4 «Il secolo lungo dei giovani»: il passaggio tra Ottocento e Novecento
8. Morfologia come sintomatologia (e viceversa)
Finora abbiamo cercato di dare conto della persistenza di un certo impianto discorsivo nel corso di circa due secoli. Oltre a ripercorrere le tappe canoniche della “storia della giovinezza” nella modernità, quanto detto nelle pagine precedenti conservava lo scopo di far emergere, anche in filigrana, quelle che sono le componenti di un continuum discorsivo a suo modo decisivo per l‟immaginario culturale dell‟Europa moderna, almeno fin alla prima metà del Novecento. Un continuum che allora, in questo senso, può essere anche inteso come quel “secolo lungo” di cui parla Dogliani, che si mantiene coerente perché attraversato dalle stesse condensazioni simboliche e dalle stesse immagini ricorrenti durante tutto il suo trascorrere.
224 Si ricordi anche il romanzo di Luigi Preti, Giovinezza, giovinezza!, Mondadori, Milano,
1969 [1964], dove si ritrova lo stesso tipo di riappropriazione. Di grana diversa e più drammatica appare invece l‟uso che Pasolini fa del verso estrapolato dal canto alpino Sul ponte di Perati per il titolo della raccolta poetica La meglio gioventù. Lo stesso canto che, enigmaticamente, metterà in bocca ai gerarchi di Salò o le 120 giornate di Sodoma nel 1975, quasi a cancellare le sue speranze di un tempo.
119
Se abbiamo ripercorso la storia del mito della giovinezza è stato proprio per rintracciare la sua grammatica costitutiva. La sua morfologia elementare o essenziale, direbbe Banti, chiaramente rifacendosi a Propp. Perché proprio osservando questa morfologia fondamentale, questa “sintassi immaginifica”, per parafrasare anche Spackman225
, è possibile rendersi conto del perché questo mito non abbia mai smesso di coinvolgere e di mobilitare migliaia di persone. La simbologia dell‟onore, così pure quella della rispettabilità, della virilità e della violenza, oppure ancora quelle dell‟agonismo e della salute fisica e morale, sono riuscite a smuovere masse intere di ragazzi che hanno creduto, in virtù della loro età e del loro ardore, in virtù della loro corrispondenza a determinati parametri culturali, di poter aspirare a un posto di rilievo nella storia. Come abbiamo appreso, essi sono stati il più delle volte delusi, e il ciclo ha potuto così ricominciare ancora.
Tuttavia, bisogna anche ricordare che Banti e Spackman hanno derivato questa sintassi da alcune opere letterarie, cioè estrapolando le immagini ricorrenti da un corpus da loro selezionato (si pensi che Banti ha ricostruito a tutti gli effetti un “canone risorgimentale”, composto, oltre che da romanzi, anche da poesie, opere liriche e pittoriche). I due studiosi hanno insomma cercato di rintracciare delle tendenze comuni nei testi, tenendo conto del loro carattere letterario, ma sacrificando il più delle volte l‟unicità di ogni specifica opera che, in quest‟ottica, non può che divenire metonimia di una costruzione discorsiva più grande e più diffusa. La stessa che informa una determinata epoca storica. Secondo questa prospettiva, il singolo libro diventa sintomo e allo stesso tempo causa della costruzione di un dato immaginario culturale, e non è preso in esame come caso a sé, con tutte le implicazioni che ciò comporterebbe.
Il procedimento che si attuerà in questa sede, pur attenendoci agli imprescindibili studi appena citati, cercherà di andare nella direzione inversa. In altre parole, la morfologia non sarà desunta da un campione di testi, ma dalla storia del mito che abbiamo tentato di tracciare più sopra. Non si andrà più dalla letteratura verso la storia, ma dalla storia verso la
225 Rifacendosi anche a Slavoj Žižek, Spackman ha parlato acutamente di «syntax of
120
letteratura, tenendo comunque presente che, se un simile lavoro è possibile, è proprio grazie a quell‟operazione di necessaria “astrazione” e di inevitabile “generalizzazione” compiuta in precedenza da ricercatori come Mosse, Banti, Spackman, ecc., i quali hanno indagato il farsi e il disporsi di uno specifico “ordine del discorso”.
Nei testi che prenderemo in considerazione, il riverbero profondo del mito della giovinezza, o comunque la sua ingombrante presenza, è effettivamente avvertibile, anche se in maniera indiretta. Se è vero, infatti, che un certo discorso pubblico si struttura in maniera coerente e continuativa, attraverso cioè l‟incessante rimescolamento e la ripresa dei medesimi morfemi, possiamo pensare che nello stesso periodo in cui vivono scrivono i nostri tre autori, questa rete discorsiva ben definita intorno alla figura del giovane maschio, sia già solidificata e diffusa. Con ciò non si vuole certo affermare che essi restituiscano naturalmente l‟immaginario culturale dei loro tempi, anzi. Nei nostri autori questo immaginario viene eroso dal di dentro. È come se i loro personaggi fossero continuamente chiamati al confronto con questa rete discorsiva pubblica e, a ogni occasione, la disattendessero. Tutto ciò che secondo la logica del mito della giovinezza e della virilità sarebbe da considerarsi normale, positivo e corretto, viene contraddetto dagli atteggiamenti e dai caratteri di questi personaggi.
Non si pensi però che da parte di queste creature letterarie ci sia qualche tipo di rifiuto cosciente, o qualche velleità di presa di distanza dalla norma: cercano comunque con tutte le loro, manchevoli forze, di rispettarla e di uniformarsi a essa. Ecco perché le opere di Tozzi, Moravia e Brancati si stagliano spesso nell‟orizzonte dell‟esistenziale e dell‟universale, pur conservando, come s‟è detto, la traccia di determinati meccanismi simbolici, sedimentati nella storia, e concretamente attivi, anche per contrasto, nei loro testi.
Da questa prospettiva, oltre che come morfemi, o come semplici categorie, potremmo immaginare questi singoli tratti anche come dei “requisiti d‟accesso”, necessari per poter venire considerati veramente
121
giovani (si ricordino le parole bilenchiane pocanzi riportate). Requisiti da confermare di continuo, si badi bene: del resto, come già ripetuto più volte, la gioventù non è pensabile soltanto come una questione legata all‟età, ma anche come la conformazione a una certa idea culturale che di essa se ne ha. Dunque non una condizione stabile, decisa una volta per tutte, ma uno status da riaffermare e ostentare ogni volta che se ne presenta l‟occasione.
L‟occasione, appunto. Come abbiamo appreso da Moretti, l‟occasione è una delle categorie tipiche del romanzo di formazione e dello stesso mito della giovinezza: è la tappa cruciale dell‟esistenza in vista del
telos finale della crescita del protagonista e del suo ingresso in società.
Oppure, come abbiamo appreso leggendo le parole di Benjamin o di Serra, l‟occasione può essere intesa anche nei termini più astratti e drammatici dell‟unica chiamata “fatta” dalla Storia a una precisa generazione perché essa possa lasciare un segno tangibile del suo passaggio. La generazione di turno avrà sempre una sola possibilità di riconoscere e di cogliere questa chiamata, dimostrando così di non aver sprecato la parte migliore della sua vita. Comunque la si voglia pensare, se come necessaria fase di passaggio per il compimento di un destino individuale oppure come una possibilità irripetibile per una generazione intera, l‟occasione è e resta sempre una prova da superare, per il giovane moderno. E proprio da questa prospettiva cercheremo di intenderla al momento della lettura di quei romanzi che mettono in scena delle formazioni mutilate, a mezzo, compromesse.
L‟occasione come prova, dunque. La singola prova è sempre un atto dimostrativo (ai propri occhi o a quelli altrui) e, in qualche maniera, irredimibile. Segna nel corpo e nella mente, sancisce, stabilisce un prima e un dopo, un dentro e un fuori rispetto a una precisa comunità o a un preciso gruppo. Non è detto che non possa ripetersi, ossia che il giovane personaggio non abbia la possibilità di ritentare dopo un inziale fallimento, ma il più delle volte (o meglio, nella quasi totalità dei casi), la prova è solo conferma di una situazione di blocco e di incapacità di progresso. Progresso che invece dovrebbe darsi, secondo lo scheletro simbolico proposto sia dal
122
pagine, le singole componenti di quest‟ultimo (l‟onore, la violenza, l‟agonismo, ecc.) verranno intese e declinate proprio alla stregua di parametri disattesi di volta in volta.
I protagonisti dei testi presi in considerazione in questo lavoro devono superare le medesime prove dei loro coetanei: lo richiedono la loro famiglia e il loro ambiente, borghese o “proletario” che sia, rurale o cittadino, istituzionale o meno. In tal senso, sempre i coetanei, i loro pari, diventano il vero metro di paragone, l‟incarnazione stessa del mito. Essi sono esattamente come dovrebbero essere. Sono tagliati per confermare, a se stessi e agli altri, col loro corpo o con le loro prestazioni, la loro sfrontata giovinezza e la loro imperturbabile virilità.
Inoltre, l‟essere giovani e maschi costituirà anche il discrimine con il quale andremo a selezionare i personaggi e quindi i romanzi e i racconti dei nostri scrittori. D‟altronde, sappiamo grazie a Moretti che “il protagonista inevitabile” dei romanzi di formazione è il maschio borghese. Questo criterio selettivo permetterà quindi di isolare nella vasta produzione di Tozzi, Moravia e Brancati un corpus di testi in grado di offrire una visione ad ampio spettro dei loro sistemi tematici costruiti intorno alla giovinezza e, allo stesso tempo, un insieme di opere ragionevolmente contenuto (in particolare per il caso di Moravia, la cui produzione è a dir poco vasta) per operare un affondo critico più puntuale possibile per ogni singolo caso di studio.
Ciò che si cercherà di mettere in rilievo è il modo in cui una grammatica tutta tesa al positivo, alla rinascita e all‟espressione più piena delle proprie capacità viene sostanzialmente mancata dai “ragazzi di carta” che abitano le pagine dei tre autori. È in questo senso che, da simbolo di «virilità, virtù, salute fisica e morale»226, la giovinezza si trasforma nel loro contrario esatto: in una malattia. Oltre che per indicare il portato esistenziale che accompagna la questione, ossia la stortura dell‟essere dei “personaggi- uomini” della letteratura contemporanea, già messo in luce magistralmente da Luperini per il caso di Tozzi e da Mascaretti per quello di Moravia,
123
questo lavoro intende servirsi della categoria della malattia (peraltro già largamente indagata come tema letterario) per indicare il rovescio della costellazione simbolica riunita sotto il mito della giovinezza rigeneratrice. Rovescio di tutti i suoi “valori”, fallimento di tutte le sue prove. Inoltre, parlare di una giovinezza malata permette anche di considerare (metaforicamente, s‟intende) la mancanza di corrispondenza alla morfologia del mito al modo di una sintomatologia. Come a dire che le occasioni sprecate dai protagonisti tozziani, moraviani e brancatiani potranno essere prese e analizzate quasi fossero degli esiti negativi a determinati “esami” e a determinati banchi di prova. In altre parole, la patologia dei personaggi verrà dimostrata attraverso la loro non corrispondenza alla norma e a quell‟immagine del giovane diffusa in tutta Europa dal XVIII secolo in poi. Con ciò non si vuole certo affermare che lo scopo del lavoro è quello di identificare un morbo diffuso tra i protagonisti di alcuni romanzi italiani del Novecento, o peggio, quello di fare loro qualche tipo di diagnosi (procedimento da cui ci ha messo già in guardia Francesco Orlando molto tempo fa). Piuttosto, considerare la loro giovinezza come uno stadio di insufficienza e di mancanza, anche sulla scia dei contributi sul “romanzo dell‟adolescente” di fin de siècle, consentirà di mettere in luce come, mentre da una parte viene cristallizzandosi massicciamente un certo immaginario trionfalistico del giovane maschio, dall‟altra alcuni testi letterari lo capovolgano. Oppure ne rappresentino il parossismo attraverso un eccesso che diventa, per contrappasso, manchevolezza.
A differenza degli studi critici dedicati al romanzo dell‟adolescente, attraverso la messa a punto di questa grammatica che vuole rispecchiare le regole del gioco, quello che cercheremo di fare non sarà tanto rintracciare un “tipo” di personaggio ricorrente. Certo, si mapperanno anche le assonanze e le similarità tra le varie creature letterarie, in particolar modo nelle risposte alle stesse prove a cui si trovano di fronte, ma esse verranno considerate quanto più possibile nella loro specificità e sempre in relazione all‟economia della storia in cui sono coinvolte. A tal proposito, Cesare Segre ha puntualizzato che una troppo rigida semiotica del personaggio,
124
ossia una rappresentazione e una lettura di quest‟ultimo attraverso uno scheletro ermeneutico non flessibile, non è in grado di restituire «una struttura così complessa e raffinata, e anche contraddittoria, come è la mente umana, imitata dal creatore del personaggio»227:
Sembra molto più utile definire un personaggio come un fascio di attitudini e di tratti caratteriali, deducibile dai suoi atteggiamenti e comportamenti, oltre che dalle sue parole esplicite e dai mimetismi o dalle menzogne operate con le parole. […] In più, la struttura- personaggio cambia a contatto con la realtà e con lo scorrere del tempo, e un romanzo narra spesso questi mutamenti attraverso la lotta del personaggio per affermarsi o prendere coscienza di sé. Importante è proprio, mi pare, che le azioni compiute dal personaggio non siano considerate in un rapporto obbligativo ed esaustivo rispetto al soggetto che le compie; cioè che sussista quella libertà di azione (fare o non fare, fare oppure fare altra azione, persistere o cessare) che è anche la continua, gratificante sorpresa del lettore228.
Facendo tesoro delle affermazioni di Segre, proveremo a indagare la complessità dei personaggi e a dimostrare (o meglio, a dedurre) la loro malattia di volta in volta, ossia “mettendo alla prova” i loro atteggiamenti e comportamenti sulla base di quanto viene richiesto loro dal discorso pubblico della giovinezza. L‟altro metro interpretativo deriverà dal confronto con i loro simili, del tutto corrispondenti all‟immagine del giovane autentico, sano e vitale. I “ragazzi malati” che Tozzi, Moravia e Brancati mettono in scena non sono tipi: sono individui che, a ogni piè sospinto, non ce la fanno a tenere il passo, che non riescono a soddisfare, per quanti sforzi facciano, uno standard, un compito che da loro ci si aspetterebbe.
A quanto detto finora bisogna aggiungere che un approccio di tipo morfologico è stato già utilizzato, anche se in maniera non sempre sistematica o soltanto di passaggio, in diversi studi sul romanzo di formazione propriamente inteso. In effetti, le vicende dei protagonisti di molti Bildungsromane paiono assomigliarsi in molte dinamiche interne, e
227 C. Segre, È possibile una semiotica del personaggio?, in F. Fiorentino (a cura di), Al di
là del testo. Critica letteraria e studio della cultura, Quodlibet, Macerata, 2011, p. 195.
125
per questo condividere una stessa grammatica. Lo stesso Moretti, nella sua importante monografia più volte citata, chiama in causa Propp, e non a caso quando riflette intorno agli ostacoli, alle prove d‟accesso (tradotte in inglese da Moretti con «test», «trial») che Whilelm Meister e Elizabeth Bennet devono superare per poter concludere il loro processo di socializzazione e così crescere229. Moretti afferma però che il paradigma iniziatico messo in luce dalla narratologia proppiana per le fiabe di magia (soprattutto ne Le
radici storiche dei racconti di fate) è esattamente opposto a quello alla base
della formazione moderna. Quest‟ultima contempla infatti un‟integrazione armonica nella società e nella quotidianità, contempla cioè lo scambio della parola e della conversazione con un tutto pacificato e razionalizzato. Il rito iniziatico si struttura invece attorno al segreto e al momento di sospensione dallo scorrere normale del tempo: crea un vuoto di silenzio attorno al quale si raccoglie una cerchia di eletti che è dentro ma allo stesso tempo fuori della comunità, che è dentro e allo stesso tempo fuori dallo scorrere delle cose. Sempre in questa prospettiva, proprio rifacendosi a Moretti (e anche a Bachtin), Milena Bernardi ha affermato che, seppure alcuni romanzi di formazione (e in particolare quelli inglesi) conservano legami forti con le antiche trame fiabesche e popolari, bisogna tener presente che «la fiaba è iniziatica e ferma il tempo […] [mentre] la Bildung è formativa e si muove nel tempo»230.
Chi invece si è servita in modo più sistematico e in maniera assai proficua dell‟approccio morfologico di derivazione proppiana è stata Valentina Mascaretti, nella sua importante monografia sui romanzi di formazione di Moravia. Vedremo più tardi, nel capitolo dedicato a quest‟ultimo, quanto le tesi di Mascaretti saranno decisive per le nostre considerazioni. Per ora ciò che importa mettere in risalto è come la studiosa si sia avvalsa di questa impostazione, riuscendo così a individuare situazioni comuni e ricorsive nei testi moraviani. Inoltre, bisogna anche precisare che, per quanto non rigida e non ortodossa, quella di Mascaretti è un‟impalcatura ermeneutica che risente di un approccio antropologico e archetipico tout
229 Cfr. F. Moretti, Il romanzo di formazione, cit., pp. 53-54. 230 M. Bernardi, Il cassetto segreto, cit., p. 26.
126
court (probabilmente desunto anche dalla lezione di Fausto Curi). Un
approccio nel quale vengono impiegate, per esempio, le categorie di Jung e Kerényi, ma anche quelle di Van Gennep e Bruno Bettelheim, questi ultimi già citati nel lavoro di Moretti.
In effetti, quando si prendono in esame romanzi che mettono in scena degli individui in fase di sviluppo, di ricerca della propria maturità, o chiamati ad affrontare prove tipiche (cioè normalizzate in un preciso contesto storico e culturale) della loro età, la componente antropologica non può certo essere oscurata, o ritenuta superflua. Sulla questione Sergio Zatti non sembra avere troppi dubbi: pur riferendosi al caso della confessione autobiografica sette-ottocentesca inaugurata dal modello rousseauiano (quindi in parte diversa dal Bildungsroman), egli afferma che questa prende forma nel tempo attraverso una grammatica «fondata su una serie di costanti antropologiche e governata da precise convenzioni di genere letterario»231. Ciò vuole anche dire che, sebbene una certa idea di gioventù sia sempre il frutto di un dato immaginario individuabile storicamente, alcune sue caratteristiche paiono rimanere legate a fattori (comunque culturali) che resistono nel tempo e nello spazio, e che paiono cioè rispecchiare un modello introiettato fin da epoche molto remote.
Spingendo più oltre le utili riflessioni di Zatti, potremmo dire che quelle costanti antropologiche si solidificano, nei romanzi di formazione, nei testi al cui centro sta la crescita di un personaggio o comunque una sua “fase interlocutoria”, in topoi, o in scene fisse. O in “intrecci stabili”, stando anche all‟insegnamento di Melentiskij232. Di “topos” e di “scena” hanno parlato rispettivamente Stefano Lazzarin per il caso di Svevo e Barbara Spackman per quello di D‟Annunzio233, a loro volta convinti che alcune strutture fisse possano essere desumibili in quelle opere in cui viene riservata attenzione a un personaggio chiamato a svolgere determinati
231 S. Zatti, Raccontare la propria infanzia, cit., p. 310.
232 Cfr. E. M. Meletinskij, Archetipi letterari, a cura di M. Bonafin, Eum, Macerata, 2016
[1998].
233 Cfr. S. Lazzarin, Alfonso Nitti e la Question du costume. Note su Una vita e la tradizione
del Bildungsroman, «Rivista di Letteratura Italiana», XX (2002), pp. 125-152 e B. Spackman, D‟Annunzio e la scena della convalescenza, cit.
127
compiti e determinate mansioni dal suo preciso contesto sociale e dal suo preciso tempo.
Immettendoci sulla scia degli studi pocanzi richiamati, potremmo anche noi servirci di una prospettiva antropologica. A patto però che quest‟ultima, più che rintracciare le radici profonde della morfologia, possa contribuire a mettere a nudo il suo modo di funzionare e di entrare in circolo nelle singole storie raccontate. Da questa prospettiva, per esempio, gli studi di Propp (ma anche quelli di Turner) verranno ripresi per capire le dinamiche sottese all‟iniziazione, ossia al processo di ingresso in un gruppo esclusivo di pari, oltre che per l‟idea di uno scheletro narrativo ricorrente. Alla stessa maniera i contributi e le teorie di Van Gennep verranno tenuti in conto per comprendere ed evidenziare il meccanismo trifasico sotteso a ogni rito di passaggio (processo di separazione, margine e aggregazione), e quindi a ogni situazione in cui si verifica o meno un cambiamento di status del giovane presso la banda di coetanei o, in scala più grande, presso la comunità tutta, con le dovute divergenze a seconda che si tratti di un ambiente di estrazione borghese o meno. In tal senso, ci vengono in aiuto le chiare affermazioni di Alberto Castoldi: «i riti di passaggio costituiscono essenzialmente un modello interpretativo, che non si fonda su una “verità” ma sulla sua efficacia»234. In altri termini: essi devono essere impiegati in qualità di paradigmi concettuali mediante cui comprendere fenomeni differenti e distanti, ma che sembrano funzionare sostanzialmente allo stesso modo.
Giunti a questo punto, andiamo ora a elencare quali sono i “mattoni” di questa grammatica interpretativa desunta dall‟immagine del giovane maschio moderno. Quella che abbiamo scelto per l‟analisi della narrativa dei tre autori e con cui mettere alla prova i loro personaggi è una morfologia,