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Il nuovo esercizio provvisorio come regolato dall’art.211 d.lgs 14/2011

LA PROSECUZIONE DEI RAPPORTI DI LAVORO NELLA LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE

2.1 Il nuovo esercizio provvisorio come regolato dall’art.211 d.lgs 14/2011

Occorre ora menzionare i cambiamenti che si sono verificati a seguito della legge delega 155/2017. Abbiamo già avuto modo di notare come la disciplina del Regio Decreto del 1942 conferiva al fallimento una funzione principalmente afflittiva e sanzionatoria, attraverso una concezione “pubblicistica” delle procedure. Tale funzione pubblicistica veniva realizzata attraverso l’estromissione e la conseguente eliminazione dal tessuto economico e sociale dell’impresa, incapace di soddisfare le pretese creditorie. Le finalità

della legge fallimentare erano, dunque, meramente liquidatorie, dove non era concepito un eventuale ritorno alla prosecuzione dell’attività con conseguente tutela dei livelli occupazionali. A seguito del mutato contesto, abbiamo avuto modo di vedere che, oggi, l’obiettivo primario è salvare le imprese o, quantomeno, liquidarle senza che ne venga disperso il loro valore d’avviamento. Per fare ciò è necessario che si intervenga tempestivamente. In tale cornice, si inserisce il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, ampio di nuovi contenuti75. In primis, occorre evidenziare che la sostituzione del termine “fallimento” con la locuzione “liquidazione giudiziale” elimina in via definitiva qualsiasi collegamento all’anacronistico modo di vedere il debitore insolvente; non più un soggetto da eliminare, da accantonare perché pregiudizievole per l’intera economia, ma bensì un soggetto da reintegrare nel tessuto sociale. La ratio sottesa alla riforma tradotta nel Codice della crisi e dell’insolvenza conduce nella direzione di privilegiare le soluzioni conservative dell’impresa, con ciò che ne consegue in termini di tensione verso la salvaguardia dei livelli occupazionali. Così, nella legge delega troviamo confermato il principio secondo cui l’istituto in esame perde quella centralità

caratterizzante all’interno della vecchia legge fallimentare, trasformandosi in uno

75 Cfr. G. BONFANTE commento a D.lgs 12 gennaio 2019 n.14 (Codice della crisi e dell’Insolvenza); il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, in Giurisprudenza Italiana, 2019, fasc. 8-9, pp. 1943-1948;

strumento marginale, quale extrema ratio, dovendo tale procedura essere esperita solo quando «non sia proposta un’idonea soluzione alternativa», capace di garantire «il superamento della crisi assicurando la continuità̀ aziendale» (art. 2 co. 1 lett. g)76. Frutto dei lavori della Commissione Rordorf 77 , il nuovo Codice sembra rispondere ai tre macro-obiettivi indicati nella legge delega n.155/2017, realizzando così l’ammodernamento del diritto delle procedure concorsuali, garantendo un sistema chiaro ed organico, colmando le lacune, già studiate nel precedente capitolo, presenti nel nostro ordinamento, arrivando alla conclusione di un necessario passaggio da una fase di gestione della crisi e dell’insolvenza, ad una fase di prevenzione. Con la Riforma Rordorf, il legislatore mira a restituire al fallimento una dimensione più fisiologica, anche dal punto di vista della percezione estetica: la crisi deve essere interpretata e riconosciuta come una semplice eventualità nella quale un imprenditore può incorrere nel corso del ciclo di vita dell’impresa. Inoltre, tali nuove indicazioni introdotte dal codice, mostrano un particolare interesse per la materia a noi interessata. L’art.2, comma I, lett. p) dispone che le procedure di gestione della crisi e dell’insolvenza del datore di lavoro debbano essere armonizzate con le forme di tutela dell’occupazione e del reddito dei lavoratori che trovano fondamento nel diritto europeo e, in particolar modo, nella Carta sociale europea del 1996, nella direttiva 2008/94/CE sull’insolvenza dei datori di lavoro e nella direttiva 2001/23/CE in materia di tutela dei lavoratori coinvolti in un trasferimento d’impresa.

L’art. 7 comma. 7 dispone, poi, che nella riformulazione della disciplina della procedura di liquidazione «la disciplina degli effetti della procedura sui rapporti di lavoro subordinato è coordinata con la legislazione vigente in materia di diritto del lavoro per quanto concerne il licenzia- mento, le forme assicurative e di integrazione salariale, il trattamento di fine rapporto e le modalità di insinuazione del passivo». In questo modo sembrerebbe che i diritti dei lavoratori sarebbero, perciò, stati inclusi nel novero degli interessi da considerare e tutelare nell’ambito della gestione della crisi. Questo cambiamento di approccio rispetto alla normativa preesistente non può essere sottovalutato nell’analisi dei profili che qui interessano: la tutela dell’occupazione non è

76 M.L.VALLAURI, La tutela dell’occupazione nel nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza dell’impresa, in Lavoro e diritto, Fascicolo 2, 2020, p. 315

77 Con il con il Decreto Ministeriale 28 gennaio 2015 venne istituita la Commissione di Riforma presieduta dal Presidente Renato Rordorf con il compito fondamentale di introdurre strumenti volti a far emergere in via preventiva lo stato di crisi dell’impresa attraverso una riforma della disciplina

concorsuale non più episodica e stratificata, bensì organica e sistematica.

più un valore estraneo al diritto fallimentare e, anzi, va bilanciato con le esigenze creditorie. Proprio in questo bilanciamento la rilevanza del momento liquidatorio o di conservazione aziendale all’interno delle procedure concorsuali non è di poco conto ed anzi condiziona, dal punto di vista giuslavoristico, l’equilibrio possibile. E peraltro è la continuità occupazionale, ancor più che quella dei crediti di lavoro, ad essere considerata irrinunciabile: la deroga ad alcuni diritti non comprende il passaggio necessario di tutti i lavoratori al cessionario se non quando l’impresa è condannata alla liquidazione. Ciò significa, argomentando a contrario, che quanto più nell’ambito delle procedure di crisi e di insolvenza si marginalizza il momento liquidatorio tanto più le esigenze occupazionali devono trovare accoglimento e garanzia, potendosi rinunciare ad alcuni diritti ma non al valore occupazione. Come abbiamo poc’anzi affermato, il fallimento, oggi liquidazione giudiziale, non è più la regola generale alla conseguenza di una crisi d’impresa, ma la legge fallimentare riformata tende sempre di più verso soluzioni alternative volte a consentire la prosecuzione dell’attività d’impresa e assicurare il mantenimento dei complessi produttivi78. Un esempio di tale impianto è rappresentato dalle modifiche che hanno riguardato la procedura fallimentare, in particolar modo con riguardo alla disciplina prevista per l’esercizio provvisorio e l’affitto d’azienda (artt.104 e 104-bis, l.fall., oggi art.211 D.lgs.14/2019). Entrambi gli istituti hanno in comune il medesimo obiettivo: la preservazione dell’integrità e funzionalità dei complessi produttivi in vista della loro cessione a terzi, per prevenire il rischio di dissoluzione definitiva di valori, soprattutto immateriali, di consentire la riallocazione di risorse potenzialmente produttrici di ricchezza e la conservazione dei livelli occupazionali79. L’esercizio provvisorio, nel R.D. n. 267/1942 era disciplinato dall’art.104. Secondo tale norma, il tribunale, con la dichiarazione di fallimento, poteva disporre la continuazione temporanea dell’attività

economica del debitore ove dalla sua improvvisa interruzione potesse derivare un danno grave ed irreparabile. Si trattava di un istituto disciplinato alla stregua di una misura-tampone volta a favorire la liquidazione dei beni aziendali piuttosto che dell’azienda, era in linea con una visione statica come mero strumento in funzione della tutela di interessi privatistici di cui è portatore il ceto creditorio80 . La nuova disciplina, che l’art.211 D.lgs.

78 F. BARACHINI, La nuova disciplina dell’esercizio provvisorio: continuità dell’impresa in crisi nel (e fuori dal) fallimento, in Società, Banche e Crisi d’Impresa, UTET GIURIDICA, 2014, III, p. 2863

79 A. NIGRO, D. VATTERMOLI, Diritto Della Crisi Delle Imprese: Le Procedure Concorsuali, cit., p. 232

80 CNDCEC, L’esercizio provvisorio dell’impresa nel fallimento (art. 104 L. F.), Quaderno maggio 2016, p. 6.

14/2019 riserva all’istituto dell’esercizio provvisorio dell’impresa, che ora è rubricato nel Capo IV come “esercizio dell’impresa del debitore”, prevede, a differenza di quanto avveniva nel passato, che il Tribunale possa disporre l’esercizio dell’impresa per l’azienda nel suo complesso o per rami specifici della stessa con la stessa sentenza dichiarativa di fallimento81. La norma che lo contempla presenta un assetto affine a quello dell’art.104 l.fall. A norma di tale nuova impostazione, la salvaguardia del patrimonio aziendale, attuata attraverso la continuazione temporanea dell’attività dell’impresa, si inserisce ora in un disegno più organico, la cui ambiziosa intenzione è quella di assicurare, oltre alla fase principalmente liquidatoria, cui era ispirata la disciplina del 1942, la conservazione delle componenti positive dell’impresa, quali non solo i beni materiali, ma altresì l’avviamento e le altre componenti immateriali dell’attivo, nonché i livelli occupazionali82. In questo caso, l’esercizio dell’impresa risponderà a una funzione

“terapeutica”, teso a consentire la tutela dell’unitarietà dei complessi produttivi, o delle loro sezioni, ancora residualmente rivitalizzabile. Nella delineata cornice, l’esercizio dell’impresa rimane strumento propedeutico alla massimizzazione dell’attivo, comunque ancillare alla tutela del credito e non finalizzato alla protezione dell’impresa in sé e per sé. Tale nuova inclinazione, infatti, attiene ad una più compiuta percezione dell’azienda come centro di produttività ed entità suscettibile di autonoma circolazione.

Con la modifica di tale art. si porta finalmente al termine l’iter legislativo che conferisce alle vicende circolatorie dell’impresa fallita quella regolamentazione generale che prima della riforma era stata affidata a sporadici interventi legislativi riguardanti unicamente le aziende cd. socialmente rilevanti83. Il 1° comma dell’evocato art. 211 prevede adesso che “L’apertura della liquidazione giudiziale non determina la cessazione dell’attività d’impresa quando ricorrono le condizioni di cui ai commi 2 e3”. Due restano, a tenore di questi ultimi commi, le ipotesi possibili di gestione provvisoria dell’impresa fallita.

L’anzidetto 2°comma ricalca il 1°comma dell’art. 104 L. Fall., dal che scaturisce l’invariata competenza del Tribunale concorsuale ad autorizzare, con la sentenza che

81 Nella versione ante-riforma l’esercizio provvisorio dell’attività d’impresa poteva essere disposto dal tribunale successivamente alla sentenza dichiarativa di fallimento, ossia una volta intervenuto il decreto che aveva dichiarato esecutivo lo stato del passivo, il comitato dei creditori era chiamato a pronunciarsi sull’opportunità dell’avvio o della continuazione dell’esercizio provvisorio. Il parere negativo del comitato dei creditori impediva l’inizio o la prosecuzione dell’esercizio d’impresa. Cfr. M. SANDULLI, La crisi dell’impresa, in Manuale di diritto commerciale, Giappichelli, Torino, 2006, p. 40.

82 A. CORRADO, D. CORRADO, op.cit. p.136

83 F. FIMMANO’, Fallimento e circolazione dell’azienda socialmente rilevante, Milano,2000, p.8

aprirà la liquidazione giudiziale (in luogo del fallimento), la prosecuzione dell’impresa o di “specifici rami dell’azienda”, qualora dall’interruzione possa derivare “un grave danno”, a condizione che “la prosecuzione non arrechi pregiudizio ai creditori”. Con ogni inconfutabilità, si dimostra la rielaborazione dell’attuale norma da un punto di vista meramente linguistico, stante l’aggiunta nel testo di quel nuovo termine “prosecuzione”.

A prima vista immutato, resta pure l’archetipo dell’esercizio provvisorio disposto nel corso della liquidazione giudiziale, su impulso del curatore, sol che si consideri che l’art.

211, 3° comma, dispone che: “Successivamente, su proposta del curatore, il giudice delegato, previo parere favorevole del comitato dei creditori, autorizza, con decreto motivato, l’esercizio dell’impresa, anche limitatamente a specifici rami dell’azienda, fissandone la durata”. In questo caso il riferimento alla “continuazione” proprio dell’art.

104 L. Fall. è soppiantato da quello all’“esercizio” tout court dell’impresa. pertanto, la complessa relazione tra salvaguardia di organismi produttivi e tutela dei creditori è definita anche dal C.C.I. autorizzando il ricorso all’esercizio d’impresa, in funzione conservativa dei complessi organizzati, su due presupposti impliciti, ma chiari: l’utilità

di esso a sostegno di una più vantaggiosa e redditizia liquidazione del compendio, quindi, per una migliore soddisfazione del ceto creditorio; e l’operatività attuale dell’impresa, che, pertanto, accertata l’insolvenza, si presta ad essere semplicemente proseguita.

Come anticipato, secondo la vigente impostazione dell’art. 211 D.lgs. 14/2019 la disciplina consta di due ipotesi, tanto da far pensare che abbia disperso il suo carattere unitario, essendo previste in realtà, due forme di esercizio provvisorio84.

La prima ipotesi, disciplinata dal secondo comma dell’art.21185, prevede che, laddove non vi sia pregiudizio per i creditori e per evitare il “grave danno” che scaturirebbe dall’eventuale interruzione drastica dell’attività, continua ad incentrarsi su una decisione del tribunale presa nella sentenza di accertamento dell’insolvenza. Tale “grave danno”

deve essere percepibile in termini di effettività, non meramente potenziale, e deve essere valutato in termini di perdita diretta o di mancato incremento di valore86 con riferimento,

84 F. BARACHINI, La nuova disciplina dell’esercizio provvisorio: continuità dell’impresa in crisi nel (e fuori dal) fallimento, cit., p. 2868

85 Si riporta per completezza espositiva il secondo comma dell’art.211 D.lgs. 14/2019: Con la sentenza che dichiara aperta la liquidazione giudiziale, il tribunale autorizza il curatore a proseguire l'esercizio dell'impresa, anche limitata- mente a specifici rami dell'azienda, se dall'interruzione puo' derivare un grave danno, purche' la prosecuzione non arrechi pregiudizio ai creditori.

86 Cfr. Trib. Alessandria, 9 febbraio 2016.

come riportato dalla riforma, che il “danno grave” non è più riferito ai creditori, ma va valutato in relazione all’impresa, in quanto organismo produttivo destinato alla riallocazione nel mercato87. Anche la Relazione illustrativa della riforma del 2006 evidenzia come tale istituto risponda «non più al solo interesse privatistico di consentire il migliore risultato della liquidazione concorsuale, ma è aperto a quello pubblicistico di utile conservazione dell’impresa ceduta nella sua integrità o in parte, sempre che il ceto creditorio non ritenga di trarne nocumento»88. E, infatti, in modo decisamente più esaustivo rispetto al passato, la nuova formulazione chiarisce che la continuazione dell’attività imprenditoriale non può mai risolversi a svantaggio del ceto creditorio. Sotto tale profilo, in passato la Corte di Cassazione si è pronunciata chiarendo che la continuazione dell’esercizio d’impresa nel fallimento costituisce strumento volto alla migliore liquidazione del patrimonio del fallito89.Tuttavia, anche nel C.C.I., il presupposto negativo dell’assenza d’ogni pregiudizio per i creditori, sembra racchiudere in sé un riferimento all’inviolabilità, non dell’interesse del singolo, ma di quello “di categoria”. La norma offre, poi, l’unità di misura del mantenimento del goingconcern alla tutela dei creditori, ma non in quanto la continuazione debba tradursi in un vantaggio, ma nel senso che ai creditori vada evitato ogni pregiudizio in termini di soddisfacimento, secondo una valutazione a largo spettro, che tenga conto dell’eventuale maggior realizzo prevedibilmente ricavabile all’esito dell’attuata continuazione dell’attività. Nel nuovo assetto del C.C.I. vi è probabilmente spazio pure per un bilanciamento del pregiudizio in un’ottica che ne apprezzi gli eventuali vantaggi compensativi. In altre parole, sono da considerarsi non unicamente le utilità stimate sulla base di un potenziale miglior soddisfacimento del credito monetario, ma anche quelli suscettibili di correlarsi alla posizione del suo titolare: per i lavoratori dell’impresa è sicuramente di maggior importanza il mantenimento del posto di lavoro nell’ottica di un’azienda rivitalizzabile con sussidi finanziari di terzi, che non la chiusura della stessa, con la conseguente perdita del lavoro.

87 Cfr. Trib. Chieti 10 agosto 2010.

88 Cfr. il commento della Relazione illustrativa all’art.104 l.fall.

89 Cfr., in tal senso, Cass. 9 gennaio 1987, n.71, in Giur.comm.,1987, II, p.562

La seconda ipotesi, invece, è disciplinata dal comma III dell’art.211 D.lgs 14/201990,e fa leva su un decreto motivato, emesso dal giudice delegato, su proposta del curatore, correlato dal parere obbligatorio e vincolante del comitato dei creditori, che plausibilmente andrebbe espresso secondo una prassi di riunione collegiale. fisiologico che il curatore porga agli altri organi della procedura concorsuale degli elementi su cui fondare le rispettive decisioni; detti elementi riguarderanno la migliore negoziabilità dell’azienda ed un piano specifico delle risorse finanziarie in vista della continuità, delle entrate e dei ricavi pronosticabili. l 3°comma in commento, alla medesima stregua del 2°comma dell’art. 104, non disciplina i presupposti di attuazione del provvedimento; se ne intuisce che la fattispecie implica la mera opportunità-economicità della prosecuzione d’impresa. In tale terzo comma manca il riferimento al danno grave ed al pregiudizio dei creditori, ragione per cui si ritiene che si tratti di un’opzione di convenienza per i creditori e dunque, la prosecuzione è ammessa solo a fronte di un migliore soddisfacimento delle loro ragioni91. Elemento che invece è rimasta immutato dalla vecchia alla nuova disciplina è il previo parere favorevole del comitato dei creditori. Il sindacato del giudice, che deve esprimersi in un “decreto motivato”, assume una decisione non limitata, in quanto vi rientra un controllo che, per un verso riguarda la regolarità formale e sostanziale dell’osservanza delle norme di legge, dall’altro, implica un apprezzamento riguardo la conformità di tale gestione agli obiettivi delineati nel programma di liquidazione. Infatti, assume vitale importanza il parametro dell’opportunità-economicità dell’esercizio, delineandosi in una complessa analisi comparativa di costi-benefici. La prosecuzione dell’attività d’impresa nella fase iniziale consente di cristallizzare la situazione esistente al momento della dichiarazione di fallimento: in questo modo, da un lato, evita il prodursi di effetti dannosi, come quelli derivanti dall’eventuale scioglimento dei rapporti contrattuali ex. art.72 ss. l.fall.; dall’altro rinvia ogni decisione sulla prosecuzione o meno dell’attività ad un momento successivo, dando la possibilità agli organi di effettuare una scelta consapevole. la circostanza che la norma sull’esercizio dell’impresa del debitore sia quella che apre il novero delle disposizioni dedicate alla liquidazione dell’attivo rende plausibile l’idea di incentivare, rispetto alle soluzioni liquidatorie, quello che conservano

90 Per completezza espositiva si riporta il terzo comma dell’art. 211 D.lgs. 14/2019: Successivamente, su proposta del curatore, il giudice delegato, previo parere favorevole del comitato dei creditori, autorizza, con decreto motivato, l'esercizio dell'impresa, anche limitatamente a specifici rami dell'azienda, fissandone la durata

91 F. BARACHINI, op.cit., p. 2870

l’impresa in attività per valutare se il suo valore di going concern sia superiore al suo valore di liquidazione92. Relativamente al caso di esercizio provvisorio autorizzato

“limitatamente a specifici rami dell’azienda”, invece, il subentro del curatore riguarderà

unicamente i contratti dei lavoratori dipendenti addetti a tali rami, con conseguente risoluzione dei rapporti relativi ai rami la cui attività si interrompe. Ne discende che, quando l’esercizio dell’impresa del debitore è disposto riguardo a un solo ramo aziendale, il curatore avrà l’onere di verificare se sussistono i presupposti per l’accesso al trattamento di C.I.G.S.

Tratteggiata sommariamente la disciplina dell’esercizio dell’impresa del debitore, e messe in luce le rilevanti novità introdotte dalla riforma, è ora il momento di rivolgere l’attenzione alla sorte dei rapporti di lavoro subordinato dei quali il curatore deve occuparsi. Partendo dall’assunto del C.C.I., il comma 8 dell’art.211 D.lgs.14/2019, disciplina rimasta immutata rispetto al vecchio art.104 l.fall., individua come regola generale la prosecuzione in toto dei rapporti di lavoro esistenti, ferma restando la possibilità del curatore di preferirne la sospensione, di tutti o di parte di essi, al fine di prendere le decisioni più opportune circa la loro continuazione o cessazione. Tale previsione costituisce un’eccezione rispetto al principio generale della sospensione dei rapporti giuridici pendenti a norma dell’art.72 l.fall. Da tale regola discende che nel caso in cui il tribunale, con la sentenza dichiarativa di fallimento, o il giudice delegato, su proposta del curatore, autorizzino la continuazione dell’impresa, il curatore dovrà

comunicare ai lavoratori che si trovino alle dipendenze dell’impresa fallita il proseguimento del loro rapporto alle dipendenze non più del fallito ma della procedura senza soluzione di continuità. È solo in tale disposizione che si trova un richiamo alla disciplina lavoristica, il ché induce a ritenere che durante l’esercizio provvisorio dell’impresa al recesso del curatore di applica senza dubbio la L.n.604/1966 con tutti gli oneri sostanziali e procedimentali ivi previsti93. È opportuno notare che, anche nel caso

92 L. STANGHELLINI, Le crisi d’impresa, op. cit. p. 292.

93 In tal senso, d’altronde, già la giurisprudenza con riferimento in generale all’ipotesi in cui il curatore subentra nella gestione dei rapporti di lavoro: v., per tutte, Cass. 11 gennaio 2018, n. 522, in Riv. it. dir.

lav., 2018, II, p. 529, con nota di MARZACHI`, Fallimento e risoluzione dei rapporti di lavoro. Peraltro, è opportuno precisare che non potendo la liquidazione giudiziale essere considerata di per se´ giustificato motivo oggettivo, il curatore dovrà dimostrare l’effettiva sussistenza di un riassetto organizzativo che determina la soppressione del posto di lavoro, il nesso di causalità del singolo licenziamento effettuato, la correttezza della scelta del lavoratore e l’impossibilità di repêchage. Sul punto v. ZOLI e RATTI, La

lav., 2018, II, p. 529, con nota di MARZACHI`, Fallimento e risoluzione dei rapporti di lavoro. Peraltro, è opportuno precisare che non potendo la liquidazione giudiziale essere considerata di per se´ giustificato motivo oggettivo, il curatore dovrà dimostrare l’effettiva sussistenza di un riassetto organizzativo che determina la soppressione del posto di lavoro, il nesso di causalità del singolo licenziamento effettuato, la correttezza della scelta del lavoratore e l’impossibilità di repêchage. Sul punto v. ZOLI e RATTI, La