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Tecniche di caratterizzazione

5.4 Caratterizzazione morfologica

5.4.1 Microscopia elettronica a scansione (SEM)

La microscopia elettronica si basa sull’interazione tra un fascio di elettroni e la materia. Queste interazioni possono essere elastiche nel caso in cui gli urti avvengano senza perdita di energia, viceversa vengono definite anelastiche.

Il microscopio elettronico a scansione (SEM) è un potente strumento che, sfruttando la generazione di un fascio elettronico ad alta energia nel vuoto, è in grado di fornire svariate

informazioni riguardanti la morfologia della superficie del campione, la composizione chimico-fisica, le difettosità elettriche, le contaminazioni superficiali e i potenziali superficiali.

Alta risoluzione, alti ingrandimenti (fino a 30000x) e una profondità di campo 100 volte maggiore a quella del microscopio ottico a parità di ingrandimento sono le caratteristiche che rendono il SEM uno strumento molto utilizzato per analizzare un materiale da un punto di vista microscopico.

Inoltre, un altro aspetto che rende molto diffuso e frequente l’utilizzo del SEM riguarda la preparazione del campione, la quale si differisce a seconda del tipo di materiale, ma è in ogni caso un processo rapido e semplice.

A seguito di questa operazione preliminare di preparazione, il campione viene posto nell’apposita camera porta-campioni, raffigurata in Figura 5.13, ed è pronto per essere analizzato.

Analizzando il processo da un punto di vista fisico, vi è un cannone elettronico in grado di generare un fascio di elettroni primari con energie comprese nel range 1 – 30 keV. Questo fascio elettronico, caratterizzato da una lunghezza d’onda tipicamente di 10−3 𝑛𝑚, viene attratto dal catodo verso l’anodo, condensato da lenti collimatrici e focalizzato attraverso lenti obiettivo sul campione massivo. A seguito dell’impatto del fascio sul campione, ne consegue l’emissione di elettroni retrodiffusi, secondari, assorbiti e Auger. Gli elettroni vengono quindi inizialmente rivelati da opportuni detectors ed in seguito convertiti in segnali elettrici e quindi in pixels in modo da poter elaborare i dati con un computer. Oltre agli elettroni vengono emessi anche raggi X, i quali vengono raccolti da un rivelatore Si(Li). In Figura 5.14 è illustrata la rappresentazione schematica del SEM.

Figura 5.14. Rappresentazione schematica del SEM.

Il SEM in generale è tipicamente dotato di tre componenti principali quali la sorgente di illuminazione, le lenti elettromagnetiche e le bobine di deflessione. Se le lenti

elettromagnetiche e le bobine di deflessione non differiscono sostanzialmente da uno strumento ad un altro, vi sono diverse possibili sorgenti di illuminazione, le quali differiscono sensibilmente tra loro. Di seguito viene riportata la descrizione della sorgente di illuminazione utilizzata sperimentalmente nei laboratori dell’Università di Padova.

Nello specifico si tratta di un cannone elettronico a filamento di tungsteno con un potenziale di 5-30 kV che agisce per emissione termoionica. Questo tipo di catodo è costituito da un filamento a forma di V con raggio di curvatura di 100 µm, lavora ad una temperatura compresa tra i 2700 K e i 3000 K e ad una pressione di vuoto molto spinto pari a 10−3 Pa. Inoltre ha una vita media di circa 60 ore ed emette una densità di corrente 𝐽𝑐 di 1.75 𝐴

𝑐𝑚2. Per quanto riguarda le lenti elettromagnetiche si ha che esse, in corrispondenza del passaggio della corrente, generano un campo elettromagnetico parallelo al proprio asse che devia il moto degli elettroni. Solitamente per garantire la stessa intensità e simmetria in tutti i punti del campo, viene adattato all’interno della lente un pezzo polare che concentra in pochi millimetri tutta l’intensità del campo e permette di ridurre il diametro del fascio migliorando la qualità dell’immagine ottenuta.

Le bobine di deflessione hanno, invece, l’importante compito di minimizzare le aberrazioni e permettono di effettuare una scansione del fascio lungo un’area del campione.

Come accennato in precedenza, quando il fascio di elettroni primari colpisce il campione, si generano elettroni di diverso tipo e raggi X. Per le ricerche oggetto di questa tesi ci si sofferma sugli elettroni retrodiffusi rivelati tramite il detector BSD (backscattered electron detector) e sugli elettroni secondari rivelati tramite il detector LFD (low vacuum secondary electron).

Dal momento che gli elettroni retrodiffusi hanno energie prossime a quella degli elettroni incidenti, ossia 𝐸0, essi sono in grado di riemergere dagli strati più profondi del volume di interazione (~ 100 nm). Inoltre, dato che sia il coefficiente di retrodiffusione η, sia la distribuzione di energia degli elettroni retrodiffusi dipendono entrambi dal numero atomico Z, si evince che si possono carpire informazioni sulla composizione media del campione. Se

si grafica il numero degli elettroni retrodiffusi in funzione del numero atomico Z, si registra una diretta proporzionalità. Quando l’elettrone interagisce con un elemento con Z elevato, infatti, vi sono molti elettroni negli orbitali e quindi ne consegue che le probabilità di collisione tra l’elettrone incidente della sorgente e l’elettrone degli orbitali sono elevate; pertanto l’elettrone non riesce ad attraversare il campione e viene riflesso.

Il rivelatore degli elettroni retrodiffusi produce un segnale elettrico proporzionale all’energia dell’elettrone incidente ed è tanto più intenso quanto maggiore è il numero atomico degli elementi che compongono il campione. La risoluzione limite di questo rivelatore è di 0.3 micron. Gli elettroni retrodiffusi forniscono dunque informazioni sulla composizione del materiale e vengono pertanto utilizzati per effettuare una micrografia su determinati campioni in modo da distinguere i vari elementi presenti. In particolare si possono verificare la distribuzione, la dimensione e la forma di determinate particelle disperse all’interno della matrice, a patto che vi sia una certa differenza in termini di numero atomico.

Gli elettroni secondari vengono, invece, originati da elettroni primari o talvolta anche da elettroni retrodiffusi, i quali penetrano nella superficie del campione e interagiscono con gli elettroni più esterni degli atomi fornendo loro l’energia sufficiente per liberarli. Questi elettroni liberi vengono pertanto chiamati elettroni secondari e possiedono un’energia di qualche decina di eV. A causa della bassa energia, essi devono essere prossimi alla superficie (1-10 nm) per poter riemergere. A differenza degli elettroni retrodiffusi la loro produzione non dipende dal numero atomico, ma solamente dall’angolo di incidenza del fascio e dall’energia degli elettroni incidenti 𝐸0, in particolare al crescere di 𝐸0 diminuisce il numero di elettroni secondari che vengono generati. Trovandosi in prossimità della superficie, essi forniscono informazioni riguardanti la morfologia della superficie. Il rivelatore, costituito da uno scintillatore e da una griglia a potenziale variabile, ha una risoluzione limite di 20 nanometri. Data l’elevata risoluzione e la non dipendenza da Z, gli elettroni secondari vengono pertanto utilizzati per effettuare una micrografia non su un campione composito, ma direttamente su una polvere. Si possono osservare con grande precisione e nitidezza forma e dimensioni delle singole particelle.

Capitolo 6

Parametri e risultati sperimentali: fase