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Il Vietnam in salotto: l’avvento della T

La guerra in Tv arrivò, quasi all’improvviso, nei salotti degli americani all’ora di cena. Si tratta della guerra del Vietnam ed è utile tracciare il contesto storico in cui si colloca: la presa di coscienza dopo le due guerre mondiali dell’importanza della propaganda in guerra e della gestione dell’opinione pubblica in tempo di pace e la nascita del mezzo televisivo.

Questa guerra (1954-75) fu combattuta in nome dell’anticomunismo; all’inizio l’intervento americano è defilato e di solo appoggio al Vietnam del Sud, per poi intensificarsi progressivamente: il governo Kennedy vuole però nascondere il più a lungo possibile l’esistenza di una vera guerra in Vietnam.

Tuttavia, dopo un po’, la presenza americana significa ormai guerra aperta e si vuole avviare una politica di larga costruzione del consenso, lasciando via libera a tutti i media: non c’è censura ed agli accreditati viene fornita ogni cooperazione ed assistenza.

I giornalisti quindi circolano sui terreni di guerra in totale libertà con il rango di ufficiali. All’inizio la guerra è raccontata come una marcia trionfale, giustificata dalla difesa della democrazia contro il totalitarismo. Il motto ufficiale di Washington è: “Una guerra fondamentale per la difesa del mondo intero contro la possibilità del costituirsi di un blocco comunista in Asia”2. Naturalmente il Pentagono promuove una linea di informazione propagandistica, volta a sostenere un discorso patriottico. Ciononostante molti giornalisti

svolgono un reale lavoro di denuncia, che permette di svelare al mondo i molteplici crimini compiuti dagli americani.

La copertura televisiva della guerra è bassa ed occasionale fino al 1965, per poi crescere fino all’aprile del ’68 e diventare più regolare fino al 1973. Per il Vietnam fino al ’68 l’orrore non è mostrato, gli anchorman hanno la funzione di parlare di patrioti, del coraggio dei “nostri” ragazzi, della precisione delle armi ad alta tecnologia: è una telecronaca soft della guerra. La rappresentazione televisiva porta ad una teatralizzazione della cronaca di guerra, con la quale si idealizza il conflitto e si diffonde la figura mistica dell’eroe americano. In questo tipo di cronaca è impensabile che ci sia lo spazio per la critica. Ad un certo punto però la guerra, contro un paese nettamente inferiore tecnologicamente, stava durando più del previsto ed il Pentagono fa credere che la vittoria sia imminente. Ma l’azione offensiva terrestre del Tet non porta i risultati sperati e per l’opinione pubblica diventa ormai chiaro che l’America sta perdendo la guerra. Con l’offensiva del Tet la cronaca televisiva era quindi cambiata, diventando più drammatica e critica. D’un colpo crolla lo schema semplificatorio di un Vietnam del Sud democratico contro l’invasione del Nord comunista e con l’intensificazione dell’attività giornalistica aumentano le immagini di vittime civili e di distruzioni urbane: per la prima volta la guerra appare in televisione come un brutto affare. Brevi sequenze di immagini, non belle, non ricostruite come in un film, anzi spesso in bianco e nero, con immagini sgranate, con forte sapore di realtà. L’impatto è duro: i volti che appaiono, per un attimo, sul piccolo schermo sono di ragazzi che sembra di conoscere.

Sarà stato che per la prima volta le immagini televisive potessero documentare una guerra; sarà stato che la deontologia professionale fosse maturata e avesse dato coscienza ai giornalisti, spingendoli verso la verità; sarà stato che il fronte di guerra fosse non ben conosciuto e di difficile controllo da parte delle autorità militari; sarà stato che ci si trovasse in particolari condizioni socio-politiche; sarà stato per queste e altre ragioni, ma la guerra in Vietnam costituisce un unicum nella storia del giornalismo di guerra per le verità rivelate, per il numero di denunce portate a conoscenza dell'opinione pubblica e per le ripercussioni avute sul giornalismo futuro.

Gli ultimi sei anni di questa lunga guerra furono quelli in cui si registrò una vera e propria denuncia giornalistica per raccontare “la sporca faccenda”. Siamo negli anni del ’68, della contestazione sociale, anni in cui nasce il mito romantico (anche cinematografico) dell’inviato di guerra, disposto a rischiare la vita per descrivere verità sconosciute o volutamente oscurate.

Numerosissimi giovani giornalisti provenienti da tutto il mondo si recarono in Vietnam per raccontare ciò che stava accadendo, molti di questi furono i primi free-lance, ossia i primi giornalisti indipendenti che si finanziarono vendendo i propri servizi.

Le immagini televisive e i racconti di guerra avevano coinvolto l’opinione pubblica come mai era accaduto nella storia. L’aiuto delle nuove tecnologie fu fondamentale, i mass media diventarono consapevoli di essere il “quarto potere” e il popolo guidato dalla generazione dei “Baby boomers” capì la possibilità di influenzare la

politica di governo. Le proteste e le richieste di spiegazioni su quella guerra, voluta dal presidente americano repubblicano Eisenhower, proseguita dal democratico Kennedy, misero in difficoltà gli ultimi due presidenti dell’era del conflitto, Johnson e Nixon, che si scontrarono con una crescente contestazione.

Alcuni quotidiani effettuarono inchieste che diedero una delle ultime spallate alla politica bellica. Il New York Times e il Washington Post pubblicarono addirittura le “carte del Pentagono”, svelando il progetto politico dell’amministrazione statunitense di fuorviare l’opinione pubblica. La prima sconfitta militare statunitense fu causata dunque, soprattutto da una sconfitta mediatica, subita sul fronte interno, americano e occidentale.

La valenza dei media incominciava a essere globale e per questo anche in Europa erano state numerosissime le contestazioni.

Da questa sconfitta negli Stati Uniti si determinarono notevoli ripercussioni che manifestano le loro conseguenze ancora ai nostri giorni.

Come sottolinea Howard Kurtz, mediologo del Washington Post, da allora, è nata un’attenzione specifica sui media che non aveva precedenti. Egli sostiene che dopo il Vietnam, “i pianificatori militari americani badano bene che una guerra venga scatenata se prima non si è provveduto a preparare una struttura di assorbimento di tutte le possibili richieste dei media”IX

Queste pianificazioni ebbero una lunga e studiata degenza. La politica estera militare degli Stati Uniti dal 1975 rimase pressoché

bloccata per tredici anni, finché con la prima guerra del Golfo, la potenza militare rientrò in azione, ma questa volta supportata da una scrupolosissima strategia mediatica.

Oltre alla crescente manipolazione informativa, da allora è però aumentata anche l’importanza e la reputazione degli inviati speciali, dovuta in parte alla popolarità che la visibilità televisiva era in grado di offrire. Ciò ha contribuito a una maggiore vigilanza dell’opinione pubblica sui Mass Media.

Questi concetti sono ben espressi da Mimmo Candito che spiega come sia “diventata più acuta l’attenzione verso il linguaggio dei media, da quando i rischi di una manipolazione oggettiva del messaggio sono apparsi più evidenti con l’egemonia che il modello della comunicazione televisiva ha conquistato su ogni altro mezzo di comunicazione”X.

Questa maggiore attenzione rivolta al giornalismo ha fatto sì che

l’esigenza di un’offerta informativa adeguata fosse una spina nel fianco dell’organizzazione mediatica imposta dalla politica militare durante le due guerre del Golfo.

All’interno di questa mediazione tra offerta e domanda giornalistica si svilupperà la figura dell’embedded.

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