un colpo, un morso o l‟ausilio di un‟arma, si risana grazie alle proprietà meravigliosa della
stessa ferita o per la straordinarietà taumaturgica dell‟amata. Si tratta di un‟immagine
interessante in cui come di consueto la forte capacità espressiva dell‟ossimoro, figura
contrastiva per eccellenza, viene esaltata da Petrarca: egli «non teme la mala affectatio
dell‟ossimoro giacché avverte quanta verità psicologica possa essere veicolata attraverso tale
figura retorica, da altri magari relegata all‟acutum dicendi genus»,
652mostrando, nell‟uso di questa
figura, una consapevolezza tesa ad arricchire l‟espressività e la conoscenza del fenomeno
interiore fino alla profondità. È Ariani a notare come nei Triumphi le catene ossimoriche siano
una vera e propria «continuità tecnica», un «impatto tra gli estremi […] radicale» il quale «non
ammette mediazioni».
653Ma è in questa figura appartenente all‟ambito bellico, così
profondamente opposta nella sua fenomenologia, dove chi ferisce sana (addirittura Rvf 75, 1-2,
«I begli occhi ond‟io fui percosso in guisa / ch‟ e‟ medesmi porian saldar la piaga» oppure in
650 Cfr. POZZI, Petrarca, i Padri e soprattutto la Bibbia, cit.; GIUSEPPE VELLI, Petrarca e i poeti cristiani, «Studi
petrarcheschi», n.s., VI, 1989, pp. 171-178; GIANNARELLI, Petrarca e i padri della chiesa, cit., pp. 393-412; FRANCISCO RICO, Il Petrarca e le lettere cristiane, in Umanesimo e Padri della Chiesa. Manoscritti e incunaboli di testi
patristici da Francesco Petrarca al primo Cinquecento, a cura di Sebastiano Gentile, Roma, Ministero per i Beni
Culturali e Ambientali-Ufficio Centrale per i Beni Librari, le Istituzioni Culturali e l‟Editoria- Rose, 1997, pp. 33- 43.
651 Ho contato quattordici occorrenze più una presenza extra-vagante E, 12 6 (segnalata da SANTAGATA, Commento
al „Canzoniere‟, cit., p. 397 «il cor mi morde e risana»). Queste le occorrenze: Rvf 29, 16; 58, 10; 61, 7; 75, 1; 105, 87;
141, 8; 152, 78; 164, 11; 174, 5-8; Rvf 196, 4; 209, 12; 221, 12; 363, 9. A questo gruppo ho aggiunto anche Rvf 152, 8 il «dolce veneno» del «cor» in quanto, sebbene si tratti di veleno e non di una ferita, essa è comunque legata ad un‟actio, il veleno è comunque un corpo estraneo e nell‟accezione di dolce è compreso almeno il senso di piacere. BETTARINI, Commento ai „Rvf‟, cit., p. 731, come spunto per tale immagine richiama Boezio: «laddove la bella Filosofia vede Boezio pericolosamente nutrito “dulcibus […] venenis” della poesia (Cons., I I)».
652ROBERTO GIGLIUCCI, Oxymoron amoris. Retorica dell‟amore irrazionale nella lirica italiana antica, Anzio, De Rubeis,
1990, p. 53. Per la fortuna del topos negli scrittori succeduti a Petrarca si veda ID., Contrapposti: petrarchismo e ossimoro
d‟amore, cit. Per la diffusione della figura in area romanza si rimanda al commento di SANTAGATA, Commento al
„Canzoniere‟, cit., p. 397; interessanti alcune integrazioni riprese dall‟antologia dei Poeti del Duecento, a cura di G.
Contini, cit., e messe in risalto da SILVIA LONGHI, La caccia e il cervo, in EAD., Forme di Mostri. Creature fantastiche e corpi
vulnerati da Ariosto a Giudici, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 45-67, p. 52 nota 10; «nel sonetto degli imprevisti o della
permuta degli opposti di Giacomo da Lentini, A l‟aire claro ho vista ploggia dare, vv. 9-10 “Ed ho vista d‟Amor cosa più forte: / ch‟era feruto, e sanòmi ferendo”; [I, p. 78] in Jacopo Mostacci, A pena pare ch‟io saccia cantare, vv. 48-50 “como Pelëo non poria guarire / quell‟on che di sua lancia l‟ha piagato / se non [lo] fina poi di riferire”; [I, p. 144] e nel Mare amoroso, vv. 103-108 “ma quella mi fu lancia di Pelùs, / ch‟avëa tal vertù nel suo ferire, / ch‟al primo colpo dava penee morte, / e al secondo vita ed allegrezza: / cosí mi die‟ quel bascio mal di morte, / ma se n‟avesse un altro, ben guerira” [I, p. 491]».
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Rvf 159, 12 «non sa come Amor sana, et come ancide»),
654che la tecnica ossimorica trova la sua
applicazione più abile. Nelle note all‟edizione del Canzoniere da lui curata, Santagata per spiegare
la funzionalità della figura evoca il mito ovidiano della lancia di Peleo (e poi appartenuta a
suo figlio Achille) che colpisce e risana, motivo topico in area romanza
655(basti ricordare
il solo Cavalcanti O tu, che porti nelli occhi sovente). Nella sua fenomenologia, però,
questo colpo doppio fortemente complesso è caratterizzato da una bidirezionalità di
significati, e sebbene i luoghi riportati in nota e nel testo vengono, di solito, accomunati, tra
essi vi sono alcune differenze sostanziali: non sempre compare un‟ arma; a volte la ferita è
provocata dalla mano o dal morso di amore (o di Laura) oppure da un veleno, e forse il mito
della lancia di Peleo non è sufficiente a spiegare la completa derivazione della figura.
Tramite l‟immagine dell‟amore/vulnus/dolor, cioè il concetto per cui un dolore sarebbe
sanabile solo dall‟amante stesso che l‟ha provocato, si può scorgere una seconda radice
semantica che includerebbe la traslatio in un quadro più ampio. La possibilità di un
riscontro con la traditio riguarda lo stesso Ovidio, se si accetta che l‟operazione di collezione
delle ipotestualità non vada esclusivamente condotta su Rem. am., 47-48 o Trist., I 1, 99-100, ma
su un possibile confronto con Heroid., V, e con altri testi medioevali da esso dipendenti: la
stessa Eloisa nelle lettere che raccontano la storia d‟amore più famosa e diffusa del medioevo
(e ben conosciuta da Petrarca), richiamandosi a questa tradizione ricorda come per lei
Abelardo sia «solus es in causa dolendi solus sis in gratia consolandi» (Ep., II 9).
656La
Bettarinia proposito di Rvf 363, 9 «Fuor di man colui che punge et molce» ricorda, inoltre, Job,
V 18, «vulnerate et medetur, percutit et manus eius sanabunt»:
657l‟importanza di questa capacità
di sanare e ferire attribuita alla mano di Dio aggiunge valore al motivo che identifica in una sola
trinità le figure di Amore/Laura/Cristo ed è fondamentale per la ricerca di salvezza implicita
nei Fragmenta; una via, quindi, che tramite questo ossimoro potentissimo genera salute,
elevazione, e salvezza dall‟errore concretizzato attraverso dolor della ferita amorosa. Il dolore è
654 I verbi percuotere e saldare rimandano a una concretizzione di azioni. Il cuore è naturalmente spesso, se non
sempre, ferito in ambito provenzale. Si noti che nella sestina di Arnaut Daniel vi è quasi una comparazione tra interiorità ed esteriorità: al v. 15 il cuore è ferito come se colpito da una verga; ai vv. 23-24 mentre amore entra nel cuore secondo una trasmissione che ha nulla o quasi della fisicità, ecco che il corpo dichiara che amore può spezzarlo come un uomo forte spezza un ramoscello, poco dopo, al v. 28, vi è la totale equiparazione tra cors e cor. La distanza tra le due dimensioni è annullata completamente già da Guittone (XLVIII 165-166) «Trar di cor piaga a gamba om voler dia, / e non da spirto, a corpo assai più manto?». Si ricordi, infine, il non meno importante verso dantesco «Com‟io risurgo, e miro la ferita / che mi disfece quand‟io fui percosso» di Amor, da che convien pur ch‟io mi
doglia (Rime, 53, 52-53).
655 Per alcune attestazioni interessanti d‟area romanza GIGLIUCCI, Oxymoron amoris, cit., p. 48.
656 Ep., II 9, Ad Heloisae suae ad ipsum deprecatoria, in Epistolario, cit. «Quo vero maior est dolendi causa, maiora
sunt consolationis adhibenda remedia, non utique ab alio sed a teipso, ut qui solus es in causa dolendi solus sis in gratia consolandi»; Epistolae duorum amantium «sic omnibus est amor meus insanabilis, tibi autem soli est medicabilis»; Carmina burana, 70, 6 «Si non extinguitur / a qua succenditur / manet inextinguibilis».
657 La BETTARINI, Commento ai „Rvf‟, cit., p. 1601, richiama anche un luogo delle familiari: Fam. XX, 12, 2 «dum sepe
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