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La meta senza il mezzo

Nel documento Il viaggio nel mondo degli oggetti (pagine 61-64)

Il trasporto è una delle principali innovazioni del- la storia umana: personale, animale o tecnologico, ha prodotto effetti tali da renderne impossibile la rinuncia. Se ciò è vero per la rivoluzione industria- le, lo è ancor di più per quella digitale: l’immate- rialità del software trasmette istantaneamente le informazioni, hardware e big data trasformano lo po a e o fi ico efi e o o o o o i viaggiare. Automazione, auto a guida autonoma, mobilità elettrica, gestione dinamica dei mezzi, de- terminano la nascita del cosiddetto “terzo luogo”. Il mezzo di trasporto non è più oggetto passivo da condurre individualmente, ma strumento attivo, che lascia spazio e tempo per occuparci d’altro. Anche il movimento dei beni, accessori di esisten- ze sempre meno radicate, cambia: robotica e droni determineranno mobilità sempre meno complesse. Stabilire se e come questo accadrà è compito del design e non solo: la semplessità implica che più sa- peri co erga o el efi ire li ee g i a proge ali consapevoli.

travel design

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Amazon Prime Air, drone per la consegna a domicilio, Amazon, 201 .

Nine ot mini, veicolo autobilanciato con stabilizzazione giroscopica,

Segway, 201 . Pokemon Go, gioco VR.

(Credits: Pixabay)

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meta è tale solo nel momento in cui viene raggiunta, privata del rito caratteristico del viaggio analogico. Lo stesso spostamento si arricchisce di attività prima riservate ad altri momenti, come già accade peraltro in quasi tutte le nostre azioni quotidiane in cui non siamo più con- centrati solo sull’hic et nunc di una singola attività, presi dalla comunicazione pervasiva dei dispositivi che abbiamo spesso in mano. Il veicolo a guida autonoma non sarà più un oggetto da condurre concentrando l’attenzione sulle necessità del percorso di essere seguito rispettan- done personalmente le regole. Sarà invece il veicolo stesso a provvedere, lasciando a noi modo e tempo di occuparci d’altro: il percorso, da fruire in modo diverso, ma anche il nostro lavoro, lo svago, la conversazione con chi viaggia con noi o è lontano. Un paradigma nuovo, che oltre a determinare nuove condizioni del viaggiare produce come effetto quello di svincolarci psicologicamente dall’oggetto veicolo, il quale, divenuto solo strumento, può essere più facil- mente condiviso[2], delocalizzato, trasformato, adeguato a nuove necessità, ed infine sganciato dalla nostra sfera personale, per acquisire nuovi valori strumentali, già adottati proficuamente in altri ambiti. Possiamo pertanto ragionevolmente ipotizzare che si arrivi ad un punto in cui non ci servirà possedere più alcun veicolo, quanto disporre di piattaforme da cui attingere i mezzi con cui raggiungere la meta, liberandoci di essi una volta giunti a destinazione: car e bike sharing sono primi esempi di una trasformazione che porterà molto probabilmente alla definitiva obsolescenza i nostri garage personali e le autorimesse e ciò che fino ad ora erano destinati a contenere, con tempi di fermo veicolo del tutto illogici.

Tale condizione è poi estendibile a tutto il comparto degli spostamenti, anche di beni, con- nessi a vite sempre meno radicate in luoghi permanenti: robotica, droni, automazione della gestione degli oggetti che supportano la nostra giornata potranno essere determinanti per produrre nuovi paradigmi, con una mobilità sempre meno complessa perché meno vinco- lata ai limiti dello spostamento nostro e di ciò che ci serve per vivere. Infatti, se ciò che già accade con la consegna degli acquisti online (Amazon Prime Air Delivery, 2016) oppure nella gestione esclusivamente robotica della logistica (Amazon, Ikea, Nike, 2016) è concreto, allora manca poco al momento in cui potremo viaggiare quasi privi di bagaglio, al limite dotati solo dello smartphone, gestendo non solo il trasporto dei nostri beni, ma addirittura rinuncian- dovi, potendo replicare quanto necessario direttamente alla destinazione, per poi provvedere a dismissione e recupero ad uso completato. Lo sviluppo di nuove tipologie di strumenti di trasporto appare peraltro decisamente avanzato, e le preconizzazioni di letteratura e cinema

di fantascienza sembrano sempre meno fantasiose, se anche la mobilità aerea personale a pilotaggio autonomo sarà concretamente disponibile (Airbus, 2017), affiancandosi a quella terrestre.

L’adozione diffusa del digitale ha inoltre implicato fin da subito la radicalizzazione del dua- lismo reale/virtuale: infatti dopo la prima fase di adozione globale avvenuta durante l’ultimo ventennio del secolo scorso, con lo sviluppo delle applicazioni mobile si è verificato nel pri- mo decennio del XXI secolo un ritorno alla fisicità del rapporto con gli oggetti e gli spazi vi- tali. Con l’internet of things, e poi l’internet of everything[3] ci si è resi conto che l’abbandono della vita fisica non è, ancora, alle porte. Tuttavia proprio quando si pensava di aver raggiunto una maggiore maturità digitale, e consapevoli si stava “tornando” a vivere nel mondo fisico, si è rilevata una nuova proliferazione di strumenti che permettono un’ulteriore astrazione, fornendoci nuovamente la possibilità di viaggiare in mondi completamente virtuali (Oculus Rift, Google Cardboard), oppure composti da elementi virtuali che si inseriscono nel nostro mondo reale (A.R., Pokemon Go, 2016). Evidentemente noto è il fatto che questi fenomeni di ritorno ai mondi virtuali siano certamente forieri di rischi, contenuti nelle conseguenze psicologiche e comportamentali determinate dal distacco dalla realtà del mondo fisico e delle persone che lo abitano. Tuttavia queste applicazioni tornano ad essere utili nello spostamen- to, con l’aggiunta di supporto informativo (Google Maps, Apple Maps) e strumenti culturali altrimenti impensabili in ambito analogico (MOMA Virtual Tour, 2016). Oltre a ciò, non pos- siamo trascurare il valore anche solo didattico che tali applicazioni contengono, permettendo la visita virtuale, dinamicamente sociale ed interattiva di luoghi lontani che potrebbero, per molti, restare irraggiungibili per tutta la vita.

L’ultimo aspetto, che tra l’altro appare essere uno dei più rilevanti, non solo dal punto di vista tecnologico, consiste nella profonda trasformazione che il mercato dello spostamento e del viaggio sta subendo grazie alle piattaforme mobile. Tradizionalmente si era infatti costretti a fare uso di professionalità specifiche per poterci avvalere dei servizi necessari all’organizzazio- ne ed al funzionamento del viaggio, mentre oggi tale assetto vacilla sotto l’azione capillare di strumenti alla portata di tutti: Uber, Booking, The Fork, Bla Bla Car, Kayak sono solo minimi esempi di applicazioni in grado di stravolgere le modalità del viaggio. Prenotare una camera, spostarsi dentro e fuori città, trovare un ristorante, acquistare biglietti per un museo: ormai quasi ogni aspetto della nostra vita può trarre vantaggio da una app. Tale disponibilità, che

[1] Auto intelligenti, veicoli connessi alle infrastrutture, emissioni zero, ricarica continua, accesso a pedaggio, connessione

con altri veicoli e con le aree extraurbane (I sei passaggi che cambieranno le nostre abitudini al volante, Alberto Sarasini, gennaio 2017).

[2] I servizi di car sharing più diffusi in Italia, car2go e Enjoy, hanno certamente mostrato le potenzialità di questi strumenti

ma pagano ancora la scarsa integrazione, determinata da logiche commerciali tradizionali, non applicabili con obiettivi di innovazione di lungo periodo.

[3] Il CES 2017 ha definitivamente conclamato l’adozione globale dell’Internet delle cose, con centinaia di prodotti presen-

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non pare affatto mostrare segni di calo, produce effetti sui comportamenti, sulle professioni, sulla società (sciopero tassisti in diversi paesi del mondo, 2015). Inoltre i modi con cui tali fenomeni determinano queste trasformazioni non sono certamente sotto il controllo di chi le subisce poiché la scala di adozione, gli investimenti, le infrastrutture sono sotto la gestione degli attori internazionali che distribuiscono le innovazioni tecnologiche stesse, con Apple e Google leader del settore.

In effetti le implicazioni, su scala globale, relative ad esempio a sicurezza e privacy sono uno dei nodi ancora da sciogliere: chi gestisce le informazioni relative ai nostri spostamenti? I vei- coli intelligenti decidono le azioni immediate, ad esempio in caso di rischio di incidente, ma quali scelte vengono adottate? La logica ne imporrebbe alcune che però si scontrano con la logica del trolley problem[4]. E poi ancora, fino a che punto possiamo controllare la diffusione delle informazioni relative alla mia posizione, alle mie soste, ai tempi di percorrenza e pausa? Interessante in questo senso è la possibilità di conoscere molti dei dettagli della giornata di una persona, semplicemente seguendo ciò che condivide sulle piattaforme social: di fatto è possibile in non pochi casi seguirla nei suoi spostamenti semplicemente intersecando i post su Facebook, Twitter, Instagram e altri, fino ad un livello di dettaglio che un qualunque inve- stigatore analogico non avrebbe potuto permettersi, se non con investimenti rilevanti e tempi decisamente più lunghi. Noi possiamo farlo seduti comodamente sul divano, senza spendere un centesimo, del tutto legalmente e senza nessuna autorizzazione preventiva.

Appare pertanto evidente che sia necessario stabilire nuove regole di ingaggio, passando di conseguenza attraverso processi di diffusione di una diversa e più profonda consapevolezza, unico strumento per sdoganare le intelligenze artificiali che si stanno sempre di più diffon- dendo tra noi. Stabilire se e come questo debba accadere è compito certamente del design ma non solo, poiché anche in questo caso la complessità costituita dalle molteplici semplicità implica che più saperi convergano nel definire linee guida di comportamento progettuale inclusivo.

[4] Esperimento mentale di filosofia etica, originariamente formulato da nel 1967 da Philippa Ruth Foot, che applicato al

mondo del trasporto robotizzato mostra i limiti delle attuali capacità di discernimento dell’intelligenza artificiale basata esclusivamente su parametri pre-impostati dal progettista, non potendo quindi decidere chi salvare se non sulla base di dati

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[3] [overstep] [3]

#città #guida #mappa #locativemedia #blankspots

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Dottoranda in Scienze del Design, Università Iuav di Venezia

sara.dotto@gmail.com

References: Vasset, P. (2007). Un livre blanc. Paris: Éditions Fayard. ¶ Paglen, T. (2010). Blank Spots on the Map: The Dark Geography of the Pentagon’s Secret World. NAL. ¶ Pignatti, L. (2011). Mind the Map: mappe, diagrammi e dispositivi carto- grafici. Milano: Postmedia books. ¶ Serres, M. (2013). Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere. [versione Kindle] ¶ Manaugh, G. (2016). A Burglar’s Guide to the City. New York, NY: Farrar, Straus and Giroux.

In una recente serie co-prodotta dalla BBC, la figura di Sherlock Holmes si muove in una Lon- dra contemporanea. Abbandonata la polverosa atmosfera evocata da pipa e lente d’ingrandi- mento, Sherlock si affida per le sue interrogazioni ad un unico oggetto: un telefono cellulare connesso alla rete. La pervasività delle innovazioni tecnologiche nel tempo presente emerge anche dalle sequenze concitate di inseguimenti e fughe, in cui gli itinerari sono rappresentati con l’iconografia delle mappe digitali che rappresentano gli schemi mentali di Sherlock. Il detective possiede infatti una conoscenza enciclopedica delle strade labirintiche di Londra, e non ha bisogno di interrogare quella “scatola cognitiva oggettivata”[1], così definita da Michel Serres. La questione sollevata da Serres sul come si accede al sapere nell’era post-digitale[2] riguarda anche il complesso panorama dei dispositivi cartografici e narrativi attraverso cui si leggono la città e il territorio. Qualche anno fa, ragionando attorno al futuro delle mappe all’interno della conferenza annuale della Royal Geographical Society, Mary Spence, la presi- dente della British Cartographic Society, affermò: “Corporate cartographers are demolishing thousands of years of history – not to mention Britain’s remarkable geography – at a stroke by not including them on maps which millions of us now use every day. We’re in real danger of losing what makes maps so unique; giving us a feel for a place even if we’ve never been there”. Sembrerebbe che la locuzione latina hic sunt leones associata alle vecchie carte geografiche abbia perso senso oggi. Questo è un mondo esplorato in ogni suo punto, dove i movimenti sono tracciati, indirizzati ed anche suggeriti grazie ai locative media. Questo saggio intende mettere in luce alcuni esercizi progettuali che propongono letture e interpretazioni della città inattese e sovversive, capaci di raccontare topografie parallele e nascoste. È un tentativo di dare spazio a una prospettiva radente sulla città, capace di far emergere una filigrana di punti che rimane normalmente sottotraccia. I progetti prendono la forma di un testo, di una app per dispositivi mobili, di un racconto fotografico, etc. Essi costituiscono un affresco, dichiara- tamente incompleto e parziale, rispetto alla vivace e tentacolare produzione contemporanea legata all’impulso di mappare il territorio. Questo fenomeno è investigato in altri testi a cui si rimanda per ulteriori approfondimenti[3].

La prima storia è legata ad un libro, A Burglar’s Guide to the City, scritto da Geoff Manaugh. L’autore, redattore del fortunato BLDGBLOG, fa emergere una mappatura di una città paral- lela, sovrapponibile, che insiste sui punti ciechi, su ciò che non è comunemente visibile. È la città vista attraverso gli occhi dei ladri. Manaugh articola le riflessioni in un testo lungo,

sara dotto

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Nel documento Il viaggio nel mondo degli oggetti (pagine 61-64)