Accanto all’approccio discontinuista sopra delineato, che aveva mutuato dalla scuola delle Annales una visione del tempo frazionato in epoche incommensurabili tra loro20 - epoche a cui lo storico si avvicina con lenti ogni volta diverse -, si sviluppa, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, un orientamento di studi più attento alla pratica “quotidiana” della scienza e meno disposto ad affidare a una sintassi fatta di paradigmi, rivoluzioni, rotture epistemologiche la lettura delle dinamiche di sviluppo della conoscenza. È dalla scuola di Edimburgo - rappresenta da Barry Barners e David Bloor21 - e da quella di Bath - con Henry Collins -, che tale indirizzo di studi prende forma, muovendo una critica nei confronti della visione della scienza proposta dall’epistemologia francese e, successivamente, dalle prospettive della sociologia americana (Parsons, Merton22). Attraverso lo studio delle
controversie, Bloor, Barnes e Collins mettono in discussione il postulato che aveva retto le interpretazioni classiche di storia della scienza - la gerarchia tra enunciati veri e falsi, i primi unico possibile oggetto di studio dell’espistemologia -, sottolineando come gli esiti delle ricerche siano il prodotto delle interazioni tra i singoli scienziati e della loro forza sociale, più che l’esito del processo di disvelamento della verità. Sono dunque i fatti sociali a produrre la
credenza in una teoria o scoperta, che diviene egemone in forza della attività concreta, pratica,
degli individui coinvolti nella produzione del sapere.
Con la pubblicazione, tra 1979 e 1984, di Laboratory Life e di Les microbes: guerre et paix, Bruno Latour sposta l’attenzione dello storico su un terreno ancor più materiale: quello del laboratorio, dell’esame cioè della prassi quotidiana dello scienziato. Analizzando, nel volume scritto assieme a Steve Woolgar, le operazioni condotte all’interno di un laboratorio di biologia della California, Latour fa emergere un’immagine della scienza ulteriormente rinnovata, intesa come impresa di fabbricazione, luogo in cui le cose divengono fatti e dove si negozia, attraverso una pratica agonistica, conflittuale, la credibilità di un enunciato23. Con l’opera dedicata al lavoro di Pasteur, lo sguardo di Latour si allarga ulteriormente a comprendere l’intera società: non è più solo il laboratorio il luogo in cui si rintracciano le dinamiche della scienza ma l’intero corpo sociale con le sue riprese multiple dei concetti scientifici e le sue operazioni di volgarizzazione (Latour parla in questo senso di “infedeltà”24). L’efficacia della scienza, per lo studioso, si misura, contrariamente a quanto
pensava Kuhn, al di fuori della comunità scientifica. L’opera di Pasteur è in questo senso paradigmatica: la legittimità del metodo di vaccinazione, da lui stesso messo appunto, deriva dalla sua abilità nel mettere in scena, davanti ad un pubblico di “profani”, i risultati della sua
20 A. M. Moulin, How to write the history of modern surgery in the Arab and Muslim world? Methodological problems and epistemological issues, in «Majalleh-ye Târikh-e Elm, Tehran», 5 (2006), pp. 7-27.
21 D. Bloor, Knowledge and Social Imagery, University of Chicago Press, Chicago 1976; Id., Wittgenstein. A Social Theory of Knowledge, Columbia University Press, New York 1983.
22 R. K. Merton, Scienza tecnologia e società nell’Inghilterra del XVII secolo, Franco Angeli, Milano 1975; Id., La sociologia della scienza, Franco Angeli, Milano 1981; T. Parsons, Il sistema sociale, Edizioni di Comunità,
Torino 1996.
23 B. Latour, S. Woolgar, Laboratory life: the social construction of scientific facts, Sage, Beverly Hills 1979; Id, La Scienza in azione. Introduzione alla Sociologia della Scienza, Edizioni di Comunità, Torino 1998.
42
ricerca, entrando in interazione con la società e, soprattutto, con i suoi bisogni25.
Per la sua attenzione alla prassi quotidiana che accompagna il formarsi della conoscenza, la “filosofia” di Latour costituisce dunque un’antropologia della società occidentale, o meglio, un’antropologia di ciò a cui la società occidentale riserva una posizione di priorità: la scienza. Ciò che sembra a Latour interessante della disciplina antropologica, e soprattutto del suo metodo (non dei suoi concetti, «difficilmente riconvertibili»), è la capacità di cogliere le questioni fondamentali delle società (religione, tecnica, diritto), a cui fa seguito però l’incapacità di osservare per intero il mondo occidentale contemporaneo considerato, secondo Latour, per le sole «questioni residuali arcaiche», rimaste «ai margini della nostra cultura»26. Di qui il progetto di costruire un’antropologia della pratica scientifica, rifacendosi agli studi di Marc Augé, ma anche di Michel Serres e Francois Dagognet. Un’antropologia che sia “simmetrica”, e cioè che non tratti in modo differenziale la nostra società dalle altre e sia capace, allo stesso tempo, di concettualizzare adeguatamente il rapporto con gli altri.
Le riflessioni di Latour sono parte di un più ampio processo, in atto dagli anni settanta e che coinvolge l’intero ambito delle scienze umane, di spostamento dell’analisi «des grandes régularités et régulations» allo studio delle situazioni27, che è anche un passaggio dall’esame della discontinuità a quello della contingenza. Per effetto di queste trasformazioni d’ordine teorico, l’esame della scienza si è gradualmente spostato su un terreno sempre più materiale: sociale (scienza intesa come istituzione e non come sistema teorico) e pratico (scienza come
fare, studio dei prodotti non finiti). Il suo principio di sviluppo non è più né unico né
semplice, come si trattasse di una entità dotata di logica propria, ma è da ritrovare in un complesso sociale “situato”: il procedimento scientifico si trova così dissolto in una molteplicità di versioni e funzioni che contraddicono l’immagine essenzialista che il neopositivismo, l’epistemologia francese e la sociologia di Kuhn riservava alla scienza. Una tendenza al superamento delle strutture a favore delle interazioni tra attori consapevoli e produttori di strategie, in opposizione al pensiero di Bourdieu, che con la nozione di campo affidava ancora alla struttura un ruolo nella definizione dell’agire umano, superando la scala microsociologica in cui si muovono le analisi della scienza “situata”28. L’esame del sociologo
era infatti orientato verso lo studio delle condizioni strutturali che indirizzano le pratiche di scienza in opposizione alla possibilità che, in un ambiente gerarchizzato e conflittuale quale è il campo culturale, le interazioni coscienti degli scienziati potessero costituire, di per sè, l’origine di una credenza dominante.
Posizioni recenti hanno portato avanti il processo di dissoluzione della scienza come entità, mantenendo vivo però l’interesse per gli aspetti globali, sul piano geografico, e universali su quello filosofico, della scienza.
25 B. Latour, Les microbes. Guerre et paix, A. M. Métailié, Paris 1984.
26 B. Latour, F. Ewald, Disinventare la modernità. Conversazioni con François Ewald, Elèuthera, Milano 2016,
pp. 7-8.
27 D. Pestre, Introduction aux science studies, La Decouverte, Paris 2006, pp. 3-9.
28 Sulla nozione di campo, P. Bourdieu, La spécificité du champ scientifique et les conditions sociales du progrès de la raison, in Id., Science et structure sociale, in «Science et structure sociale», VII, 1 (1975).
43
Influenzato dagli orientamenti del pratical turn29 dello spatial turn30, Christian Jacob, nella
ricerca dedicata ai Lieux de savoir ha operato una nuova scomposizione del termine “scienza”31. All’esame di quest’ultima, Jacob sostituisce quello dei “saperi”. Le scienze, per
Jacob, non sono che una forma particolare di sapere, un sapere tra gli altri che oggi possiede nella cultura occidentale uno statuto privilegiato. L’operazione attuata da Jacob è chiara: declassare la scienza, posizionandola nel quadro generale della produzione della conoscenza, intesa come insieme di saperi letterari e scientifici, in un superamento della settorialità della cultura, della gerarchizzazione tra pratica e elaborazione intellettuale e in un’ottica che assume la continuità come lente interpretativa privilegiata. Scegliere di parlare di saperi, e non di scienza, significa fuoriuscire da una lettura storiografica consolida centrata sulle rivoluzioni scientifiche dell’età moderna, ed orientata verso un approccio discontinuista alla storia della scienza32.
Così configurato il sapere accoglie al suo interno le conoscenze umanistiche, politiche, la produzione giuridica, artistica, ma anche i saperi pratici, costruiti nella quotidianità. Jacob parla di «pratiques savantes», non come una giustapposizione di atti singoli, abilità diverse ed eclettiche che ogni persona mette in gioco al momento di produrre sapere, ma come un insieme omogeneo, un continuo. Il sapere è qui un universale che presenta ancoraggi e configurazioni particolari.
Con la sua insistenza per i luoghi di produzione, la prospettiva della storia dei saperi consente di collocare i contenuti della scienza all’interno di un paesaggio intellettuale e sociale ampliato osservando le dinamiche di sviluppo della conoscenza in termini di circolazione, trasferimenti e «fondements partagés» all’interno dello spazio sociale osservato attraverso dei «jeux d’échelle»33.
In questo quadro teorico, quali specificità presenta il discorso medico nel quadro dei saperi? Il riferimento agli studi di Canguilhem condurrà, nel prossimo paragrafo, all’esame delle prospettive elaborate dalla filosofia della medicina, consentendo di chiarire l’ottica interpretativa adottata per lo studio delle fonti di medicina tropicale prodotte in Italia tra la fine del XIX secolo e la metà del XX secolo.