4 «Il secolo lungo dei giovani»: il passaggio tra Ottocento e Novecento
7. Primavere di bellezza
È giunto il momento di addentrarci in un argomento tanto vasto quanto complesso, su cui si dovrà per forza di cose sintetizzare e dare molto per assodato, visti anche i molti studi sulla questione. In questo paragrafo si prenderà in esame la messa a sistema dell‟immagine della gioventù da parte del fascismo italiano durante gli anni ‟20 e ‟30 del Novecento, epoca in cui – ricordiamolo – due dei nostri scrittori si trovano a vivere “nell‟effettivo” i loro anni giovanili, a volte in sintonia con le politiche del regime stesso. Se fino a ora si è tentato di tracciare un quadro che, per quanto succinto e generale, contribuisse a restituire le tendenze e i paradigmi di una situazione per così dire diffusa (cioè di un immaginario abbastanza uniforme come quello di una parte dell‟Europa dalla fine del Settecento in poi), ora la nostra attenzione sarà riservata soltanto al caso italiano. Si procederà schematicamente, sorvolando sulle questioni concernenti le concrete politiche di controllo, di istruzione e di propaganda attuate durante il ventennio, sulle quali esiste una bibliografia assai nutrita e in continuo aggiornamento. D‟altro canto, si cercherà di enucleare alcuni argomenti che poi potranno essere utili all‟analisi dei tre scrittori.
In più parti si è ribadito che il mito di cui stiamo tracciando la storia è da riferirsi soltanto a soggetti di sesso maschile. Il motivo è solo all‟apparenza semplice e solo all‟apparenza connesso a questioni
esclusivamente politico-sociali. Va da sé, infatti, che i soggetti a cui tale
mito si rivolge non possono corrispondere ad altri che a quegli individui che detengono tutte le “carte in regola” per poter accedere alla sfera pubblica e, di conseguenza, incidervi. Almeno all‟altezza storica presa in considerazione, come abbiamo già visto, si tratta di giovani maschi borghesi
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dell‟Europa occidentale, sui quali si plasma una sorta di «modello privilegiato»174. Ma c‟è dell‟altro.
Il fatto che il mito della giovinezza, fin dalla sua nascita, faccia riferimento - nella quasi totalità dei casi e nell‟accezione di salute e di palingenesi a cui stiamo facendo riferimento – a individui maschi non sembra sussistere soltanto per il motivo che questi ultimi sono i principali (quando non gli unici) protagonisti attivi della storia moderna (attraverso la politica, attraverso l‟arte e il pensiero, attraverso la guerra), intercisa in larga parte alle donne, per le quali le norme e i comportamenti sono altrettanto segnati. Più che le cause, però, tali elementi paiono costituirsi piuttosto come gli effetti di un più complesso e profondo processo, che implica, oltre a fattori di tipo economico e sociale, una decisiva influenza da parte della cultura, della fitta rete discorsiva che caratterizza l‟immaginario del periodo in questione. Fin dal suo primissimo apparire, ossia fin dal XVIII secolo, il mito trionfalistico della giovinezza si sviluppa parallelamente ad un altro mito, finendo per combaciare quasi del tutto con quest‟ultimo, già evocato in questa sede citando gli studi pionieristici di Mosse: il mito della virilità. O, meglio, l‟immagine stereotipica dell‟uomo, per attenerci alla terminologia coniata dallo storico tedesco: «un quadro mentale standardizzato»175.
Lo stesso Mosse si è subito reso conto che tale stereotipo comincia a imporsi massicciamente nell‟immaginario dell‟Europa moderna - cioè a emanare «norme, modelli, valori e comportamenti ortodossi»176 - nel medesimo tempo in cui viene a cristallizzarsi, quasi in perfetta e speculare consonanza, il concetto di Bildung, prima in Germania e poi in una buona parte del resto del continente. Mentre cioè - come abbiamo visto nel primo paragrafo - la giovinezza, “the space between”, inizia a essere reputata come la parte più significativa dell‟esistenza. Tra Sette e Ottocento, dunque, «la vera virilità diviene lo scopo di quella che i tedeschi chiamano Bildung, il
174 L. Passerini, La giovinezza metafora del cambiamento sociale. Due dibattiti sui giovani
nell‟Italia fascista e negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, in G. Levi, J. Schmitt (a cura di), Storia dei giovani, cit., p. 382.
175 G. L. Mosse, L‟immagine dell‟uomo, cit., p. 5. 176 S. Bellassai, L‟invenzione della virilità, cit.
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processo cioè per cui l‟individuo coltiva se stesso, in una direzione che in origine non si dava per definita e che ora riceve invece un obiettivo preciso»177. Stando a queste considerazioni, quindi, la spinta teleologica connaturata all‟ideale e al concetto della Bildung avrebbe come suo fine, oltre a quello dell‟integrazione del “soggetto in divenire” presso la collettività adulta mediante le istituzioni del lavoro e del matrimonio, anche il raggiungimento della virilità. Anzi, portando alle estreme conseguenze le considerazioni di Mosse, si potrebbe dire che proprio questa, la virilità, sia la condizione necessaria e sufficiente perché un giovane possa dirsi “compiuto”, arrivato, e poi, ma solo in un secondo momento, in grado di ottenere la donna e il mestiere che sono a lui più congeniali, o che paiono spettargli. Per poter essere dichiarati cresciuti correttamente, in maniera sana e dritta, e quindi borghese178, bisogna prima farsi valere e apprezzare dalla comunità in qualità di maschi autentici. Giacché a partire dall‟epoca moderna la virilità (si badi bene, ma non stupirà apprendere quanto segue), si trova a essere considerata uno dei più potenti «simboli di rigenerazione»179.
E in effetti basterebbe sostituire a quanto detto fino a questo punto intorno al mito della giovinezza come rinascita e palingenesi il concetto della virilità. Si scoprirà così che l‟eroe-ribelle idealtipico dell‟Ottocento corrisponde certamente al giovane che si lancia in battaglia senza paura al fianco dei suoi fratelli o in favore della rivoluzione, ma anche al maschio che salva la sua madre-patria, come ha ben spiegato Banti e come si è anche accennato più sopra. O si apprenderà che quella paura della degenerazione e di un destino di decrepitezza per l‟Europa di fine XIX secolo di cui abbiamo trattato si manifesta anche nei termini di un diffuso timore per una femminilizzazione della società, dovuta anche all‟azione e alle iniziative dei primi movimenti femministi, reputati da molti, fin dal loro primo
177 G. L. Mosse, L‟immagine dell‟uomo, cit., pp. 8-9.
178 «L‟edificazione della mascolinità moderna fu strettamente collegata con la nuova società
borghese che andava prendendo forma sul finire del Settecento. […] La rottura con le vecchie tradizioni aristocratiche non fu improvvisa: ideali medievali come la cavalleria, e istituzioni come il duello, sopravvissero a lungo in tempi moderni», ivi p. 21.
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manifestarsi, «chiari esempi di degenerazione»180. E, sempre seguendo questa pista che procede per analogie, si arriverà a comprende che perfino il mito della guerra, il suadente ideale che spinge molti ragazzi a partire per il fronte, riesce a materializzarsi e ad attecchire anche perché rappresenta la possibilità di far valere la propria virilità ai danni altrui, superando i nemici come si dovrebbe superare in un sport gli avversari. Sfidandoli quasi si trattasse (almeno retoricamente) di un gigantesco duello dove far valere il proprio onore e il proprio ruolo di maschi impavidi e desiderosi di dimostrare forza e imperturbabilità d‟animo di fronte alla possibilità di una “bella morte”.
Da questa disamina riepilogativa della storia tracciata fino ad ora possiamo comprendere ancora meglio in che misura il mito della virilità e quello della giovinezza siano naturalmente e indissolubilmente collegati tra loro. Collegati a tal punto che, azzardando - ma poi non troppo - si potrebbe arrivare ad affermare che quei tratti ricorrenti della grammatica del mito della gioventù che abbiamo cercato di isolare corrispondono in gran parte agli elementi minimi della grammatica dell‟“immagine dell‟uomo”. O che siano addirittura gli stessi elementi ricorretti, gli stessi tratti minimi. Insomma che la giovinezza e la virilità siano in realtà le due facce del medesimo mito, di volta in volta esaltate nella loro singolarità ma sempre operanti in connessione profonda, simultaneamente, e sempre passibili di reciproca sostituzione, o sovrapposizione. Fino alla totale sinonimia. Abbiamo già detto del sillogismo che fin dal XVIII secolo lega il guerriero al giovane, l‟età della propria primavera a quella eroica, non importa se del singolo o delle nazioni. Il terzo elemento che si potrebbe aggiungere a questa connessione logica sarebbe proprio quello concernente l‟esaltazione dell‟essere (o meglio, del divenire) virili, secondo l‟ideale della mascolinità che si diffonde in epoca moderna. L‟esaltazione della gioventù viene così a confondersi con l‟esaltazione della fisionomia del maschio autentico,
180 B. Dijkstra, Idoli di perversità. La donna nell‟immaginario artistico, filosofico,
letterario e scientifico tra Otto e Novecento, Garzanti, Milano, 1988 [1986], p. 323. Si ricordi anche dell‟influenza di personalità come Otto Weininger, autore del trattato Sesso e carattere (1903).
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anch‟essa tutta declinata e intesa nel senso vitalistico e trionfalistico che già conosciamo. In quell‟ideale, infatti, ritroviamo concetti a noi familiari, quali l‟azione intesa come valore assoluto, lo spirito di sacrificio e l‟imperturbabilità di fronte alle emozioni o alla morte come qualità encomiabili e da raggiungere, la rispettabilità da perseguire e al contempo l‟implicita e tollerata contemplazione della sua “lecita” trasgressione181
, l‟idealizzazione cortese e il maltrattamento più bruto delle donne. Insomma ritroviamo quegli elementi del mito della gioventù che abbiamo cercato di individuare, e che sono compresi quasi tutti tra le sfere dell‟onore, della violenza e della competizione.
Stando a quanto detto fino a ora, servendoci di un doppio senso, potremmo concludere che «uomini si diventa»182. Riprendiamo questa felice espressione dal titolo di un contributo molto utile di Ilaria Mansenga. Questa studiosa - probabilmente tra i primi in Italia a servirsi di una prospettiva desunta dai Men‟s Studies183 per quanto riguarda l‟analisi del romanzo di formazione -, ha messo in relazione il processo di “sviluppo fallito” di alcuni “ragazzi di carta” della narrativa italiana (nello specifico: Saba, Moravia e Volponi) a una loro sofferta (eppure, in un certo senso, salvifica) non conformazione a quello che è appunto il modello di maschilità dominante nel loro mondo, lo stesso in cui i loro coetanei, maestri, genitori
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«Se da un lato la virilità agisce come modello normativo e minaccia l‟identità di ogni uomo che non corrisponda a ciò che ci sia aspetta da lui, la trasgressione appare come parte costitutiva dei processi di definizione della virilità, con la rappresentazione di una natura maschile che sfugge ai vincoli e alle regole sociali. I maschi devono essere esuberanti, i loro corpi mal sopportare le angustie degli spazi, i banchi scolastici, hanno bisogno di abiti comodi che permettano di essere scomposti. Devono fare battute volgari, devono ubriacarsi, calarsi, mangiare eccessivamente, fare i giochi pericolosi, godere nello sfidare i limiti e il rischio. Questo apprendistato giovanile […] porterà a un‟età della maturità in cui le trasgressioni o gli eccessi saranno relegati a momenti marginali […], per far posto alla qualità virile del controllo, dell‟autoregolazione, dell‟emancipazione dalle emozioni». S. Ciccone, Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg & Sellier, Torino, 2009, p. 101 [corsivo del testo].
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I. Masenga, Uomini si diventa. Il Bildungsroman italiano del secondo Novecento: uno studio di genere, «Quaderni di donne & ricerca», 16, 2009, pp. 1-65.
183 Per un inquadramento generale sui Men‟s Studies in Italia cfr. almeno i seguenti
contributi: E. dell‟Agnese, E. Ruspini (a cura di), Mascolinità all‟italiana. Costruzioni, narrazioni, mutamenti, Utet, Torino, 2007; S. Ciccone, Essere maschi, cit.; A. De Biasio, Studiare il maschile, «Allegoria», 61, XXII, 2010, pp. 9-36; S. Bellassai, L‟invenzione della virilità, cit.; S. Chemotti (a cura di), La questione maschile. Archetipi, transizioni, metamorfosi, Il Poligrafo, Padova, 2015; Mascolinità nella letteratura italiana contemporanea, num. monografico di «Narrativa», n. s., 40, 2018.
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e “iniziatori” sembrano muoversi con estremo agio. Masenga ha dunque riletto i Bildungsromane dei tre scrittori in questione attraverso le categorie isolate da Mosse e dagli studi riguardanti l‟“invenzione dell‟immagine dell‟uomo”, riuscendo a comprendere - come stiamo tentando di comprendere noi ora – che, nei romanzi da lei presi in esame, ciò che si chiede a un giovane sano, degno della sua età e delle sue forze, è di comportarsi da uomo vero, ossia di crescere superando determinate prove e assumendo determinati atteggiamenti. Il paradigma perdura anche e soprattutto nella prima metà del Novecento. Come vedremo più avanti, in particolare nel capitolo dedicato a Moravia, e come ha messo in luce recentemente anche Emanuele Zinato184, quasi tutti i protagonisti giovani dello scrittore romano tentano continuamente di uniformarsi a questo ideale, a superare le stesse prove per le quali i loro compagni, o i loro avversari (non importa), sembrano naturalmente tagliati, e senza nessun dubbio predisposti.
Ma torniamo alla nostra piccola storia del mito della giovinezza e, ora lo possiamo affermare, anche della virilità. Siamo giunti nel suo più decisivo snodo, cioè nel punto in cui questi due elementi connaturati vengono a fondersi esplicitamente, fino a formare un coerente sistema discorsivo e istituzionale, di propaganda e di controllo. Il fascismo, prima come movimento rivoluzionario “diffuso” e poi come regime totalitario, fa di essi i suoi stendardi ideologici, li ostenta quasi fossero i suoi caratteri precipui e, al contempo, i suoi fini postremi. Non sembra esserci predominanza di un termine sull‟altro, né una sorta priorità. Per Barbara Spackman, invece, è la virilità a inglobare i restanti elementi dell‟ideologia fascista185, quasi fossero sue diverse declinazioni ed emanazioni, mentre di opinione diversa pare essere, per esempio, Ruth Ben-Ghiat, la quale concede preponderanza alla nozione assoluta e fondativa di giovinezza, identificabile
184 Cfr. E. Zinato, Agostino, Damìn, Emanuele, cit., p. 353-362.
185 «virility is not simply one of many fascist qualities, but rather […] the cults of youth, of
duty, of sacrifice and heroic virtues, of strength and stamina, of obedience and authority, and of physical strength and sexual potency that characterize fascism are all inflections of that master term, virility». B. Spackman, Fascist Virilities. Rhetoric, Ideology, and Social Fantasy in Italy, University of Minnesota Press, Minneapolis-London, 1996, p. XII.
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come la vera categoria alla base della Weltanschauung fascista. Secondo Ben-Ghiat, infatti, «l‟idea di gioventù svolge per i fascisti lo stesso ruolo che classe e razza esplicitano rispettivamente per i bolscevichi e per i nazionalsocialisti: quello di un mito dietro il quale mobilitare e integrare le forze del paese»186. Anche Luca La Rovere è dello stesso avviso: «l‟idea della giovinezza permetteva al fascismo di proporre una visione dei rapporti sociali nella quale la dimensione diacronica dell‟esperienza prevaleva su quella sincronica del dato socioeconomico, di classe, e l‟appartenenza fondata su ragioni ideologico-culturali era esaltata a detrimento di quelle materiali. I concetti di generazione e giovane generazione costituivano perciò gli elementi basilari della rivoluzione fascista»187. Dunque, secondo l‟ottica fascista, la giovinezza è la categoria che informa un mondo nel quale si impone netta la differenza tra chi è destinato a far valere le proprie eroiche forze, e chi a soccombere a causa della sua senilità.
Per i fini del nostro lavoro e più in particolare di questa parte dedicata a rintracciare la morfologia di un determinato mito, non importa stabilire se ci sia o meno una filiazione diretta tra quello della giovinezza e quello della virilità, né quale sia la “direzione” di tale filogenesi. Piuttosto, conta ribadire ancora una volta la loro pressoché perfetta corrispondenza, come del resto suggerisce anche uno dei massimi esperti della maschilità in Italia, Sandro Bellassai:
Contro l‟intellettualismo-degenerazione senile dell‟uomo, la retorica fascista esaltava quindi l‟azione, l‟impulsività e la giovinezza. Quest‟ultimo termine, così cruciale nel vocabolario fascista, riassumeva virilità, virtù e salute fisica e morale, in perfetta opposizione all‟intellettualismo; ma doveva anche rappresentare, come simbolo di un‟eterna promessa di futuro, la più chiara sintesi semantica di tradizione e avvenire188.
186 R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 51.
187 L. La Rovere, Storia dei Guf. Organizzazione, politica e miti della gioventù
universitaria fascista 1919-1943, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 28.
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Secondo il programma fascista, l‟Italia deve svecchiarsi e cambiare, pur restando ben salda nelle sue tradizioni. Deve farsi finalmente maschia e prendere esempio da coloro che hanno combattuto senza paura durante la Grande Guerra. Solo in questo modo si può portare a compimento il processo di italianizzazione, ormai in sospeso fin dai tempi del Risorgimento, e solo in questo modo si può finalmente far valere il carattere di una nazione giovane, pronta a farsi onore e a conquistare per sé il posto di rilievo che le spetta nei nuovi equilibri del mondo.
Come hanno messo in evidenza contributi storiografici ormai imprescindibili come quelli di Emilio Gentile e di Paolo Nello189, i gruppi originari legati a Benito Mussolini vengono sostenuti fin da subito dai reduci che hanno combattuto nelle trincee durante il primo conflitto mondiale. Ed è bene ribadire, riprendendo le parole di Luisa Passerini, che proprio «nelle trincee si erano fuse le tre determinazioni: giovane, maschio, guerriero, che sarebbero state fondanti ai fini della costruzione stessa dell‟immagine del duce, […] giovane per sempre»190
. Emarginati fin dal loro traumatico ritorno, questi individui reputano il proprio sacrifico sostanzialmente svilito e frustrato, barattato con degli accordi miseri e indegni delle loro condotte di veri guerrieri, di giovani indefessi disposti a morire senza esitazione per il proprio Paese. Al confronto di quanto speso e perso in battaglia, e soprattutto al confronto dell‟enormità della più grande tragedia della storia, l‟Italia postbellica sembra essersi dimenticata della sua meglio gioventù che ha combattuto per essa. Il fascismo riesce a riconsegnare una dignità e soprattutto un compito a questi individui delusi e indignati. Di seguito La Rovere:
il mito fascista della giovinezza non rappresentava soltanto uno scontato espediente propagandistico per chiamare alla mobilitazione una minoranza attiva della popolazione giovanile, […] ma si configurava come il rimedio alla crisi storica di una generazione, la
189 Cfr. almeno E. Gentile, Le origini dell‟ideologia fascista (1918-1925), cit., e P. Nello,
L‟avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, Laterza, Roma-Bari, 1978.
101 «generazione della guerra», offrendole un ruolo e un progetto di rinnovamento-redenzione per il futuro191.
Anche la presa di Fiume, a cui abbiamo già fatto riferimento, è da leggersi in questa chiave. Gli arditi dannunziani partono alla conquista della “città della discordia” mossi da questo acuto senso di tradimento e di insoddisfazione (la famosa “vittoria mutilata”), oltre che dalla promessa di trasgressione assoluta e di avventura che la guerra-festa porta con sé. Nonostante la parabola fiumana venga presto smorzata, essa restituisce bene il fermento reazionario – fomentato soprattutto dall‟umiliazione e dalla voglia di ribalta - che si respira in Italia dopo la catastrofe del conflitto. Fermento che - non stupirà certo apprenderlo - viene considerato il quid, il segno di riconoscimento di una massa d‟eletti, composta da giovani difficili da mettere a tacere, perché coscienti delle proprie forze e delle proprie possibilità. E soprattutto coscienti di quanto gli spetta, a fronte delle loro rinunce e dei rischi assuntisi durante la guerra. È questa l‟esaltazione del combattentismo di cui si parlava nel precedente paragrafo citando Gentile. Combattentismo significa appunto protrarre la condizione di guerra nella vita civile, ossia fare in modo che quel trinomio individuato da Passerini (giovane-maschio-guerriero) resti attivo e operativo di continuo, nella perpetuazione di uno stato d‟eccezione e nella prospettiva di un sovvertimento dello status quo, di un cambiamento che pare essere sempre a un passo, a un orizzonte assai prossimo.
Ben-Ghiat è riuscita perfettamente a mettere in evidenza come il sogno propugnato senza sosta dal fascismo mussoliniano, fin dai suoi prodromi movimentisti e rivoluzionari, è proprio quello della rinascita, di un nuovo risveglio per la nazione: la presa in carico di una «bonifica»192 di massa, a tutto campo, degli animi e dei corpi degli italiani, pronti a divenire “uomini nuovi”. Quello della bonifica costituisce un concetto centrale per comprendere in quale modo il fascismo si insinui e prenda parte attiva nell‟onda lunga dei movimenti nazionalisti e interventisti autoaffermatisi
191 L. La Rovere, Storia dei Guf, cit., p. 35. 192 R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, cit., p. 13.
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come il rimedio alla degenerazione di fine Ottocento, e in quale misura spinga alle estreme conseguenze il mito della giovinezza. Un concetto che, almeno nella fase iniziale del fascismo, va di pari passo con lo svilupparsi del culto della (bella) morte e dei morti, ossia dei caduti, disonorati e misconosciuti da un governo traditore e irriconoscente: ancora una volta, dunque, l‟ideale della gioventù si intreccia a doppio filo con quello, sottaciuto, di un sacrificio da compiersi. Ancora una volta, l‟esaltazione va di pari passo con una implicita richiesta di immolazione preventiva.
Questa promessa di palingenesi, che - come ricorda con acutezza La