Libro II del Titolo II del Cpmg è dedicato ai reati contro la fedeltà e la difesa militare.
3.4 Il giornalismo di guerra nel diritto internazionale 1 Le Convenzioni di Ginevra
3.4.9 Unione europea: la carta dei diritti fondamentali e il Parlamento
Il 7 dicembre 2000, in occasione del Consiglio Europeo di Nizza, è stata proclamata la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, la quale all'articolo 11 recita:
"(omissis) 1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di
ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche o senza limiti di frontiera.
2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati (...)". Il 23 settembre 1993 il Parlamento europe si era già occupato della tutela dei diritti dei giornalisti in zone di guerra con il Rapport de la comission des affaires étrangères et de la sécurité sur la protection des droits des journalistes dans le cadre de missions dangereuse, redatto da M. Jean Willem Bertens (documento n° A3-0257/93).
CAPITOLO 4: L’IRAQ
L’IFJ ha stimato che circa 3000 giornalisti e operatori dei media hanno operato in Iraq e nei paesi vicini durante l’ultimo conflitto armato.
La questione degli embedded e degli unilateral ha aperto un’ampia controversia nell’industria della comunicazione.
Mentre pochi media hanno rifiutato l’opportunità di inserire i loro dipendenti nel gruppo di 600 reporter aggregati alle unità militari della coalizione, è stata altresì riconosciuta la necessità di una copertura indipendente della guerra.
Il caos della guerra, dunque,ha travolto subito i giornalisti e li ha resi, malgrado loro, vittime annunciate di un conflitto in cui avrebbero dovuto avere il solo ruolo di commentatori di una cavalcata inarrestabile verso la capitale irachena.
Il 25 marzo gli americani lanciarono un assalto missilistico contro la stazione radio televisiva statale irachena. L’IFJ condannò immediatamente l’attacco e insistette perché si aprisse un indagine delle Nazioni Unite su un attacco che appariva come “un atto di violenta censura che viola la Convenzione di Ginevra”. L’intera opinione pubblica mondiale era concorde sul fatto che “prendere di mira i giornalisti non avrebbe fatto vincere la guerra, ma avrebbe solo minacciato le vite dei reporter e causato molte falsità, speculazione e ignoranza su quanto sarebbe accaduto nel caos del conflitto”.
L’attacco ricordò fin troppo da vicino quello messo a segno della Nato alla Radio Televisione Serba durante la guerra tre anni
prima, in cui rimasero uccisi 16 operatori dei media. “Ancora una volta, vediamo comandanti politici e militari del mondo democratico prendere di mira i network televisivi statali semplicemente perché non apprezzano i messaggi che mandano in onda,” scrisse l’IFJ in quel messaggio che molti media interpretarono come un semplice e “doveroso” epitaffio ad una televisione “di regime”.
Ma le affermazioni del portavoce americano secondo cui la stazione televisiva era un “punto chiave del comando di Saddam Hussein” furono smentite dall’IFJ, che trovò come principale motivazione dell’attacco la “rabbia e la frustrazione dei leader politici americani di fronte alle immagini dei prigionieri americani trasmesse in televisione e l’uso del mezzo televisivo per sollevare il morale dei sostenitori del regime di Saddam Hussein.”
Una delle più pretestuose affermazioni confutate fu quella secondo la quale il regime iracheno stava usando la televisione per mandare messaggi in codice al suo esercito. “L’idea che i soldati iracheni stiano seduti nel deserto a guardare la televisione per ricevere ordini è assurda,” scrisse, con più di qualche ragione, l’IFJ. Ma intanto, l’idea di smantellare a suon di missili la televisione pubblica del Paese attaccato era stata di nuovo messa in pratica.
L’attacco alla televisione di stato, oltre che inaudito e ingiustificabile, fu l’atto che modificò nella sostanza il rapporto tra i militari di entrambi i fronti e i giornalisti che si aggiravano nelle zone in cui avvennero i pochi scontri di questa strana guerra. L’attacco alla televisione di stato rappresentò la soglia oltrepassata la quale i giornalisti risultarono improvvisamente invisi dai soldati.
Qualcuno degli inviati ebbe a dire in seguito: “Fu come se i dadi fossero stati rilanciati, ma non prima di aver modificato tutte le regole. Diventammo i principali nemici di tutti.
Diventammo un obiettivo, forse l’unico preciso per tutti i contendenti”. Sempre il 2 aprile, l’hotel di Bassora usato come base dai corrispondenti di Al Jazeera viene colpito dalle forze di coalizione. Non ci sono feriti, ma Al Jazeera scrive nuovamente al Pentagono per fornire completi dettagli sulla locazione di tutti i suoi giornalisti e uffici in Iraq.
Come si vedrà in seguito la fornitura di tali dettagli non impedirà altri attacchi alle strutture della televisione araba con base in Qatar.
Il 3 aprile, giornalisti e media si uniscono per protestare con forza contro la discriminazione verso i giornalisti indipendenti quando alcune troupe di informazione, che non facevano parte degli embedded, erano state forzate a lasciare il sud dell’Iraq. L’IFJ e la European Broadcasting Union condannano l’azione come “inaccettabile discriminazione.”
Questa serie di drammatici, tragici e dolorosi incidenti sono il preludio di uno degli eventi più controversi e scioccanti della guerra, avvenuto l’8 aprile, quando il Palestine Hotel nel centro di Baghdad, dove risiedevano più di 150 giornalisti e operatori dei media di tutto il mondo, viene attaccato dalle forze della coalizione entrate nella città.
Un cameraman ucraino della Reuter, ed uno spagnolo di Telecinco, morirono dopo che un carro armato americano colpì l’hotel, mentre altri tre giornalisti restarono feriti tra le macerie di un
edificio, noto a tutti come base della stampa internazionale. Ma l’8 aprile fu proprio una giornata tragica per l’informazione. Contemporaneamente all’attacco all’Hotel Palestine, a poca distanza, un giornalista di Al Jazeera morì in seguito alle ferite ricevute quando una bomba americana colpì l’ufficio del network situato sulla riva del fiume Tigri. Anche l’ufficio del network arabo Abu Dhabi TV fu bombardato.
Mentre gli eventi avvenuti nel centro di Baghdad scioccavano l’opinione pubblica mondiale, altri giornalisti rischiavano le loro vite. I media furono presi di mira al di là del fatto di essere americani, iracheni od appartenenti a Paesi neutrali, ma semplicemente per il fatto di diffondere le immagini della guerra in tutto il mondo.
Il pensiero comune è che si tratti di censura, anche se accuratamente camuffata sotto forma di incidenti di vario tipo.
Quando le forze anglo-americane iniziarono a prendere il controllo di Baghdad e delle altre maggiori città, la scena dei media locali si trasforma.
Il 20 aprile forse non sarà ricordato dal popolo iracheno come data storica ma è, di certo, un giorno di grande importanza per i giornalisti iracheni.
Il Partito Comunista Iracheno (CPI) distribuì gratuitamente proprio quel giorno una copia del suo quotidiano Tariq al-Chaab (La voce del popolo).
Tariq al-Chaab è stato il primo quotidiano iracheno ad apparire nella capitale da quando i quotidiani ufficiali Babel e Al-Thawra
avevano cessato di uscire il 9 aprile. Tariq al-Chaab aveva smesso di essere edito nel 1979 dopo un raid in cui circa 70mila membri del partito comunista erano stati arrestati e imprigionati. L’uscita del quotidiano comunista apre il fiore delle possibilità.
Il 25 aprile il quotidiano curdo Al-Ittihad fu distribuito a Baghdad.
L’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK) distribuì il giornale in lingua araba, annunciandolo come il primo giornale curdo pubblicato nella “liberata Baghdad” e distribuito in Iraq. Il 18 aprile, un altro dei principali gruppi curdi, il Partito Democratico del Kurdistan (KDP), distribuì10mila copie gratuite a Baghdad del suo giornale in lingua araba Karbat.
Intanto una stazione radio chiamata “Voce del nuovo Iraq” iniziò le trasmissioni in arabo dall’aeroporto internazionale di Baghdad il 19 aprile con programmi preparati dagli impiegati della ex radio di Stato e dagli iracheni di ritorno dall’esilio, e supervisionato dall’Ufficio per la ricostruzione e gli aiuti umanitari (ORHA), creato ad hoc dagli americani.
Il 1 maggio, il presidente americano George W. Bush annuncia solennemente che la guerra è finita, tuttavia nei mesi successivi la dichiarazione di pace sono morti più di trenta giornalisti.