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I militari ricoverati presso il manicomio provinciale di Brescia (1915-1918)

Mauro Pennacchio

Il primo conflitto mondiale fu guerra di massa. Non si trattò solo di un im- mane inghiottitoio di uomini e mezzi: furono milioni i soldati impantanati nel- le trincee che sperimentarono la condizione di essere strumenti di un proces- so che li sovrastava e determinava. Mezzi di produzione della vittoria militare.

La guerra determinò un enorme vuoto cognitivo, di cui si resero interpreti le voci più avvertite della cultura europea. Mancavano le parole per descrivere l’impossibile. Joseph Roth all’indomani del conflitto ci dice lo spaesamento di una storia sradicata: «E prima che scriviamo la parola, essa ha già mutato signi- ficato. I concetti che conosciamo non ricoprono più le cose. Le cose sono cre- sciute tanto da non poter più stare negli abiti troppo stretti che avevamo pre- parati per loro»1.

Robert Musil sostenne che la letteratura non sarebbe stata all’altezza del com- pito, qualora si fosse proposta di «descrivere […] l’incredibile vita che milioni di uomini stanno conducendo da due anni»2.

Questa indicibilità non fu solo un fatto di élite, di raffinate sensibilità in- tellettuali. Essa deflagrò nelle coscienze di centinaia di migliaia di militari su tutti i campi di battaglia. Così un ufficiale austriaco di artiglieria, con accenti ungarettiani:

Non lo si può negare: noi siamo dei pazzi o dei guardiani di una casa di pazzi […]. Vi sono minuti nei quali si può assistere a esplosioni vere e proprie di odio e in cui avvengono scene, che nessun uomo sano di mente riuscirebbe a spiegarsi.

Le nostre anime sono ben più desolate e devastate del mucchio di rovine, che dob- biamo difendere3.

1 Joseph Roth, Le città bianche, Adelphi, Milano 1986, p. 14.

2 Citato in Antonio Gibelli, L’officina della guerra, Bollati Boringhieri, Milano 20073, p. 3. 3 Fritz Weber, Tappe della disfatta, Mursia, Milano 19708 (1933), p. 42.

Si stima che furono 400 mila i militari tedeschi ricoverati per patologie neu- ropsichiche, in Francia 300 mila. I soldati italiani che passarono al vaglio delle strutture psichiatriche militari furono circa 40 mila; si tratta di una quantità apparentemente limitata, ma proporzionata al numero di soldati mobilitati nel nostro Paese4.

Ben presto ci si rese conto di essere di fronte a una gravissima emergenza. Le turbe psichiche dei soldati si manifestavano in intensità e in frequenza di gran lunga superiori a quanto era avvenuto in precedenza. Le cronache della guerra russo-giapponese del 1904-1905 impallidivano a fronte di ciò che accadeva nel primo conflitto mondiale. In quella guerra, tuttavia, si erano scorte le prime avvisaglie del preoccupante panorama che si sarebbe presentato5. Fu allora che

si comprese la necessità di approntare servizi neuropsichiatrici di guerra. Si ini- ziò ad avere coscienza del complesso lavoro che doveva essere intrapreso: dalle questioni logistiche, ai trasporti, alle strutture da approntare, in una filiera che collegasse il fronte con le retrovie e il paese. Non meno importante era la que- stione delle terapie da approntare, messe a dura prova dalla crescente comples- sità diagnostica: il campo di battaglia divenne laboratorio di osservazioni di fe- nomenologie patologiche spesso non osservate prima.

L’organizzazione neuropsichiatrica di guerra

A pochi mesi dall’inizio del conflitto, il Manicomio provinciale di Brescia si trovò inserito nella rete delle strutture intese alla osservazione e alla cura delle tur- be neuropsichiche dei combattenti. Fu approntato un reparto che disponeva di cinquanta posti letto. Le degenze non dovevano durare più di novanta giorni. A partire dal gennaio 1918 il nosocomio di Brescia, come tutte le strutture inserite nel sistema neuropsichiatrico, fu tenuto a inviare i militari osservati al dispensa- rio psichiatrico di Reggio Emilia, diretto dal maggiore medico Placido Consiglio. Le decisioni medico legali per tutti i militari osservati erano state accentrate onde evitare sperequazioni di trattamento e porre fine a un certo lassismo, che si intra- vedeva nei comportamenti delle direzioni dei manicomi territoriali.

Prima del gennaio 1918 il manicomio bresciano era la stazione finale di un itinerario che, dal fronte, portava i soldati affetti da patologie neuropsichiche, spesso con soggiorni nei paraggi delle linee avanzate. Vi confluiva materiale umano posto alla fine di una filiera strutturata dal potere medico e militare, intesa a identificare la guarigione con la possibilità di rispedire al più presto il soldato alla guerra.

Erano sempre di più i soldati neuropsicopatici: muti e sordomuti isterici; ossessionati dal trauma dello scoppio di una granata, dalla vista dei compagni dilaniati sparsi attorno, condannati a rivivere quel momento nei loro deliri; bloccati in posture innaturali che li imprigionavano come in carapaci bronzei. Fin dai primi mesi dall’entrata dell’Italia nel conflitto, si avvertì la necessità di fare fronte a questa emergenza. Del resto, anche l’esperienza degli altri eserciti nell’anno precedente spingeva a provvedere il più presto possibile.

Nel giugno del 1916 Augusto Tamburini, consulente psichiatrico del mini- stero della Guerra, dava conto del lavoro svolto nella realizzazione del «servizio nevro-psichiatrico […] da tempo razionalmente organizzato»6. Già da settem-

bre del 1915 l’Ispettorato di sanità militare aveva provveduto a nominare stimati professionisti, quali consulenti psichiatrici di armata. Essi dovevano, nelle zone di loro competenza, visitare «Ospedaletti e Ospedali e da campo e di riserva»; valutare le diagnosi sui casi di malattia mentale o nervosa e indirizzare i ricove- rati nelle altre strutture.

La novità più rilevante era la costituzione dei reparti neuro psichiatrici collo- cati nei territori di competenza. In essi ci si prendeva cura dei casi «poco chiari, o sospetti di simulazione», ovvero giudicati guaribili con «semplici cure specia- lizzate», o, ancora, meritevoli di ulteriore osservazione in loco. Tali reparti aveva- no il «triplice scopo e vantaggio» di liberare il fronte «dall’ingombro dei malati mentali o nevropatici»; snidare i simulatori; «curare sul posto le forme leggere per restituirle ai Corpi, evacuando i più gravi verso le zone interne».

Nell’estate del 1916 questi reparti apparivano già realizzati in buon numero. In tutte le zone ne esistevano da due a tre, in un caso anche cinque. Dai pochi

4 Bruna Bianchi, Il trauma della modernità. La nevrosi di guerra nella storiografia contemporanea, in

Dalle trincee al manicomio. Esperienza bellica e destino di matti e psichiatri nella Grande Guerra, a cu- ra di Andrea Scartabellati, Marcovalerio, Roma 2008, pp. 9-64, p. 14.

5 Antonio Gibelli, La guerra laboratorio. Eserciti e igiene sociale verso la guerra totale, «Movimento

operaio e socialista», V, 3 (1982), pp. 44-464, p. 458.

6 Augusto Tamburini, L’organizzazione del servizio neuro-psichiatrico di guerra nel nostro esercito,

«Rivista sperimentale di freniatria» (d’ora in poi RSF), Vol. 42 (1917), pp. 178-187, p. 178. Si veda an- che Silvia Manente, Andrea Scartabellati, Gli psichiatri alla guerra. Organizzazione militare e servizio bellico, 1911-1919, in Dalle trincee al manicomio, cit., pp. 91-118. Si veda anche Francesco Paolella, Un laboratorio di medicina politica. Placido Consiglio e il Centro psichiatrico militare di prima raccolta, in Piccola patria, grande guerra. La prima guerra mondiale a Reggio Emilia, a cura di Mirco Carrattieri - Alberto Foraboschi, CLUEB, Reggio Emila 2008, pp. 187-204.

letti originari si era giunti al «numero di 50 a 100 ciascuno» e si prevedeva di raggiungere presto i 150 letti.

I reparti neuropsichiatrici di campo rivestivano grande importanza al fine di snidare i simulatori e «trattenere ogni tendenza esagerata o mitomane sub- cosciente od anche involontaria»7. Vi si praticava una terapia adeguata a far

comprendere ai ricoverati che «rimarranno in detti reparti sino a guarigione, e vi ripasseranno se – reintegrati nei loro Corpi – tentano altre vie». Il maggiore medico Placido Consiglio descriveva il «villaggetto» da lui creato. Posto alla con- fluenza di una vasta area di operazioni, era recintato con «triplice filo spinato». I locali erano attrezzati per l’accoglienza e la pulizia dei ricoverati. Neuropatici e psicopatici erano collocati separatamente in due grandi baracche «capaci di 30 posti-letto». Vi erano spazi per il personale, adibiti a osservazione. All’esterno, ma entro la cinta di filo spinato, «un reparto di segregazione di tre stanze, con 12 posti […] e porte con spiatoi (per agitati, e per detenuti periziandi)». Gli esi- ti apparivano buoni. Molti i guariti restituiti al fronte, dopo adeguata convale- scenza, «sempre nel villaggetto o nel convalescenziario d’armata».

Arturo Morselli istituì il primo reparto nella zona d’operazioni della prima Armata:

Ammesso nel Reparto degli Ospedali 032-037, ogni infermo è sottoposto a bagno militare di pulizia (doccia calda, insaponatura) e a disinfezione degli indumenti: la doccia viene ripetuta quasi ogni giorno da tutti. Le cure praticate, oltre all’isola- mento, alla sorveglianza diurna e notturna, ai soliti rimedi farmacologici (sedativi, stimolanti), al buon regime dietetico, sono specialmente la balneo-idroterapia, la elettro-terapia e la psicoterapia, quest’ultima intesa ed applicata sotto tutte le sue forme, di suggestione, di persuasione, di ipnotismo. Largo uso si fece del continua- to riposo in letto: abolito quasi fu l’uso della camera (cella) di assoluto isolamen- to; giovò assai, nei casi di “mutismo” (isterogeno) la faradizzazione con rullo o con doppio elettrodo sui fasci vascolo-nervosi al collo o alle mastoidi, ma specialmente la rieducazione alla parola. Aggiungo che spesso il Reparto ha servito per la osser- vazione e definizione dei casi simulati8.

Uno dei principi, su cui si basava l’azione dei reparti istituiti presso le prime linee, prevedeva che i soldati sconvolti dalle nevrosi non dovessero esser allon-

tanati, per quanto possibile, dal teatro di guerra. Gaetano Boschi ne sintetizzerà le motivazioni in piena epoca fascista. Si riferiva a «un piccolo Riparto, capace di 25 letti, organizzato dall’allora capitano med. prof. Arturo Morselli, annesso a un ospedale da campo; [e a] un “villaggetto”, che serviva per tutta l’armata del Cadore». Non v’era dubbio che i feriti, nel corpo come nello spirito, «si devono sloggiare dal fronte perché d’ingombro e fonte di depressione per le truppe»; ciò anche in considerazione del fatto che, in particolare, i malati psichici richiedo- no quiete. Tuttavia, «l’allontanamento dal fronte faceva perdere l’allenamento all’ambiente», facilitando l’insorgere dell’anafilassi neuropsichica, ovvero l’ac- quisizione di «una suscettibilità morbosa specifica di fronte agli stimoli psichici della guerra, per cui diventavano del tutto inabili ad affrontarli di nuovo»9. La

precauzione valeva sia per i feriti fisici sia per i soggetti neuropsichici; infatti, la «rappresentazione mentale» del pericolo, il ruminare da lontano le esperienze traumatiche provocava reazioni sproporzionate fino alla patologia; lo si rilevava «in individui, sovente, che non avevano presentato affatto fenomeni nevrosici durante la vita di guerra»10.

Nel novero delle cure praticate nei reparti neuropsichiatrici in prossimità del fronte vi erano anche quelle che venivano definite terapie “energiche”, ri- tenute adeguate a scoraggiare ogni speranza di fuga dalla guerra. Si trattava in particolare della pratica della faradizzazione. Il malato era sottoposto a stimo- lazioni elettriche su talune parti del corpo, in genere il collo e la parte supe- riore del torace, con un’intensità via via crescente. Il tutto era inserito in uno scenario evocativo della vita militare. Il medico militare, di norma in divisa, ordinava al malato di abbandonare la posizione contratta e innaturale che lo imprigionava, o di parlare se affetto da mutismo, di tornare, in breve, alla con- dizione di normalità. A volte accadeva che alla scena terapeutica assistessero altri malati. Era una terapia “suggestiva” largamente praticata. Si basava sulle tesi di Joseph Babinski11, già allievo di Jean-Martin Charcot presso la clinica

parigina della Salpêtriére.

I disturbi del comportamento, le fobie, gli impedimenti fisici imputati all’i- steria, ora erano assegnati a una nuova formazione nosologica: il pitiatismo.

7 Placido Consiglio, Un villaggio neuro-psichiatrico in Zona di Guerra, RSF (1917), pp. 173-177, p. 174. 8 Arturo Morselli, Il reparto neuro-psichiatrico dell’ospedale da campo 032 (III armata), «Quaderni di

psichiatria», vol. II-1915, pp. 389-384, p. 389.

9 Gaetano Boschi, La guerra e le arti sanitarie, A. Mondadori, Milano 1931, pp. 179-181.

10 Gaetano Boschi, Nando Bennati, L’anafilassi neuropsichica, «Giornale psichiatria e tecnica mani-

comiale», XLV-XLVI, (1917-1918), pp. 59-70, p. 65.

11 Joseph Babinski, Jules Froment, Hystérie-pithiatisme et troubles nerveux d’ordre réflexe en neurolgie

Un’affezione psichica prodotta per autosuggestione. Il soldato traumatizzato da un episodio tragico, astenico per il logorio della vita in trincea, debole per patrimonio morale ereditario, si rifugiava inconsciamente nella malattia. Se la suggestione era il fatto eziologico determinante, si doveva contrapporre una contro suggestione della medesima, se non maggiore, intensità. Nella defini- zione del pitiatismo stava inscritta la sua guaribilità: occorreva determinazione da parte del militare-medico al fine di rafforzare l’autocontrollo, in modo che il tentativo di fuga nella malattia si associasse a un ricordo spiacevole e doloroso, frustrante. A tale scopo, il medico si rivolgeva al paziente impartendo ordini perentori. Clovis Vincent, neurochirurgo presso la Salpêtriére, tra i maggiori fautori del trattamento elettrico, considerava la terapia alla stregua di una bat- taglia combattuta contro il soldato che si rannicchiava nella sua patologia; se- condo un suo collega la terapia era necessariamente «minaccia e repressione»12.

Non a caso si usava una terminologia bellica: Torpillage, siluramento; Über-

rumpelung, attacco di sorpresa. Il trattamento elettrico fu utilizzato in tutti i

paesi belligeranti13.

Terminata la selezione nei reparti avanzati delle quattro armate, coloro che avevano superato le dure prove del trattamento non recedendo nelle sintoma- tologie erano dispensati dal servizio o, nella maggior parte dei casi, erano in- viati nelle strutture territoriali, «sia in Ospedali di Riserva, sia presso Cliniche

e Manicomi con sezioni speciali»14 destinati ai soldati alienati. Oltre ai reparti

d’armata furono istituiti, non lontano dal fronte, in Carnia e nel Cadore due «autonomi villaggetti […] specie di manicomi in miniatura»15 i quali svolgevano

l’opera di smistamento dei malati.

Giuseppe Seppilli e il suo manicomio

Il 30 aprile 1889 la Deputazione provinciale di Brescia deliberò la costruzio- ne di un ospedale psichiatrico. Il 16 aprile del 1894 si inaugurava il nosocomio che avrebbe ospitato gli alienati mentali della provincia. Fino al 1926, anno del pensionamento, il manicomio provinciale di Brescia si identificò con il suo di- rettore, Giuseppe Seppilli, chiamato a Brescia contestualmente alla deliberazio- ne della Deputazione provinciale. Il suo contributo al costruendo nosocomio fu di fondamentale importanza16.

Nativo di Ancona, Seppilli si laureò a Bologna nel 1877 con una dissertazio- ne sulla sifilide cerebrale. Nel corso della sua carriera collaborò con le più im- portanti riviste dell’alienistica italiana. In particolare, sulla fine del XIX secolo, condusse studi di carattere anatomo-patologico che ebbero eco internazionale17.

Dedicò la sua azione anche a temi di medicina sociale locali18.

Il manicomio era distribuito in 24 edifici, con 12 padiglioni per i ricovera- ti. Si sviluppava su 265.679 mq, di cui 51.893 occupati dagli edifici e il restante da una colonia agricola, un edificio annesso era in costruzione alla vigilia della guerra19. Vi si trovavano varie officine in cui si esercitava l’ergoterapia.

La commissione di vigilanza sui manicomi, nella relazione presentata il 29 aprile 1914, forniva un quadro positivo dell’attività svolta dal nosocomio: orga-

12 Bruna Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano

(1915-1918), Bulzoni, Roma 2001, pp. 30 ss; Laurent Tatu, Julien Bogousslavsky e altri, The “Torpil- lage” Neurologists of World War I: Electric Therapy to send Histerics back to the Front, «Neurology», 75 (2010), pp. 280-281; Paolo Giovannini, La psichiatria italiana e la grande guerra. Ideologia e terapia psichiatrica alle prese con la nuova realtà bellica, «Sanità, scienza e storia», 1 (1987), pp. 111-152, pp. 133-134. Sulla situazione in Francia e sul dibattito intorno al torpillage, occasionato dalla violenta re- azione dello zuavo Baptiste Dechamps nei confronti del dottor Clovis Vincent, che decretò di fatto il declino del trattamento elettrico, si veda Jean Yves Le Nour, Les soldats de la honte, Perrin, Paris 20132; Andrè Gilles, L’ysterie et la guerre, «Annales medico-psycologiques», 8 (1917), pp. 207-227: do-

po l’affaire Duchamps lo psichiatra difese la necessità del metodo del torpillage anche da lui praticato, come l’unico in grado di curare efficacemente le turbe «sine materia» dei pitiatici.

13 Peter Leese, Shell Shock: Traumatic Neurosis and the British Soldiers of the First World War, Palgrave

Macmillan, New York 2002, pp. 74 ss. Un caso a parte fu rappresentato dalla Gran Bretagna, dove la faradizzazione non raggiunse la diffusione verificatasi sul continente. Inoltre, lo sguardo psichiatrico aveva un prevalente carattere pragmatico, non ideologico e notevoli furono le suggestioni freudiane. Bruna Bianchi, L’esperienza di violenza e di oppressione nelle testimonianze dei soldati accolti in mani- comio (1915-19189), «Protagonisti», 33, IX (1988), pp. 48-60, pp. 51-52: l’opinione pubblica britannica da subito si oppose alla condanna morale dei soldati vittime di turbe neuropsichiatriche, soldati che volontariamente si erano arruolati.

14 Augusto Tamburini, Sul servizio psichiatrico di guerra, RSF, Vol. 41 (1917), pp. 509-511, pp. 510-511. 15 S. Manente, A. Scartabellati, Gli psichiatri alla guerra, cit., p. 104, corsivo nel testo.

16 Giuseppe Seppilli, Cenni e contributi sulla costruzione, sull’organizzazione e sul funzionamento del

manicomio provinciale di Brescia, Stab. tipo-lit. bresciano, Brescia 1901.

17 Valeria P. Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento, il Mulino,

Bologna 2009, p. 29.

18 Furono vari i suoi interventi, in particolare si segnala il suo impegno teorico e pratico contro il

flagello della pellagra. Si veda: Giuseppe Seppilli, L’opera della Commissione Pellagrologica di Brescia negli anni 1905-1921, Tipografia Commerciale, Brescia 1922.

19 Alessandro Porro, Psichiatri e ospedale psichiatrico nel XIX secolo a Brescia, in Contributi di storia

della psichiatria, Atti del Convegno (Varese 15 febbraio 2003), a cura di Giuseppe Armocida, Gior- gio Bellotti, Insubria University Press, Varese 2005, pp. 75-94, pp. 93-94.

nizzazione efficiente, pulizia e ordine, personale rispettoso e competente, il vit- to e il trattamento dei ricoverati di buon livello20. Da tempo si erano aboliti i

mezzi di «contenzione meccanica»; inoltre si applicava «il no-restraint nel vero senso della parola». In realtà si trattava di una versione attenuata, in quanto, sia pur non frequente, vigeva il ricorso «all’isolamento in cella durante il giorno». Si rilevava con soddisfazione l’alto numero delle dimissioni «cosiddette preco- ci in prova» e il largo uso delle terapie basate sul lavoro, «specialmente quello agricolo».

Anche in sede locale si era verificato il grande internamento nelle istituzio- ni manicomiali comune a tutte le nazioni moderne. I ricoverati erano 598, 311 uomini e 287 donne. Si dovevano aggiungere «72 donne, dementi» trasferi- te «nell’Asilo di Pontevico». Non vi era traccia di talune criticità rilevate dalla commissione in precedenza21. Permaneva la richiesta di fornire il manicomio di

quantità maggiori di acqua, soprattutto allo scopo di permettere i bagni caldi, fondamentali a scopo terapeutico, oltre che per l’igiene personale dei ricoverati e il decoro dei locali. Si auspicava la realizzazione di un efficiente sistema fognario.

Per il tema di cui ci occupiamo è opportuno considerare la relazione di Giu- seppe Seppilli presentata alla Deputazione provinciale nel 1911. Nel periodo considerato, dal 1984 al 1910, furono ricoverati 83 militari, di cui 5 ufficiali. Il direttore affermava che l’esperienza lo aveva convinto

della necessità […] che il corpo sanitario del nostro Esercito sia ben istruito nelle di- scipline psichiatriche, onde […] possano essere allontanati quegli elementi che sono disadattati e refrattari al servizio militare e riescono quindi di danno gravissimo e talora anche di pericolo alla collettività. Fra i nostri squilibrati ed epilettici psichici trovammo non di rado dei soldati che presentavano numerose note degenerative ed avevano appartenuto a compagnie di disciplina od avevano subito il rigore della prigione per la loro condotta […] che altro non era se non una manifestazione del loro temperamento più o meno nevrotico, del loro carattere anormale, d’una defi- ciente forza inibitrice del loro imperfetto sistema nervoso, spesso in aperto contra- sto colle esigenze della vita militare22.

Non era il pazzo conclamato a preoccupare, data la sua evidenza. La psichia- tria rivendicava la sua funzione nell’individuazione di coloro che si collocavano nella «zona grigia, tra la ragione e la follia […] per lo più ereditarii degenerati. […]. Allo stato attuale della legislazione […] sballottati tra carceri e manico- mi»23. Soggetti portatori di «anomalie […] del carattere e dell’affettività più an-

cora che vere malattie mentali ben definite. Le quali […] costituiscono pericolo e dànno alla vita (della) collettività»24; soggetti la cui

incapacità adattativa produce la precocità delle reazioni psicologiche; precocità fa- cilitata spesso dalle fatiche, dal colpo di calore, dalla sifilide, dalle malattie infettive,