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Si è appena accennato al fatto che la Rivoluzione Francese porti con sé un‟inedita immagine della gioventù, alla quale il romanzo di formazione classico tenta di opporne una sua propria, più confortante e più conforme alla pace sociale tra la borghesia in ascesa e l‟antica classe nobiliare. Ma qual è l‟idea di giovinezza che si propaga dai moti rivoluzionari di fine Settecento? Quali sono le sue caratteristiche, e in che modo segna così profondamente l‟immaginario culturale e artistico europeo?

Innanzitutto, più che di semplice immagine, si dovrebbe cominciare a parlare di qualcosa di ben più strutturato e sfaccettato, ossia di un mito. Nell‟introduzione si è già spiegato che un mito va al di là di una semplice e statica rappresentazione simbolica: che si contraddistingue per essere una costruzione discorsiva molto più potente, multiforme e attrattiva di qualsiasi tipo di immagine ricorrente o stereotipica. E che può essere definito un «concetto operativo»46.

45 A. Battistini, I miti letterari della giovinezza alle soglie del Romanticismo, cit., p. 19. 46 G. Leghissa, E. Manera, Mitologie bianche, tra filosofia e scienze umane, cit., p. 18.

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Uno dei molti aspetti del mito che la Rivoluzione porta con sé è quello del futuro come valore assoluto, del domani come paradiso da conquistare e da costruire. Così Battistini:

Il presente dunque non si assommava più pacificamente al passato, ma, accantonata la vecchia logica retrospettiva, ne interrompeva il flusso, proiettandosi vertiginosamente sul futuro con una forte accelerazione temporale. Il domani, lungi dall‟essere prevedibile e deducibile dal passato, cominciava a essere sentito come un enigma, come incognita da sfidare volta per volta con un‟audacia e una furia priva di remore, capace di aggredirlo con una tensione palingenetica. Non per nulla la parola che a fine Settecento ha la maggiore ricorrenza è «rigenerazione», un termine che, laicizzandosi, passa dall‟àmbito religioso a quello politico47.

Nello stralcio appena riportato si trovano già esplicitati alcuni punti che saranno fondamentali per il nostro discorso. Mettendo per ora da parte la suggestione riguardante il continuo e pericoloso scambio semantico tra la sfera religiosa e quella politica tipico dei movimenti e dei regimi della storia moderna e contemporanea48, ciò che qui si vuole sottolineare nuovamente è il fatto che nell‟Europa del Settecento, a seguito della Rivoluzione Francese, si diffonde la convinzione che i giovani siano gli unici in grado di cambiare il mondo, e che di essi soli sia il regno dell‟avvenire. In questo senso, è facile capire perché, di lì a poco, divengano progressivamente il centro e il fulcro di un‟attenzione quasi maniacale da parte dei nascituri stati nazionali, nei cui programmi comincia a occupare un posto di sempre maggiore rilievo la cosiddetta questione giovanile, intesa da una parte quale amministrazione e istruzione di una massa di individui non ancora inseriti nei reticoli del lavoro o della famiglia, e, dall‟altra, quale controllo e soppressione di comportamenti devianti reputati connaturati alla medesima massa di individui. La giovinezza, a seconda dei casi, inizia a trasformarsi in sinonimo di potere o di instabilità, di forza o di lascivia, di generosità o di

47 A. Battistini, I miti letterari della giovinezza alle soglie del Romanticismo, cit., p. 12. 48 Sulla questione cfr. almeno i classici testi di G. L. Mosse, La nazionalizzazione delle

masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Il Mulino, Bologna, 2007 [1974] e Id., Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari, 1998 [1990].

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autoreferenzialità, di rispetto verso i propri antenati o di eversione dell‟ordine costituito. È come se essa venisse intesa come una categoria travalicante le dimensioni biologiche e sociali per poi acquisire i tratti più sfrangiati (e, per questo, più malleabili) di una metafora esistenziale e politica, di una qualità astratta da rivendicare o da aborrire. Un prestigio di cui fregiarsi oppure uno stigma da affibbiare a soggetti ritenuti pericolosi e destabilizzanti. Scrive in proposito Sergio Luzzatto:

la rivoluzione [francese] inaugura intorno ai jeunes gens una retorica politica destinata a bell‟avvenire: la retorica che vuole la gioventù tanto generosa ed esuberante da costituire un pericolo permanente per l‟ordine politico e sociale49

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Dunque ancora la Rivoluzione del 1789 come discrimine. Come evento periodizzante a partire dal quale la giovinezza viene per la prima volta scoperta nella sua dirompenza e per la prima volta imbrigliata nelle reti della retorica politica. Anzi, come l‟evento a partire dal quale la giovinezza diventa un fatto specificatamente politico. Come abbiamo appreso da Battistini e da Luzzatto, da questo preciso momento la sua immagine viene intrecciata in maniera definitiva con un‟idea di rinascita, di riscatto e di cambiamento che avrà larga fortuna nei due secoli a venire. Anche il concetto stesso di rivoluzione, per eccellenza prodotto e produttore della modernità di tutto il mondo, pare essere congenitamente legato con quello di gioventù e quello della sua tensione palingenetica, in una sorta di sillogismo quasi perfetto.

Palingenesi, cioè nuovo cominciamento, rinascita. Ma una rinascita da se stessi, senza padri o controllori, senza re o maestri, dettata dalla volontà di un cambiamento radicale, e dalla coscienza della propria capacità di piegare, modificare e rendere migliore il proprio destino e quello dei propri coetanei. Una coscienza che corrisponde alla presa d‟atto di essere e di riconoscersi giovani, ormai figli di nessuno e perciò fratelli, investiti del

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dovere di cambiare le cose, di rovesciare gli ordini e le gerarchie. Mossi dal dover agire prima che sia troppo tardi50.

Nella sfera del mito della giovinezza nato in seno alla Rivoluzione esiste quindi un altro elemento determinante: l‟azione, che viene eletta a unica via e a principale linguaggio per trasformare il mondo. L‟azione è il mezzo per piegare e per costruire la storia secondo proprio volere. Così come essa è esaltata di per sé, come gesto estemporaneo e quasi slegato da conseguenze, la gioventù viene per la prima volta percepita in ragione della sua specificità e della sua autonomia. Non si tratta più di uno spazio determinato da ciò che lo precede e che lo segue, ma di una stagione indipendente. Ecco dunque fare la sua comparsa nell‟immaginario europeo l‟intrepido maschio ribelle (il cui archetipo, ovviamente, è Napoleone), che si lancia in barricata traboccante delle sue passioni, pronto al sacrificio per difendere il suo ideale e i suoi compagni di battaglia. Egli è l‟eroe capace di rinunciare alla sua stessa vita pur di non scendere a compromessi. E se si pensa che, come abbiamo visto, il romanzo di formazione classico non è altro che la trasposizione simbolica della conformazione a delle regole e a un compromesso sociale auspicato dalla nuova borghesia (inglese e tedesca soprattutto), si può ben capire in che termini esso si contrapponga a questa nuova immagine della giovinezza, i cui prodromi, del resto, possono essere rintracciati anche in opere precedenti come - per limitarci al più canonico esempio51 - I dolori del giovane Werther. In questo romanzo epistolare di Goethe, così pure nel suo futuro “gemello” nostrano Le ultime lettere di

Jacopo Ortis, Battistini ravvede appunto la messa in circolo del conflitto tra

50 In questo senso, è sintomatico che, pur facendo riferimento a contesti storici a noi più

prossimi e immettendosi sulla scia delle tesi del filosofo contemporaneo Roberto Esposito, Gian Mario Anselmi abbia individuato una costante essenziale nella storia politica moderna: la continua e irriducibile contrapposizione tra l‟orizzontalità (presunta) della “democrazia dei fratelli” e la verticalità del “regime autoritario dei padri”, da abbattere per mezzo e in virtù della «forza “feroce” dei giovani» (G. M. Anselmi, Machiavelli e la forza della giovinezza, in S. Verhulst, N. Vanwelkenhuyzen (a cura di), Giorni, stagioni, secoli, cit., p. 142). Anselmi individua in Machiavelli l‟anticipatore di una simile visione della politica, immaginata come spazio del cambiamento e campo di lotta. Il principe ideale tratteggiato nelle pagine del fiorentino, infatti, non è altri che il giovane maschio dominatore che sottomette, in nome della sua forza, della sua spinta vitalistica e della sua spregiudicatezza, la Fortuna, paragonata a sua volta a una ragazza da far propria con ogni espediente necessario.

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l‟ardore e la passione della giovinezza e il principio di realtà dettato dal contratto sociale e dal volere degli adulti. L‟epilogo dei due testi è risaputo: i due ragazzi, ormai rassegnati a non poter amare chi loro vogliono, scelgono di togliersi eroicamente la vita. Qui ancora Battistini:

Per chi come Werther si sente «invasato» […] l‟unica possibilità di evadere è un gesto estremo, protestatario, di ribellione aperta alla grigia e spenta condotta degli uomini maturi, vili e banali nelle loro esistenze regolate sul più anonimo senso comune. Il suicidio risulta l‟esito naturale di una personalità troppo infiammata per potersi adeguare a un mondo rispetto al quale i suoi ardenti furori giovanili si rivelano incommensurabili. E la soluzione estrema e incommensurabile è la stessa di un altro giovane della letteratura, Jacopo Ortis, di cui è risaputa l‟affinità con Werther52

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Simbolo di protesta e di coraggio, il suicidio sembra ribadire il bisogno fisiologico del giovane di fuoriuscire dal solco tracciato dai propri padri e dalla propria classe di appartenenza. Il suicidio è l‟azione assoluta, il gesto sprezzante e sacrificale che scandalizza e sconcerta. Non appare mai quale atto di rinuncia o di autoesclusione: viene esaltato solo nell‟ottica pocanzi discussa, secondo la quale l‟agire è celebrato in ogni caso, come valore positivo e costitutivo di una certa idea della gioventù. Scrive Gino Tellini sull‟Ortis foscoliano: «La morte si delinea, per vendetta contro la tirannia del padre e la nequizia dei tempi, come affermazione di sé»53. La scelta definitiva non è altro che l‟ostentazione più radicale del proprio esser giovani, e capaci di fare qualsiasi cosa pur di protestare contro un ordine (politico o familiare poco importa, perché, come sempre, la parte può stare

52 A. Battistini, I miti letterari della giovinezza alle soglie del Romanticismo, cit., p. 25.

Inoltre, è da segnalare che il Settecento si configura come il secolo nel quale prende piede una prima forma di “coscienza generazionale”, strettamente connessa all‟avvento della gioventù in quanto categoria sociale, ma comunque indipendente e specifica. Una coscienza che prende forma anche grazie a opere letterarie quali il Werther goethiano e alla temperie preromantica diffusa dallo Sturm und Drang. Sulla questione cfr. almeno C. Donati, Il problema delle generazioni nella storia e le sue radici settecentesche: spunti per una ricerca, in C. Mangio, M. Verga (a cura di), Il Settecento di Furio Diaz, Edizioni Plus-Pisa University Press, Pisa, 2006, pp. 116-119.

53 G. Tellini, Il romanzo italiano dell‟Ottocento e del Novecento, Bruno Mondadori,

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per il tutto) al quale non si è disposti a sottomettersi. Perfino decidere di rimanere per sempre tali, uccidendosi.

Com‟è noto, circa un secolo più tardi, partendo proprio dai medesimi assunti di questa tradizione protoromantica, Italo Svevo ribalterà completamente e ironicamente tale rappresentazione del suicidio, esasperandone e stravolgendone gli aspetti più patetici e velleitari. Il protagonista di Una vita Emilio Brentani, impiegato anagraficamente giovane, mette fine ai suoi giorni per evitare un duello (dall‟esito negativo quasi certo) e per sfuggire a una situazione compromettente. Non è più esaltato il gesto in sé, né tantomeno il coraggio, o la sua inevitabilità, pur tragica e drammatica. Piuttosto, il suicidio dell‟impiegato sembra un altro dei suoi trucchi messi a punto per ribadire la sua presunta superiorità nei confronti di chi lo circonda. Una delle sue trovate meschine e posticce, importate di peso dai suoi troppi libri letti e mal compresi, di cui nessuno, ovviamente, coglierà il messaggio che egli auspica e si immagina. Il romanzo di Svevo si chiude con una lettera (anche qui il legame col modello epistolare foscoliano è evidente) pervenuta all‟ufficio dove Brentani lavora. L‟antieroe sveviano sogna e spera di diventare un eroe da romanzo, ma il suo nome e la sua morte finiranno per essere ricordati solo tra le righe fugaci di una più che burocratica comunicazione di servizio54.