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CAPITOLO 2: GIORNALISTI IN UNIFORME

2.2 La nascita del giornalismo embedded

Un giornalista e inviato di guerra molto noto, come Ennio Remondino, in maniera un po’ provocatoria scrive che il primo giornalista embedded della storia fu Omero.

Remondino sostiene, infatti, che “la storia delle guerre è piena zeppa di giornalisti che le guerre, più che raccontarle, le hanno sponsorizzate ed esaltate”IV e Omero, infatti, nella sua Iliade, per

compiacenza di chi lo pagava, fu costretto a inventarsi storie di rapimenti e di nobili sentimenti che ruotarono attorno al discutibile onore di Elena e del marito tradito, Menelao, per giustificare il tentativo degli Achei di conquistare le terre dei TroianiV.

Chiara la provocazione di Remondino, che dà al termine embedded un'interpretazione personale ed estensiva, riferita a tutti coloro che hanno raccontate le guerre da un solo punto di vista, senza rinunciare a un certo “tifo” di parte.

Inoltre nel breve excursus sulla storia del giornalismo di guerra abbiamo visto come molti inviati del passato, avessero lavorato in condizioni molto simili a quelle che noi oggi attribuiamo agli embedded contemporanei. Molti furono gli inviati speciali che seguirono la guerra al seguito delle truppe.

IV E. Remondino, L’informazione bombardata dalla politica in Il braccio legato dietro la schiena, pp. 316

V

Tuttavia ciò che è avvenuto nel secondo conflitto iracheno, a partire dal marzo 2003, è stato qualcosa di leggermente, ma significativamente, diverso da ciò che era sempre avvenuto.

Non erano più solo i giornalisti a chiedere, in determinati momenti, di poter essere accompagnati al fronte, non vi erano più accordi presi sul campo, come sorta di piaceri, “passaggi” verso mete non proprio turistiche. Nulla era più lasciato al caso. Non era più permesso ad alcuni giornalisti di intrufolarsi ed essere ospitati, sottostando a regole arbitrarie e stabilite dal comandante del caso. Tutto doveva essere organizzato in modo “scientifico” e avrebbe dovuto seguire un iter burocratico ben preciso. L’organizzazione dell’apparato informativo del conflitto veniva studiato dal Pentagono che aveva deciso di cambiare la strategia di comunicazione durante i preparativi della seconda guerra del Golfo.

Ricordando le opinioni di Howard Kurtz (giornalista del Washington Post), le operazioni militari, dopo il Vietnam, vengono organizzate solo dopo che si è preparata una struttura di assorbimento di tutte le richieste mediatiche. Non è affatto un caso che il Pentagono, per esempio, abbia avviato la procedura per “arruolare” giornalisti embedded più di un anno prima dell’inizio del conflitto in Iraq, e che i giornalisti embedded prescelti fossero convocati a Kuwait City una decina di giorni prima l’inizio del conflitto vero e proprio. Tutto doveva essere pronto e strutturato, anche mediaticamente, anche se, ufficialmente, non c’era ancora la certezza del conflitto.

Il giornalismo embedded è, al momento, la conseguenza finale di un’elaborata pianificazione mediatica che si è progressivamente

evoluta, dalla guerra in Vietnam ai giorni nostri, ed è questo l’elemento di grande novità rispetto a tutti gli altri casi di inviati di guerra che avevano già in passato seguito diversi eserciti al fronte.

Il fatto che il voler dei giornalisti al seguito sia stata una decisione presa dall’alto, è sicuramente l’elemento rivoluzionario che ha creato una frattura con ciò che è sempre stato, suscitando giustamente sospetto e perplessità.

Dopo il criticato silenzio imposto nella prima guerra del Golfo e in quella del Kosovo, dopo l’11 settembre e un nuovo clima di solidarietà nazionaloccidentale sperimentato anche durante la guerra in Afghanistan, tutto sembrava pronto per far accedere dei giornalisti prescelti dal Pentagono nel teatro di guerra.

Nasce così, con l’inizio del secondo conflitto iracheno, un nuovo modo di far giornalismo: il giornalismo embedded.

Dopo l’11 settembre forse la dichiarazione di Schechter potrebbe essere considerata eccessiva, ma è a ogni modo utile per comprendere, in linea di massima, la tendenza politica intrapresa dai media. Questa, quasi certamente fu ben avvertita anche dai responsabili della comunicazione del Pentagono, che videro con minore diffidenza la possibilità di far accedere ai teatri di guerra i giornalisti.

La pianificazione del giornalismo embedded era in atto e verosimilmente la sensazione avvertita di una maggiore compattezza nazionale, lasciava presagire che difficilmente, nel corso di un conflitto, un giornalista, avrebbe osato ledere gli interessi della propria

nazione impegnata nella guerra, sfidando la solidarietà patriottica dell’opinione pubblica.

Un altro elemento sui cui riflettere dopo l'11 settembre, è il fatto che dopo questa data si è ulteriormente aggravata la situazione sullo stato di sicurezza di cui dovrebbero godere i giornalisti. Nel 2000 Mimmo Candito scriveva che era buona norma per i reporter viaggiare accompagnati da almeno un americano perché “prima di far fuori un americano - giornalista o soldato, non fa differenza - i comandi militari nemici ci pensano almeno quattro volte…”VI.

Dopo l’attentato alle Twin Towers, un americano, se pur giornalista, appare invece preda ambita per imboscate, rapimenti, esecuzioni, al pari di come lo sono diventati in diverse aree del mondo, indistintamente, tutti gli occidentali, giornalisti e non.

“The clash of civilizations” anticipatamente previsto da Huntington, se non ancora in atto, è vissuto da molti integralisti. Il messaggio del terrorista Al Zarkawi che proclama ai suoi fedelissimi: “se tra gli infedeli ci sono anche delle brave persone, non preoccupatevi di annientarle, perché Allah ci ordina di farlo” è un concetto fin troppo esplicito e molti avvenimenti accaduti recentemente a giornalisti sembra confermare che sia stato in parte recepito.

Tuttavia il problema della sicurezza non è solo imputabile allo scontro di civiltà. Gli anni Novanta hanno visto un progressivo deteriorarsi dello status di sicurezza del giornalista. In molti conflitti si è intuito come le denunce dei reporter potessero rivelarsi

VI

estremamente minacciose. La morte di Ilaria Alpi nel 1993 è stata uno dei numerosi segnali di questo cambio di tendenza.

Con gli anni, la caccia ai giornalisti è sembrata più strutturata. Nella guerra dei Balcani, le milizie di Milosevic sembravano aver capito molto bene che i giornalisti stavano cercando di documentare il genocidio dei serbi musulmani, e per questo, alla stampa non fu certo riservato un trattamento di favore.

Il tema ovviamente ha avuto ripercussioni sui mass media e sul modo di affrontare le guerre successive, tra cui naturalmente quella in Iraq.