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Migrazione degli ebrei italiani in Argentina

Negli anni tra il 1938 e il 1939, cominciò ad arrivare in Argentina una immigrazione italiana sui generis: quella degli ebrei emarginati da diversi spazi sociali come conseguenza della campagna discriminatoria messa in atto dal governo fascista. Intuendo che la stessa potesse sfociare in una persecuzione analoga a quella che avevano già sofferto gli ebrei nella Germania nazista, una piccola parte di ebrei italiani cercò rifugio in diversi paesi americani. Questa emigrazione proseguì durante gli anni ’40 e ‘ 41 concludendosi quando lo scoppio della seconda guerra mondiale impedì i viaggi marittimi e soprattutto quando l’occupazione nazista nel 1943 bloccò definitivamente le possibilità di uscire legalmente dall’Italia.

Questa ristretta ondata migratoria fu composta da circa un migliaio di persone che arrivarono in Argentina sotto forma di gruppi familiari con a capo professionisti di mezza età. La maggior parte di loro si stabilì a Buenos Aires e alcuni all’interno del paese, attratti dalle università di provincia.

Secondo Arnoldo Momigliano, nel XX secolo gli ebrei italiani era totalmente integrati nel loro paese, cosa che non deve destare stupore dal momento che alcuni di essi vi si erano radicati duemila anni prima.

Il 17 novembre del 1938 venne emanato il fatidico decreto-legge N. 1728 riguardante le “Disposizioni per la difesa della razza italiana”. In base a tale legge, venivano considerati di “razza” ebraica i figli di genitori ebrei anche se appartenessero ad altra religione, i figli di madre ebrea e padre sconosciuto e i figli di matrimoni misti che avessero fatto mostra di ebraismo. L’appartenenza alla razza ebraica doveva essere denunciata e iscritta nei pubblici registri di stato civile.

Le pesanti restrizioni imposte agli ebrei dalle leggi razziali fecero si che gran parte di loro decidesse di lasciare l’Italia per cercare di ricostruire la propria vita lontano dalle sofferenze e dalle umiliazioni che avevano dovuto subire.

1. Le leggi razziali

“È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano-nordico.”

( “La difesa della razza”, anno I, numero I, 5 agosto 1938, p.2).

Fu la guerra d’Africa a rappresentare il fondamento dell’indirizzo razziale nella politica del fascismo in relazione all’isolamento nel quale la guerra aveva posto l’Italia .

Ma è sicuramente nel corso del 1937 che il regime e Mussolini giunsero alla decisione di dare inizio anche in Italia all’antisemitismo di Stato, ossia alla campagna programmata e sistematica contro gli ebrei.

Per il regime fascista era ebreo chi era nato da genitori entrambi ebrei oppure da un ebreo e da uno straniero oppure da una madre ebrea in condizioni di paternità ignota oppure chi, pur avendo un genitore ariano, professasse la religione ebraica.

Dopo l’entrata in vigore del Regio Decreto Legge n. 880 nel 1937, che vietava il madamismo e il matrimonio degli italiani con i sudditi delle colonie africane, altre leggi di spiccata indole razzista vennero promulgate dal parlamento italiano: le leggi razziali del 1938.

Il 16 febbraio 1938 il regime pubblicò la “Informazione diplomatica” n. 14, con la quale si rendeva pubblica la presa di posizione di Mussolini sulla questione del razzismo contro gli ebrei, rivelando al contempo la sua contraddittorietà negando ed affermando nello stesso tempo la volontà di inaugurare una politica nuova nei confronti degli ebrei. Non furono pressioni tedesche a spingere Mussolini a lanciare la politica antiebraica, ma fu una decisione autonoma del regime fascista nel tentativo di consolidare una congiuntura internazionale che ne agevolasse le mosse, ma sicuramente egli fu condizionato dall’incalzare di una situazione di “generalizzata persecuzione”1 che al di là della Germania, dove dopo l’emanazione delle leggi di Norimberga del 1935 il processo di emarginazione degli ebrei aveva vissuto una radicalità sconosciuta da altri paesi, coinvolgeva non solo l’Austria, destinata a fornire nuovi campi di espansione al razzismo nazista, ma anche la Romani, la Polonia e l’Ungheria.

L’Italia fascista voleva dimostrare di non essere seconda a nessuna ed inventare l’ebreo come nemico fornì l’occasione per individuare il nemico interno e offrire un bersaglio alle componenti più estreme del fascismo, strette nella morsa delle contraddizioni del regime che non era riuscito a risolvere nessuno dei problemi della società italiana, nella quale aveva anzi inserito gli stimoli alla contaminazione razziale. La campagna contro gli ebrei serviva anche per uscire dall’isolamento internazionale in cui era caduta a causa della guerra africana con l’unica via di salvezza verso la Germania nazista. Cosa conteneva l’ “Informazione diplomatica” n. 14? In primo luogo veniva smentito che il regime fascista fosse in procinto di varare una politica antisemita; ciò, tuttavia, non indicava un disinteressamento nei confronti degli ebrei perché anzi confermava la volontà di “ vigilare sull’attività degli ebrei venuti di recente nel nostro paese e di far sì che la parte degli ebrei nella vita complessiva della Nazione non risulti sproporzionata ai meriti intrinseci dei singoli e all’importanza numerica della loro comunità”.2 Ovviamente, negando di voler assumere provvedimenti contro gli ebrei, si poteva dedurre che la volontà del regime fosse quella di affermare una politica basata su una grave forma di limitazione dei diritti degli ebrei. L’intenzione era quella di dare visibilità agli ebrei italiani per poterne affermare l’estraneità alla razza e quindi operarne la segregazione. Al di là dei tentativi di mascherare le sue vere intenzioni, il razzismo fascista mostrò ben presto il suo carattere “razzistico-biologico”.3

Il regime procedeva lungo due percorsi: da un lato preparava concreti provvedimenti normativi per la separazione degli ebrei, dall’altro preparava un testo capace di dar fondamento teorico al razzismo.

Il 12 febbraio 1938, il ministro dell’Educazione nazionale Bottai fu il primo ad anticipare la separazione tra ebrei e non ebrei chiedendo alle università di effettuare un censimento di ebrei stranieri ed ebrei italiani tra i corpi studenteschi e i docenti.

Il 13 luglio 1938 fu presentato il “Manifesto della razza” come decalogo volto a stabilire i fondamenti storico-antropologici sull’origine ariana della popolazione italiana, per giungere ad affermare l’esistenza di una “razza italiana” pura.

In coerenza con il carattere di specificità della razza italiana, bisognava impedire contaminazioni con qualsiasi altra razza fuori dall’ambito europeo: “Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra- europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani” ( n.10 “Manifesto degli scienziati razzisti”).

2 “Informazione diplomatica” n.14

A conferma della svolta razziale, anche l’apparato istituzionale fu dotato di nuove articolazioni per ampliare le funzioni persecutorie del regime. Il 17 luglio 1938 l’Ufficio centrale demografico del Ministero dell’Interno mutava il suo nome e le sue competenze diventando la nuova Direzione generale per la demografia e la razza, centrale operativa e cervello politico destinato ad attuare i provvedimenti razzisti., sotto la guida di un antropologo razzista, Guido Landra, e sotto la supervisione del sottosegretario razzista, Guido Buffarini Guidi.

La prima attuazione delle misure contro gli ebrei fu il censimento degli ebrei effettuato a partire dal 22 agosto 1938 allo scopo di contare il numero degli ebrei presenti in Italia, presupposto, questo, per l’emanazione di provvedimenti normativi. “Gli ebrei d’Italia vennero accuratamente individuati, contati, schedati”.4

Nel complesso, il censimento del 1938 contò 58412 ebrei presenti sul territorio italiano, di cui 48032 italiani e 10380 stranieri residenti in Italia da oltre sei mesi. “ In sostanza negli anni Trenta gli ebrei d’Italia costituivano poco meno dell’1,1 per mille della popolazione complessiva residente nel paese”.5

Sempre nel mese di agosto, con l’”Informazione diplomatica” n. 18, veniva confermata l’intenzione del regime di procedere all’introduzione di misure restrittive per ridimensionare la presenza degli ebrei nelle attività pubbliche. “Discriminare non significa perseguitare”: questa fu la frase chiave di questo testo.

All’inizio di settembre vennero emanati due provvedimenti di natura diversa ma entrambi convergenti nella direzione della politica razzista iniziata dal regime fascista: un Regio decreto-legge del 5 settembre 1938 n.1390 intitolato “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”, firmato dal ministro Bottai, e il Regio decreto- legge del 7 settembre 1938 n.1391 relativo a Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri. Quest’ultimo prevedeva “il divieto agli stranieri ebrei di fissare stabile dimora nel regno, in Libia e nei Possedimenti dell’Egeo”; revocava la cittadinanza italiana concessa a “stranieri ebrei posteriormente al 1° gennaio 1919”; imponeva l’obbligo per gli stranieri ebrei che al momento della pubblicazione del decreto si trovavano nel regno, in Libia o nei Possedimenti dell’Egeo o che vi si trovassero posteriormente al 1° gennaio 1919 di lasciare questi territori entro sei mesi, pena l’espulsione. Provvedimenti che annullavano di colpo la tradizione di liberalità e di asilo che si era sviluppata in Italia parallelamente al processo di emancipazione degli ebrei italiani.

4 M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2007, p. 402. 5 Ibidem, p.403.

Maggiormente significativo fu il decreto-legge Bottai che stabiliva l’immediata espulsione degli ebrei dall’insegnamento nelle scuole statali e il divieto di iscrizione alle stesse scuole di alunni di razza ebraica. Il 23 settembre 1938 il decreto-legge n. 1630 stabiliva la creazione nelle scuole elementari statali di apposite sezioni speciali per gli alunni ebrei.

Emanare divieti sulla scuola significava per il regime imporre un ruolo prioritario alla scuola vista come istituzione portante della trasformazione politico-culturale di cui era parte integrante la politica della razza.

Il 6 ottobre 1938 il Gran Consiglio del fascismo rese pubblica la Dichiarazione sulla razza che stabiliva il divieto di matrimonio tra italiane e italiani e appartenenti a razze non ariane; l’espulsione degli ebrei dal Partito nazionale fascista (resa effettiva il 19 novembre 1938); il divieto degli ebrei di “essere possessori o dirigenti di aziende di qualsiasi natura che impieghino cento o più persone” o “essere possessori di oltre 50 ettari di terreno”; il divieto di prestare servizio di leva; l’allontanamento dai pubblici impieghi. In questo modo gli ebrei venivano privati dei diritti politici e ne venivano limitati i diritti civili.

Venivano in questo modo poste le basi di quella che Mussolini, nel discorso di Trieste tenuto il 18 settembre 1938, definì “una politica di separazione” nei confronti degli ebrei.

Il 17 novembre 1938 venne emanato il Regio decreto-legge n. 1728 intitolato “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”, che unificava in un unico testo normativo i principi anticipati nella Dichiarazione del Gran Consiglio.

2. Reazioni

Per comprendere meglio la situazione in cui si trovarono gli ebrei dopo l’emanazione delle leggi razziali è necessario tener conto di alcuni fattori che vanno al di là del contesto legislativo. Tanto più se si tiene conto non solo della condizione giuridica, ma anche di quella psicologica oltre che di quella sociale in cui si vennero a trovare gli ebrei. Dal punto di vista psicologico, una delle osservazioni in cui ci si imbatte con più frequenza è la testimonianza che la quasi totalità degli ebrei fu colta dall’emanazione delle leggi razziali quasi di sorpresa, come un fulmine a ciel sereno.

Lo stato d’animo degli ebrei italiani può essere ben espresso dalla testimonianza di Luciana Nissim Momigliano: “Nell’autunno del 1938 furono emanate le leggi razziali. Questo ci arrivò addosso come un fulmine, come un terremoto catastrofico; eravamo del tutto impreparati”6.

Questo senso di stupore accomunò non solo gli ebrei che facevano parte della comunità e coloro i quali ricoprivano ruoli rappresentativi, ma anche tutta la popolazione italiana. Al di là della sorpresa, le immediate conseguenze per gli ebrei furono un senso di solitudine e di isolamento, reso sempre più evidente via via che le norme venivano attuate nella vita quotidiana. Certamente vi fu solidarietà da parte della popolazione italiana, ma non così diffusa come si potrebbe pensare. Si trattò di una solidarietà operativa, non di fronte alla declassazione e alla segregazione civile, ma solo quando venne messa in gioco la vita stessa degli ebrei. Nonostante una primaria indignazione per le misure contro gli ebrei, i semplici cittadini attuarono “un prudente ritiro nel proprio particolare”7. In questo modo il regime ottenne un duplice effetto intimidatorio: nei confronti degli ebrei ma anche nei confronti della numerosa popolazione.

I provvedimenti normativi fin qui citati rappresentarono solo una minima parte volta all’attuazione delle norme. Il carattere normativo che ebbe la produzione normativa non fece che accrescere ed estendete il numero dei divieti che incombevano sugli ebrei, paralizzandone di fatto ogni attività.

Gli ebrei non potevano esercitare l’attività di portierato, il commercio ambulante o ricevere l’autorizzazione per l’esercizio di attività commerciali: agenzie d’affari, commercio di preziosi, esercizio tipografie, vendita oggetti antichi e d’arte, antiquariato, commercio libri, vendita articoli per bambini, vendita apparecchi radio, attività commerciale d’ottica, vendita di oggetti sacri. Non potevano esercitare l’attività alberghiera, comparire negli elenchi telefonici. Non potevano utilizzare la pubblicità sulla stampa nazionale né avere rapporti con amministrazioni pubbliche. “Gli ebrei, in omaggio al principio della separazione della razza, sono stati eliminati da tutti i sodalizi aventi carattere culturale, morale, sportivo, sociale,…”; “Agli appartenenti alla razza ebraica (…) non possono essere rilasciati permessi per ricerche minerarie.”

Nel cumulo dei divieti che si riversò sugli ebrei, non c’era soltanto la volontà di isolamento e segregazione. C’era la volontà di umiliarli e di sottolineare il disprezzo per le loro aspirazioni culturali, affaristiche, morali, fino al culminare del divieto per gli

6 Luciana Nissim Momigliano “Una famiglia ebraica tra le due guerre”, 1989, p. 122. 7 E. Collotti, “Il fascismo e gli ebrei”, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 65.

ebrei di entrare nelle biblioteche pubbliche8, quasi a voler recidere definitivamente il legame tra ebrei e mondo culturale al quale avevano dato un contributo rilevante. È dunque fin troppo comprensibile che una delle reazioni che ebbero gli ebrei fosse quella di emigrare per l’esigenza di dignità e di libertà. Esigenza ancor più sentita nell’ambiente accademico e culturale, il primo ad essere attaccato dai provvedimenti del 1938.

Probabilmente, uno degli obiettivi delle leggi razziali del 1938 era spingere gli ebrei colpiti dai provvedimenti a lasciare l’Italia. Questa fu una decisione che presero in tanti. Gli ebrei italiani avevano di fronte tre alternative: rimanere in Italia e subire le restrizioni, rientrare tra i “discriminati”, ovvero coloro che erano esclusi dagli effetti delle leggi, o emigrare. La scelta dipendeva in parte dalla valutazione sui pericoli derivanti dalla situazione e c’erano fondati motivi d’allarme sulla base delle informazioni che si avevano circa la politica intrapresa dai tedeschi. Dei circa 50000 ebrei residenti nel territorio italiano, più o meno 6000 emigrarono.

L’Argentina rappresentava una delle mete preferite per l’emigrazione, visti i numerosi legami con l’Italia che i flussi migratori avevano creato, che potevano fornire un valido appoggio per l’inserimento nel paese e consentivano di aggirare le restrizioni introdotte dal governo argentino nel corso degli trenta, che ponevano una serie di limitazioni all’arrivo di immigrati. Era pressoché imprescindibile poter contare sull’appoggio di persone già residenti in Argentina, in quanto esse potevano rivolgersi direttamente ai dirigenti politici argentini sia per mettere insieme l’enorme mole di documenti necessari sia per procurare una sistemazione professionale ai migranti.

3. Argentina: viaggio e inserimento

Gli ebrei italiani che arrivarono in Argentina appartenevano a diversi ambiti professionali. C’erano manager d’imprese pubbliche e private ed imprenditori, professionisti e professori universitari. La grande maggioranza di essi era originario della penisola italiana; altri erano arrivati in Italia da altri paesi e da lì erano ripartiti per il Plata.

Nel complesso quella degli ebrei italiani fu un’emigrazione d’élite, sia dal punto di vista delle ricchezze che essi possedevano, sia per le capacità tecniche ed il prestigio accademico.

La maggior parte degli ebrei italiani decise di partire alla volta dell’Argentina subito dopo l’emanazione delle leggi razziali del 1938.

Le navi partivano una volta al mese dai porti di Genova e Trieste. Ottenere i visti per l’emigrazione non era facile. Alcuni ottennero visti turistici pagando cospicue somme di denaro al console di Trieste, altri ottennero dei visti diplomatici grazie alle conoscenze di cui godevano per il loro prestigio professionale.

Sulle navi tutto era pianificato affinché la traversata fosse piacevole. La routine di bordo prevedeva giochi, balli in maschera e feste. Ciò doveva servire a mitigare l’isolamento e le mortificazioni patite dall’emanazione dei provvedimenti razziali, la pena dello smembramento delle case, il dolore per l’abbandono dei propri interessi, dei propri studi, delle attività professionali, delle posizioni di prestigio raggiunte con sforzo. Man mano che le navi si avvicinavano alla meta cresceva in ciascuna persona l’incertezza sul futuro. C’erano scarse informazioni sulle prospettive occupazionali e sulle attività scolastiche. Tutti, bambini e adulti, durante la traversata, ascoltavano attenti i racconti dei passeggeri italiani o argentini che conoscevano il paese, e cercavano di immaginare i ruoli che avrebbero ricoperto una volta arrivati.

Il processo sociale che derivò dalla creazione di una collettività inedita non fu in alcun modo omogeneo. La diversità segnò la strutturazione di sotto-gruppi per età le cui alleanze si reggevano su distinzioni classiste fondate sul prestigio economico-sociale e obiettivi condivisi.

All’interno dei diversi gruppi di età, i rapporti di amicizia sorsero con molta intensità. I bambini riempirono i vuoti affettivi cercando di ricreare un mondo di complicità condivise. Di fronte all’impossibilità di misurare la sofferenza per lo sradicamento, gli adulti si percepivano come le vittime principali. Avevano dovuto affrontare nel giro di pochi mesi la disgregazione della loro quotidianità. Dopo la parentesi felice del viaggio, essi vissero con sgomento la nuova situazione tanto inedita quanto inattesa nella quale l’unico punto di riferimento che li legava al passato era proprio il nucleo familiare. Ogni famiglia, e al suo interno ogni singolo individuo, andò costruendo la sua storia locale in relazione al proprio contesto, condividendo un processo di coesione interna che li identificò tra loro come membri della collettività italiana ebraica di Buenos Aires.

I vincoli all’interno della collettività si videro rafforzati da circostanze interne ed esterne alla stessa. Da un lato, incisero le norme di inserimento che stanno alla base di tutti i processi migratori, che tendono a costruire delle reti sociali che definiscono l’appartenenza e assicurano assistenza. Dall’altro, era necessario superare gli ostacoli che all’inizio impedirono i rapporti con gli altri gruppi.

Alcuni amici argentini ebrei si impegnarono per mitigare le difficoltà iniziali. Essi diedero alloggio agli ultimi arrivati in alberghi o pensioni.

L’andare al porto ad accogliere parenti e conoscenti rappresentò uno dei rituali di iniziazione durante i quali gli “antichi residenti” trasmettevano le proprie impressioni agli ultimi arrivati.

Un secondo momento carico di imprevedibili conseguenze si sviluppò nelle pensioni che nei primi giorni ospitarono i nuovi arrivati. I vicoli che attraversavano la via Esmeralda furono scenari privilegiati dell’arrivo nel nuovo paese. Lì approdarono nuclei familiari composti da genitori e figli piccoli o adolescenti che si impegnarono a ristabilire i vincoli di solidarietà destinati a smorzare l’assenza di referenti tradizionali. I nuovi amici assunsero alternativamente i ruoli di nonni, zii, cugini o fratelli che erano rimasti nei paesi d’origine.

L’alloggio nelle pensioni rappresentò il primo passo per il consolidamento dei vincoli sociali che nel futuro avrebbe legato nuovamente i membri della collettività.

Questo primo periodo di adattamento culminò il 31 gennaio del 1939. Coloro che alloggiavano alla pensione Esmeralda invitarono i nuovi amici a festeggiare il capodanno insieme, lasciandosi alle spalle quello che avevano sofferto e dando così inizio alla loro nuova vita.