dei crimini commessi dal fascismo, a riparo inoltre dai flussi migratori che l’Italia avrebbe conosciuto, a differenza delle altre nazioni europee, solo negli anni ottanta.

Come ha sottolineato Annalisa Capristo, questo paradigma è stato progressivamente sottoposto a revisione e, negli ultimi anni, «il peso avuto dal razzismo e dall’antisemitismo nel pensiero di Mussolini e nella politica fascista, nonché il ruolo svolto dagli intellettuali e dagli scienziati nell’elaborazione di un’ideologia razzista “autoctona”, e nella politica persecutoria messa in atto dal regime, sono diventate questioni assai dibattute»14. A partire dalla mostra

realizzata a Bologna nel 1994, La menzogna della razza, si sono infatti moltiplicati gli studi che hanno preso in esame il razzismo come fenomeno di lunga durata della cultura italiana, pur ribadendo l’estraneità di tali concezioni da quelle elaborate in ambito tedesco.

A differenza del taglio che la storiografia successiva adotterà, l’iniziativa del 1994 costituiva in realtà il punto d’approdo di una vasta ricerca promossa dal Centro Furio Jesi sulle diverse e molteplici forme in cui il razzismo fascista si era incarnato e sui canali che ne avevano determinato la diffusione. L’esposizione raccoglieva materiale sulla propaganda antisemita e sulla circolazione di stereotipi antiebraici nella stampa e nella letteratura nazionale, ma comprendeva anche testimonianze del razzismo coloniale, degli atteggiamenti persecutori messi in atto nei confronti di omosessuali e popolazioni zingare e documentava l’universo concentrazionario costruito dal fascismo nei territori di conquista15.

A partire da quell’anno, maggiore attenzione è stata riservata però, come si è già sottolineato, al nodo scienza-politica-razzismo16. Pur nella diversità di tagli, i lavori pubblicati negli ultimi quindici anni hanno fatto emergere come la scienza italiana non sia stata affatto estranea alla preparazione di un terreno culturale favorevole al razzismo e all’antisemitismo, e come alcune direttive del fascismo (la politica demografica, la legislazione razziale) abbiano trovato l’adesione di parte del mondo accademico e del movimento eugenetico. È questa la prospettiva adottata dai due volumi pubblicati, tra 1998 e 1999, da Giorgio Israel e Pietro Nastasi da una parte e da Roberto Maiocchi dall’altra. Pur con esiti differenti, entrambi gli studi si sono interrogati sull’esistenza di una tradizione “italiana” di razzismo scientifico e

14 A. Capristo, Il Ventennio fascista. Scienze e razzismo, in di C. Pogliano, F. Cassata (a cura di), Storia d’Italia, Annali XXVI. Scienze e cultura dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2011, p. 242.

15 La forma della mostra era stata scelta con l’intento di assicurare all’iniziativa un impatto che una

pubblicazione accademica non avrebbe potuto raggiungere. È stato comunque edito un catalogo dell’esposizione, a cura del Centro Studi Furio Jesi: La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e

dell’antisemitismo fascista, Grafis, Bologna 1994; la mostra è stata replicata qualche anno più tardi: cfr. L’offesa della Razza. Razzismo e antisemitismo dell’Italia fascista, a cura di R. Bonavita, G. Gabrielli, R. Ropa, Istituto

per Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia Romagna, Pàtron Editore, Bologna 2005.

16 Non si seguirà qui il filone del razzismo antiebraico, che ha raccolto ugualmente l’attenzione degli storici

italiani a partire dalla fine degli anni ottanta. Su antisemitismo e legislazione razziale si veda: M. Sarfatti, Gli

ebrei nell’Italia Fascista, Einaudi, Torino 2000. Per le radici della persecuzione degli ebrei nell’antigiudaismo

cristiano cfr. M. Ferrari Rubini, Le radici del male. L’antisemitismo in Germania: da Bismarck a Hitler, Il Mulino, Bologna 2001.

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sulla vicinanza sempre crescente durante il fascismo tra scienza e agenda politica:

il razzismo italiano non può essere visto come un’invenzione strumentale del fascismo, avulsa dalla nostra cultura. Le tesi esposte nel manifesto ebbero sì quel carattere del tutto fittizio, ma i motivi più profondi e efficaci sono già presenti in tradizioni radicate della cultura italiana. Esso fu un razzismo “scientifico”, non in senso epistemologico ma sul piano socio-culturale: esso ebbe l’appoggio di svariati scienziati, appoggio non opportunistico ma dettato da consonanze17.

La ricerca di Claudia Mantovani, edita nel 2004, Rigenerare la società, si attesta su posizioni differenti. La studiosa assume un’ottica di lungo periodo mostrando come il razzismo fosse implicito già nella letteratura scientifica di fine ottocento, rifiutando dunque il modello che presuppone uno scivolamento dell’eugenetica verso le forme più aberranti della prassi persecutoria fascista. La persistenza del tema della “razza” nel «senso comune scientifico»18,

anche nella seconda metà del novecento, è stato poi analizzato da Claudio Pogliano nel volume L’ossessione della razza. Antropologia e genetica nel XX secolo (Pisa 2005).

Sul razzismo coloniale si è concentrata l’attenzione della storiografia solo negli ultimi anni, di pari passo con la messa in discussione del mito del “bravo italiano”, del conquistatore pacifico e compassionevole, migliore degli altri colonizzatori europei19. La maggior parte degli studi

ha privilegiato un’ottica di breve periodo, limitando l’indagine agli anni della legislazione razziale o al periodo fascista.

Il ritardo italiano costituisce un riflesso, in realtà, di un ritardo internazionale. Gli studi sul razzismo europeo hanno difficilmente preso in considerazione, se non in anni più recenti, il peso che l’esperienza coloniale ha avuto nella «genesi del razzismo moderno»20. Le ragioni di questa omissione vanno ricercate nell’impostazione stessa degli studi sul razzismo che hanno privilegiato le forme classiche della discriminazione occidentale - antigiudaismo e antisemitismo - o meglio, come si cercherà di mostrare, un’ottica di forme: la convinzione cioè che non vi sia una logica unitaria che presiede alle diverse manifestazioni che l’ideologia razzista ha conosciuto nel tempo.

L’idea che il razzismo moderno sia il prodotto di più esperienze storiche fortemente legate e intrecciate fra loro - quali l’antigiudaismo e l’antisemitismo, la discriminazione dei popoli colonizzati, il sessismo, l’opposizione di classe, il controllo della devianza – ha fatto fatica ad affermarsi nell’orizzonte della ricerca storiografica. L’esempio più significativo e influente di quest’impostazione centrata sul filone dell’antigiudaismo e antisemitismo è il volume di George Mosse, Toward the final solution21. Eppure, come ha scritto Nicola Labanca, si potrebbe facilmente dimostrare come la discriminazione dei sudditi coloniali «abbia interagito e talora persino modellato le forme ideologiche del disprezzo verso gli Altri rivolte contro gli

17 R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, cit., p. 322.

18 M. Nani, Il lungo addio di un’ossessione scientifica, «Il Manifesto», 17/08/2005.

19 Cfr. D. Bidussa, Il mito del bravo italiano, Il saggiatore, Milano 1994; F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Editori Laterza, Roma-Bari 2013.

20 N. Labanca, Il razzismo coloniale italiano, in Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870- 1945, a cura di A. Burgio, Il Mulino, Bologna 1999, p. 152.

21 Stessa impostazione si ritrova nei volumi di Léon Poliakov e di Ashley Montagu. Cfr. L. Poliakov, Il mito ariano. Saggio sulle origini del nazismo e dei nazionalismi, Editori Riuniti, Roma 1999; A. Montagu, La razza. Analisi di un mito, Einaudi, Torino 1966.

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ebrei»22. Secondo questa prospettiva si sono sviluppati invece gli studi di quella che lo storico

del colonialismo italiano ha definito la «scuola del 1492», l’insieme di autori cioè che, guardando in modo più o meno manifesto ai pensatori della decolonizzazione, hanno sottolineato la «rilevanza storica» del razzismo coloniale23.

Questa interpretazione pone l’accento non più sul ruolo che le elaborazioni sette-ottocentesche del pensiero scientifico-teorico hanno avuto nel far emergere l’ideologia razzista novecentesca ma sul peso che l’esperienza concreta della dominazione coloniale riveste come “serbatoio” di comportamenti e pratiche razziali. Lo spostamento attuato dalla scuola del 1492 è dunque di tipo geografico e cronologico: l’attenzione è diretta verso la sponda atlantica e sulle radici cinque-seicentesche del razzismo moderno. In particolare, secondo Immanuel Wallerstein, la discriminazione razziale è pensata come corollario dello sfruttamento dei territori extraeuropei e dell’ideologia capitalistica, come legittimazione dunque di una gerarchia in primo luogo economica e geopolitica.

Il razzismo non significa solo avere un atteggiamento di disprezzo o paura nei confronti degli appartenenti ad altri gruppi definiti da criteri genetici (come il colore della pelle) o da criteri sociali (appartenenza religiosa, modelli culturali, preferenza linguistica). Il razzismo implica questo disprezzo e questa paura, ma è molto di più. Disprezzo e paura sono elementi secondari rispetto a ciò che rappresenta la pratica del razzismo nell’economia del mondo capitalistica24.

E ancora:

la convinzione che certi gruppi fossero superiori ad altri […] si è sempre concretizzata dopo che questi gruppi avevano assunto un posto all’interno della forza lavoro, e non prima. Il razzismo è sempre venuto post hoc. Quelli che sono stati economicamente e politicamente oppressi sono stati dichiarati anche culturalmente “inferiori”25.

«Dal livello delle ideologie» si è dunque passati al livello «della politica e dell’economia del razzismo»26, un passaggio in cui si può scorgere l’influenza del pensiero di Albert Memmi27

per l’attenzione che lo scrittore tunisino ha riservato, nel suo esame del razzismo, ai comportamenti discriminatori piuttosto che alla coerenza di teorie ideologiche della razza, al momento del dominio coloniale e della convalidazione di gerarchie di «privilegio» esistenti in colonia rispetto all’importanza delle classificazioni razziali del pensiero scientifico.

Anche Hannah Arendt, nel 1951, notava come senza le esigenze dell’imperialismo, difficilmente le teorie della razza sorte nell’ambito dell’aristocrazia francese con Boulainvilliers, Thierry, Guizot e successivamente diffusesi con gli scritti di Gobineau e Chamberlin e dell’antropologia otto-novecentesca, avrebbero potuto dar vita a una ideologia, cioè ad una concezione unitaria capace di orientare la pratica offrendo spiegazioni esaustive e

22 Cfr. N. Labanca, Il razzismo coloniale, cit., p. 151.

23 G. M. Fredrickson, Breve storia del razzismo, Donzelli, Roma 2005; E. Balibar, I. Wallerstein, Razza, nazione, classe. Le identità ambigue, Edizioni associate, Roma 1991.

24 Ivi, pp. 45.

25 I. Wallerstein, Il capitalismo storico, Torino, Einaudi 1983, p. 62. 26 N. Labanca, Il razzismo coloniale, cit., p. 145.

27 Cfr. A. Memmi, Il razzismo. Paura degli altri e diritti della differenza, Costa&Nolan, Genova 1989; Id., Ritratto del colonizzato e del colonizzatore, Liguori editore, Napoli 1979.

54 semplificate della realtà.

Solo alla fine del secolo [con la conquista dell’Africa] le teorie razziali venne prese sul serio, come se fossero realmente il frutto della ricerca scientifica o un importante contributo intellettuale. Fino allora, fino al fatale decennio della conquista dell’Africa, esse avevano fatto parte della folta schiera delle libere opinioni che, nel quadro del liberalismo, si contendevano il consenso pubblico.

[…] É estremamente probabile che le teorie basate sulla razza sarebbero scomparse a tempo debito insieme con le altre opinioni irresponsabili del XIX secolo, se la corsa alla conquista dell’Africa e l’era dell’imperialismo non avessero esposto l’umanità europea a nuove emozionanti imprese. La politica imperialista avrebbe richiesto l’invenzione del razzismo come unica “giustificazione” possibile, come scusa per le sue imprese, anche se nessuna teoria razziale fosse mai venuta alla luce nel mondo civile28.