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Open innovation e i modelli organizzativi per l’innovazione

CAPITOLO 2. IMPRENDITIVITÀ E INNOVAZIONE

2.2. Open innovation e i modelli organizzativi per l’innovazione

Il mondo globalizzato, la società della conoscenza, la knowledge economy, l’intero paradigma del capitalismo cognitivo hanno inevitabilmente riversato le loro implicazioni anche sui temi dell’innovazione. Il processo innovativo ha dovuto fare i conti con le categorie della complessità, dell’immaterialità, dell’interconnessione. L’innovazione da closed è diventata open.

La Closed innovation si basa sulla logica del controllo totale e dei processi interni a un sistema, senza la previsione di un contributo di altre tecnologie o di idee esterne. Chesbrough (2003b) parla di un’autonomia interna in questo senso e individua alcuni principi su cui si basa questo modello: 1) un’impresa ricava profitto dallo sforzo innovativo se scopre, sviluppa e commercializza tutto da sola; 2) posizionarsi da leader nel mercato permette all’impresa di vincere la concorrenza; 3) si diventa leader nel mercato se la ricerca e le scoperte provengono dall’interno dell’impresa; 4) investire nel proprio settore R&D porta a maggiori e migliori idee rispetto alla concorrenza; 5) serve una gestione preventiva dell’intellectual property per impedire alla concorrenza di approfittare delle idee e delle tecnologie dell’impresa; 6) un’impresa deve assumere il personale migliore, più capace e più intelligente.

In generale, il processo della ricerca e dell’innovazione si compone essenzialmente delle seguenti fasi (Petroni, Verbano, 2007; Schilling, 2009):

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a) Ricerca di base (ricerca pura): attività dedicata a sviluppare la conoscenza di un’area scientifica; i suoi obiettivi sono posti a lungo termine e i risultati sono perseguiti senza considerare le immediate applicazioni commerciali;

b) Ricerca applicata: definisce e progetta un processo di produzione per le conoscenze sviluppate nella fase precedente;

c) Progettazione avanzata: attività dedita alla dimostrazione della fattibilità tecnica;

d) Sviluppo: verifica della producibilità industriale e dell’utilità economica delle possibilità aperte dalla ricerca di base e dalla ricerca applicata.

Nel modello Closed l’impresa cerca di evitare ogni contatto con l’esterno, mantenendo le attività di ricerca e sviluppo in-house: ciò implica che i processi di innovazione possono avere inizio solo dalla prima fase, sviluppati utilizzando soltanto risorse e competenze interne, venendo poi commercializzati attraverso l’unico canale distributivo dell’impresa. Di conseguenza, se tali processi vengono scartati per qualche motivo, restano archiviati internamente e inutilizzati.

Contro questo modello di innovazione, rigido e chiuso, si va affermando il modello aperto dell’innovazione. Le imprese, infatti, rispondendo alle esigenze dei nuovi paradigmi economici e sociali, stanno abbandonando il livello di controllo tradizionale per dirigersi verso quella che Chesbrough ha definito Open innovation. L’economista statunitense definisce l’Open innovation come «un paradigma che afferma che le imprese possono e debbono fare ricorso a idee esterne, così come a quelle interne, e accedere con percorsi interni ed esterni ai mercati, se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche» (Chesbrough, 2003a).

Chesbrough (2003a) sintetizza questa forma di innovazione nei seguenti punti:

 la R&D interna di un’impresa può sviluppare soltanto una minima parte della conoscenza producibile in un dato settore;

 la R&D proveniente da fonti esterne amplifica esponenzialmente il processo di generazione di conoscenza;

 non è necessario sviluppare ricerca internamente per generare valore;  è fondamentale costruire un modello di business efficace e aperto;

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 è importante avvalersi di expertise e competenze esterne all’impresa, poiché non è possibile che tutto il necessario sia rinvenibile nelle sole risorse interne;  occorre valorizzare le idee migliori, anche se esterne all’impresa, cercando di

trasferirle nel proprio modello di business40.

Le imprese si stanno spostando sempre di più verso il modello dell’Open

innovation, compiendo importanti aperture in tema di scambio di informazioni tra

organizzazioni, di dinamiche di collaborazione, finanche di condivisione di parte dei processi produttivi. In tal modo, le imprese si stanno rendendo conto di riuscire a sfruttare con maggiore efficacia il proprio potenziale, che, altrimenti, rischierebbe di rimanere in parte inespresso. Il modello Open sta, pertanto, dando valore ad alcuni concetti nuovi, prima difficilmente apprezzati o colti: sta dando importanza ai concetti di permeabilità dei confini organizzativi (Lindegaard, Kawasaki, 2010) e di “business aperto”; sta mettendo al centro il processo e non più solo il prodotto; sta facendo abbandonare l’idea del “valore catturato dall’impresa” per porre in primo piano quella di “creazione di valore”. Ancora, l’innovazione aperta ci fa comprendere come il verbo “innovare” oggi non possa non riguardare un altro aspetto fondamentale, ovvero il tessuto di relazioni attraverso il quale i processi e i prodotti vengono generati (Rullani, 2006). Ciò che questo paradigma mette in discussione è l’assunto tradizionale secondo cui per innovare è necessario il massimo controllo delle informazioni da parte dell’azienda stessa. Al contrario, in questa prospettiva il processo di innovazione acquisisce forza dalla costruzione di network di relazioni interorganizzative – spostandosi da una dimensione di bonding a una di

bridging41 (Granovetter, 1983) –, attorno a una precisa strategia formativa condivisa e partecipata.

L’Open innovation stimola il formarsi di imprese proattive, dinamiche, tese alla combinazione strategica di risorse interne e di risorse esterne (attraverso lo

scouting di nuove idee, l’introduzione di tecnologia e di nuove tecniche attraverso

40 Per questa strada è chiaro che si va verso la rottura dei modelli organizzativi tradizionali,

abbandonando la produzione monolocalizzata, ripensando le strutture gerarchiche e collaborative, abbattendo i classici riferimenti spaziali e temporali, e andando verso uno nuovo concetto di azienda, allargata e aperta, da cui derivano nuovi schemi lavorativi che ridisegnano i processi e le metodologie del lavoro (Costa, 2013).

41 Pe la teoria del capitale sociale, la dimensione bonding è data dall’insieme di relazioni fiduciarie

all’interno di determinati gruppi; il bridging, invece, è costituito da connessioni fiduciarie tra membri appartenenti a gruppi diversi.

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soggetti esterni, collaborazioni, co-produzioni, ecc.), generando processi creativi distribuiti e partecipati di conoscenza42 (Costa, 2013). Le dinamiche di innovazione scaturiscono, così, dalla circolazione di idee e saperi tra i nodi dei network sociali e produttivi e delle reti cognitive e relazionali, che inevitabilmente trascendono i confini aziendali per connettere contesti e realtà organizzative differenti.

Alla luce di tutto ciò appare chiaro che i processi dell’innovazione aperta dipendono fatalmente dalla qualità della rete del capitale umano che interagisce con la tecnologia e la conoscenza a disposizione. Formazione e modelli organizzativi sono, pertanto, due pilastri imprescindibili su cui si fonda la possibilità di generare innovazione.

La possibilità d’innovazione, perciò, è strettamente connessa alla capacità di promuovere “apprendimento organizzativo” (Alessandrini, 2012a; Argyris, Schön, 1998; Gherardi, Nicolini, 2004), alimentando la metafora della learning organization come premessa dei meccanismi generativi dell’Open innovation e dell’Enterprise

2.043. Argyris e Schön (1998) hanno studiato il processo di apprendimento nelle organizzazioni, operando una distinzione tra: a) prodotto dell’apprendimento (qualsiasi contenuto informativo acquisito); b) processo di apprendimento (l’acquisizione dell’informazione); c) soggetto di apprendimento (individuale o collettivo). Un’organizzazione apprende solo quando i membri agiscono come un sistema cooperativo, cioè quando apprendono nell’interesse dell’intero sistema. L’apprendimento organizzativo, infatti, è una «condizione necessaria affinché si possa generare un agire lavorativo capace sia di ibridare contesti di apprendimento, sia di andare oltre i confini organizzativi ottenendo nuove ricombinazioni di significati o pratiche» (Costa, 2011).

L’apprendimento che si genera in organizzazione, e dalla collaborazione tra più organizzazioni, può essere classificato nelle tipologie individuate da Gherardi e Nicolini (2004), che collegano l’apprendimento a specifiche attività e luoghi. Le tipologie sono:

42 Lo sviluppo di conoscenza collettiva necessita dei seguenti presupposti (Rullani, 2012): a) la co-

innovazione, integrando competenze e risorse differenziate ma complementari; b) la specializzazione reciproca, che consente a ciascuno di mettere in focus una core competence ristretta, raggiungendo altissimi livelli qualitativi; c) la condivisione delle eccedenze cognitive, che possono aiutare, senza alcun costo aggiuntivo, i processi lavorativi di altri; d) l’ampliamento del bacino d’uso delle idee, per allargare partnership, presidiare nuovi mercati, incrementare gli investimenti.

43 Con il termine Enterprise 2.0 ci si riferisce all’implementazione delle applicazioni del Web 2.0 in

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a) learning-by-doing: apprendimento che avviene all’interno dell’azienda “facendo le cose”, attraverso attività di produzione e attraverso le innovazioni tecnologiche;

b) learning-by-searching: apprendimento che avviene primariamente all’interno dell’azienda, tramite attività di ricerca e sviluppo;

c) apprendimento scientifico: apprendimento che avviene sia all’interno che all’esterno dell’azienda, per cui si realizza un assorbimento della nuova conoscenza scientifica e tecnologica;

d) learning-by-using: apprendimento che avviene all’interno dell’azienda, attraverso l’utilizzo dei prodotti e studiando gli input che provengono dai consumatori che già utilizzano il prodotto;

e) apprendimento per ricaduta: apprendimento che avviene all’esterno dell’azienda, che consiste in un assorbimento della conoscenza esterna, oppure avviene attraverso l’imitazione delle pratiche dei concorrenti.

Lo sviluppo di sistemi organizzativi che valorizzino le reti produttive e sociali rappresenta il punto fondamentale dell’Open innovation, per rispondere alla necessità delle aziende di utilizzare risorse non solo interne ma anche esterne ai fini di migliorare la propria competitività (Chesbrough, 2003a).

Così, nuove forme organizzative che si fondano sulla logica dell’Open

innovation e sulla collaborazione di rete stanno emergendo e stanno modificando

alcuni assunti (Garengo, Bernardi, Biazzo, 2011), quali:

 i confini organizzativi, come tradizionalmente intesi, evaporano, assottigliando la distinzione “interno”/“esterno” all’organizzazione, favorendo perciò anche la partecipazione di fornitori e di clienti alla generazione di processi creativi e innovativi;

 scompare la distinzione tra il produttore di conoscenza e l’utilizzatore;  la conoscenza è distribuita all’interno dell’intero sistema;

 l’innovazione riguarda tutte le parti del sistema ed è dunque decentrata;  le nuove tecnologie avvantaggiano modalità di coordinamento decentrate,

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 tutta l’organizzazione esplora e ricerca per promuovere processi di innovazione: non sono più soltanto alcune specifiche funzioni dell’organizzazione ad avere questo compito;

 aumenta la complessità, e il controllo centralizzato e totale perde valore, mentre acquisisce importanza il coordinamento e la collaborazione tra le parti;

 le competenze di gestione, che permettono di negoziare tra mondi professionali e organizzativi differenti, divengono fondamentali.

Ancora, a livello organizzativo, Battistelli e Picci (2009) individuano alcuni fattori essenziali che possono influire sull’attività innovativa:

 la formazione continua, che è essenziale per elevare la qualità del capitale umano, offrendo ai lavoratori opportunità di sviluppo professionale e di contribuire attivamente all’innovazione;

 la qualità della comunicazione, poiché una comunicazione chiara accelera il processo dell’innovazione, nonché incrementa il senso di fiducia complessivo e la condivisione della vision dell’organizzazione;

 il clima organizzativo, che più è curato e reso positivo, più può sostenere la generazione dell’innovazione, operando sulla motivazione dei lavoratori, tramite il loro coinvolgimento, e quindi potenziando le loro possibilità creative;

 lo stile direzionale, poiché spetta alla dirigenza stimolare e agevolare un clima organizzativo positivo, sostenendo i propri lavoratori con i mezzi e i servizi necessari all’espressione delle loro capacità, senza limitarne lo sviluppo ma, anzi, incoraggiandolo;

 le caratteristiche del lavoro: è opportuno cercare di proporre lavori complessi e stimolanti (diminuendo quelli semplici e routinari), poiché sono questi tipi di lavori che favoriscono lo sviluppo della motivazione e della creatività;  il riconoscimento per il lavoratori, che deve essere giusto e puntuale e che

può avvenire sia attraverso premialità di carriera, sia attraverso dimensioni più motivazionali, sia attraverso compensi economici;

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 le richieste esterne: processi d’innovazione possono avere inizio da richieste esterne all’organizzazione, per cui è importante sapere selezionare tali richieste, per non andare a depotenziare la forza creativa e innovativa interna.

Tutte queste trasformazioni stanno creando infinite possibilità di cambiamento degli scenari economici e produttivi futuri, come anche stanno aprendo a considerazioni e a problematiche per nulla irrilevanti. Una di queste riguarda la misurazione dell’innovazione: come si può misurare l’innovazione a livello organizzativo? Poiché il processo dell’Open innovation ha una natura molto versatile, non è possibile individuare degli indicatori di misurazione validi per tutti i contesti e tutte le organizzazioni44. Ad ogni modo, una misurazione del processo di innovazione a livello organizzativo non può non partire dall’osservazione di alcuni elementi fondamentali: le professionalità coinvolte, i team di lavoro, le reti attivate. L’Open innovation, infatti, oltre al rinnovato valore dato al lavoratore come portatore di conoscenza e attivatore di connessioni intersoggettive, assegna fondamentale importanza ai concetti di cluster45 (Malerba, 2010), distretto46 e learning region47 (Florida, 2013), nel quadro di un ruolo decisivo riaffidato al territorio, visto come luogo fisico – ma anche virtuale – per la condivisione di significati, per l’attivazione di collaborazioni e per la generazione di ibridazioni creative, in un mondo sempre più globalizzato ma anche sempre più bisognoso di riferimenti al locale e alle identità e ai significati di cui il locale è custode.

44 Anche considerando il solo aspetto del profitto, le numerose variabili che agiscono (e retroagiscono)

sui processi di innovazione potrebbero non manifestare immediatamente i loro effetti sulle vendite, per cui prenderne in considerazione una e scartarne un’altra che inizialmente sembra non incidere potrebbe rivelarsi un errore.

45 I cluster sono realtà geografiche (una stessa città o regione) che avvicinano sinergicamente in

dinamiche di cooperazione start-up, grandi aziende, piccole e medie imprese, istituzioni pubbliche, centri di ricerca e agenzie educative.

46 Con “distretto industriale” si fa riferimento a quelle collaborazioni tra imprese diverse che sono

collocate nello stesso territorio e che sono appartenenti allo stesso settore produttivo.

47 Le learning region sono aree che supportano la crescita dei propri cittadini e promuovono il

dispiegarsi dei loro potenziali, attraverso occasioni costanti e integrate di formazione continua. Inoltre, come spiega Florida (2013), «esse funzionano da collettori e magazzini di conoscenze e idee e forniscono un ambiente e delle infrastrutture materiali e immateriali che facilitano i flussi di conoscenza, le idee e i processi di apprendimento degli individui e delle organizzazioni».

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