Capitolo II – La evoluzione della nozione di porto e prospettive di riforma
2.3 Le operazioni portuali
La ricostruzione in ordine alla natura di tali operazioni non può prescindere da una
rimeditazione, alla luce dell’influenza esercitata in materia dal diritto europeo, della
nozione di servizio pubblico.
Si tratta di una nozione molto controversa, la cui riconducibilità ad una definizione
unitaria è quanto mai ardua, in assenza di criteri normativi univoci, non rinvenibili
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I servizi pubblici sono caratterizzati da una variegata classificazione, distinguendosi
differenti tipologie (essenziali, indispensabili, universali, a rilevanza economica, privi
di rilevanza economica, sociali, a rete), ognuna con tratti propri e distinti, nonché da
una disciplina assai frammentata, a seconda dell’ambito di riferimento (energia, acqua,
trasporti, telecomunicazioni, rifiuti, riscossione tributi) e delle modalità di
organizzazione, affidamento e gestione. C’è chi ha sostenuto che in tale settore tante
sono le definizioni quanti sono gli studiosi che di essa si sono occupati72.
Se ci si pone l’obiettivo di spiegarne la ragione, essa sembra potersi individuare nella
pluralità di interessi che animano i pubblici servizi.
Il legislatore non ha mai chiarito in una proposizione normativa che cos’è il servizio
pubblico, neppure qualificandone gli elementi formali e/o strutturali, ma si limita a
regolarne l’organizzazione, il funzionamento, le modalità di gestione: ma non
specificando che cos’è il servizio pubblico lascia all’interprete il compito di
individuare quale prestazione rientra in quelle regole in quanto servizio pubblico.
A questo proposito sono due le nozioni che si sono maggiormente imposte e che
ancora oggi sembrano avere valore euristico se combinate tra loro73.
Per prima è stata elaborata la concezione c.d. soggettiva del servizio pubblico74,
secondo la quale è pubblico il servizio quando la prestazione è riservata allo Stato o ad
altro ente pubblico, sia in via diretta che tramite atti di concessione in capo ai suoi
sostituti.
72 R. ALESSI, Le prestazioni amministrative rese ai privati, Giuffrè, 1956, 6.
73 F. MERUSI, La nuova disciplina dei servizi pubblici, in Annuario AIPDA 2001, Giuffrè, 2002, 63. 74 A. DE VALLES, I servizi pubblici, in Orlando V.E. (a cura di), Primo trattato completo del diritto
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L’altra teoria c.d. “oggettiva” di servizio pubblico75 afferma che l’art. 41 e, soprattutto,
l’art. 43 Cost., designerebbero uno statuto complessivo dell’attività economica,
consentendo, ma non esigendola, la riserva al settore pubblico delle imprese svolgenti
servizi pubblici essenziali. Secondo questa ricostruzione la rilevanza pubblica del
servizio risiederebbe nella natura della prestazione resa alla collettività, anche se
svolta in nome proprio da soggetti diversi dalla pubblica amministrazione. Non
importa se la gestione del servizio sia imputata a un ente privato ma occorre guardare
alla natura della prestazione: se è di interesse della collettività, a prescindere del
soggetto che l’ha assunta, allora essa è estrinsecazione di un servizio pubblico76.
Nella successiva rimeditazione in fase evolutiva della nozione di servizio pubblico,
soprattutto in seguito all’introduzione nel nostro ordinamento dei principi di
liberalizzazione, è generalmente prevalsa la concezione intermedia, che combina i due
profili, soggettivo e oggettivo. E così, alla stregua da un lato dell’evoluzione in senso
regressivo dell’intervento statale nell’economia e, dall’altro, dell’adeguamento
dell’ordinamento interno a quello comunitario, abbandonati gli accenti estremi delle
due teoriche, il servizio pubblico è oggi definito come “la complessa relazione che si
instaura tra soggetto pubblico, che organizza una offerta pubblica di prestazioni, rendendola doverosa, e utenti (…) per la soddisfazione di bisogni della collettività, nonché in ragione del fatto che un soggetto pubblico lo assume come doveroso”,
assumendolo o per disposizione di legge o con un atto amministrativo generale77.
Se si guarda alla disciplina vigente, è evidente che i servizi pubblici sono caratterizzati
dalla contestuale presenza di momenti sia oggettivi che soggettivi. Il criterio oggettivo
75 U. POTOTSCHING, I pubblici servizi, Cedam, 1964.
76 A. AZZENA, Esercizio privato di pubbliche funzioni e di pubblici servizi, voce del Dig. Pubbl., Torino, VI, 1991, 165.
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è valorizzato dal diritto europeo (art. 106 TFUE, ex art. 86 del TCE). Disgregati i
monopoli pubblici e guidati gli ordinamenti degli Stati europei a implementare forme
di gestione coerenti con il principio della concorrenza e della libertà di mercato, risulta
del tutto indifferente che la prestazione sia erogata da un soggetto pubblico o da un
soggetto privato: ciò che è fondamentale è che l’attività in cui il servizio si esplica sia
intimamente connessa con il soddisfacimento di bisogni “primari” della collettività. A
sua volta, il risvolto soggettivo è imprescindibile per discriminare i servizi pubblici
dalle altre attività, sicché è servizio pubblico solo quello che la legge o un atto di
indirizzo politico-amministrativo intestano a tali enti, che hanno il dovere di garantirne
l’erogazione a favore dei cittadini, non importa se in concreto effettuata da un soggetto
privato.
Con l’art. 2, I, lett. h) D.lgs. 175/2016, in materia di società partecipate, può dirsi
definitivamente risolta la questione circa la natura del servizio pubblico. Si legge nella
norma che il legislatore intende per servizio di interesse generale le attività di
produzione e fornitura di beni o servizi che non sarebbero svolte dal mercato senza un
intervento pubblico o sarebbe svolte a condizioni differenti in termini di accessibilità
fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza, che la
pubblica amministrazione, nell’ambito delle rispettive competenze, assume come
necessarie per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento,
così da garantire l’omogeneità dello sviluppo e della coesione sociale, ivi inclusi i
servizi di interesse economico generale, che sono quelli erogati o suscettibili di essere
erogati dietro corrispettivo economico su un mercato (lett. i). Si prescinde, quindi,
dall’elemento soggettivo, per porre l’accento su quello oggettivo della soddisfazione
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Tuttavia, non esistendo un elenco tassativo di servizi pubblici, e anzi spesso ci si trova
a dibattere in sede giurisprudenziale sul problema se una determinata attività abbia o
meno la natura di servizio pubblico, la qualificazione giuridica di una determinata
attività come servizio resta mutevole, come lo sono i bisogni e gli interessi, perché
cambia nel tempo e con il mutare delle opinioni e delle condizioni di mercato.
In sede giurisprudenziale è stato affermato che “per identificare giuridicamente un
servizio pubblico non è indispensabile a livello soggettivo la natura pubblica del gestore, mentre è necessaria la vigenza di una norma legislativa che, alternativamente ne preveda l’obbligatoria istituzione e la relativa disciplina oppure che ne rimetta l’istituzione e l’organizzazione all’amministrazione. Oltre alla natura pubblica delle regole che presiedono allo svolgimento delle attività di servizio pubblico e alla doverosità del loro svolgimento, è ancora necessario, nella prospettiva di una definizione oggettiva della nozione, che le suddette attività presentino un carattere economico e produttivo (e solo eventualmente costituiscano anche esercizio di funzioni amministrative), e che le utilità da esse derivanti siano dirette a vantaggio di una collettività, più o meno ampia, di utenti o comunque di terzi beneficiari”78.
Alla luce anche della recente definizione legislativa richiamata, si può convenire che
non ogni attività di interesse generale esercitata da privati in forza del loro diritto
imprenditoriale costituisce un pubblico servizio ma occorre pur sempre un intervento,
più o meno penetrante, dell’autorità amministrativa al fine di connotare un’attività
come servizio pubblico. Altrimenti detto, non è sufficiente che per l’esercizio
dell’attività sia richiesto un atto abilitativo dell’Amministrazione ma si rende
necessario un potere di controllo più intenso, diretto almeno a monitorare la
rispondenza all’utilità pubblica del servizio erogato. Ciò si riscontra quando l’Autorità,
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oltre ad autorizzare l’esercizio dell’attività, pretenda che questa sia svolta nel rispetto
di programmi determinati da essa previamente approvati e ratificati.
Ciò chiarito, seguendo le direttrici che si è tentato sinora di delineare, si può cercare
ora di sciogliere il nodo relativo alla riconducibilità o meno delle operazioni portuali
nella vasta categoria di servizi pubblici.
A tal fine occorre partire dall’attuale disciplina normativa per vagliarne l’aderenza o
meno al concetto di servizio pubblico per come sopra tracciato.
Non può ignorarsi preliminarmente che non esiste in materia di operazioni portuali un
obbligo applicativo di tariffe a carattere predeterminato - l’unico obbligo vigente
consistendo nella prescrizione della pubblicazione successiva delle tariffe per come
liberamente determinate – così come pure manca un obbligo di prestare
indifferenziatamente il servizio a qualsiasi utente portuale, fattori che impediscono di
considerare il programma operativo a corredo della istanza di autorizzazione alla
stregua di un contratto di servizio pubblico.
Inoltre, i poteri di controllo da parte dell’Autorità preposta a tale settore (l’Autorità
portuale, ora Autorità di sistema portuale) è talmente ridotto, circoscritto com’è entro i
limiti di un intervento pubblico a fronte di casi patologici del rapporto, che osta alla
individuazione di un ordinamento sezionale entro cui ricondurre le imprese autorizzate
all’esercizio delle operazioni portuali79.
Infine, l’autorizzazione ex art. 16 L. n. 84/1994 non è assimilabile né ad una
concessione traslativa né ad una concessione costitutiva, dal momento che, da un lato,
l’attività in questione è liberalizzata, dall’altro, i titoli abilitativi sono espressione di un
79 Così, G. ACQUARONE, Il piano regolatore, op. cit., 151 e ss. L’Autore rinvia al concetto di ordinamento sezionale elaborato dal M.S. Giannini, in forza del quale, anche successivamente alla sua rimeditazione in termini più temperati, l’ordinamento sezionale si identifica con un ordinamento giuridico speciale, organizzato da figure soggettive pubbliche che dispongono di poteri normativi interni di direzione e controllo.
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controllo preventivo a discrezionalità per così dire limitata, non in grado di incidere in
maniera penentrante né sull’inizio né sulle modalità di svolgimento dell’attività.
Tenuto conto di tali aspetti, occorre considerare più da vicino il grado di intensità del
potere di controllo, preventivo e in corso di svolgimento delle operazioni assentite,
esercitato in questo ambito dall’Autorità portuale. Il riferimento corre innanzitutto alla
natura dell’autorizzazione in esame, la quale è deputata sì a rimuovere un ostacolo
all’attivazione di una situazione giuridica soggettiva preesistente ma attraverso
l’esercizio da parte del soggetto pubblico di un potere discrezionale inteso a valutare la
coerenza dei programmi presentati dai soggetti richiedenti con gli obiettivi che la
medesima Autorità si è posta in sede di programmazione e promozione.
A ciò si aggiunge che il mercato nel settore portuale è necessariamente regolato, sia in
virtù della rilevanza pubblicistica del porto che in ragione della stessa scarsità degli
spazi portuali (diversamente da quanto è dato rilevare nei porti del nord Europa, dove
non si riscontrano problemi di spazio): e così, il principio di libera iniziativa
economica deve bilanciarsi con le esigenze di contingentamento delle autorizzazioni,
per un verso, e con l’esame della utilità e coerenza dei programmi operativi presentati
a corredo delle istanze di autorizzazioni con gli obiettivi di sviluppo dei traffici, per
l’altro. Riguardo a quest’ultimo profilo la dottrina ha individuato la categoria delle
“autorizzazioni con esame del bisogno”, in quanto caratterizzate in modo implicito
dalla formula “ut facies”80.
Nel corso del rapporto, l’Autorità conserva un potere di controllo sul rispetto del
programma operativo, accompagnato, in caso di accertata sopravvenuta carenza dei
requisiti personali e tecnici accertati all’atto del rilascio o di impossibilità di realizzare
il programma operativo per difetti organizzativi e inefficienze del servizio, ad un
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potere a carattere sanzionatorio riconducibile nel novero degli atti di decadenza,
benché nella norma si parli impropriamente di “revoca”. Non si tratta, infatti, di
un’ipotesi di ritiro del provvedimento ma di una sanzione amministrativa in senso
ampio, alla luce dei presupposti che ne determinano l’assunzione e della efficacia non
retroattiva.
È chiaro che l’Autorità può anche procedere con la revoca in senso proprio, in
autotutela, ai sensi dell’art. 21 quinquies l. n. 241/1990, là dove una variata
programmazione e specializzazione dei traffici rendono non più conforme ai propri
obiettivi di sviluppo dei traffici le destinazioni assentite con le autorizzazioni.
Nell’esercizio del proprio potere di revoca l’ente dovrà operare nei limiti dei principi
di proporzionalità e adeguatezza, contemperando i benefici conseguenti
dall’estromissione del soggetto autorizzato con il sacrificio economico corrispondente
al ristoro economico del privato estromesso nei limiti di cui all’art. 21 quinquies,
comma 1, L. n. 241, e quindi nei limiti del solo danno emergente.
In conclusione, tenendo ferma l’assunto che in tanto può pervenirsi ad una nozione
unitaria di servizio pubblico in quanto nel suo ambito si operino le opportune
distinzioni, la riconduzione delle operazioni portuali nel novero della categoria dei
servizi pubblici si fonda sulla natura propria di tali servizi, che presentano carattere
generale e finalità di interesse generale, lo sviluppo dei traffici marittimi, e sul potere
regolatorio dell’Autorità, che si manifesta attraverso il rilascio di autorizzazioni di
particolare natura e il controllo nel corso dello svolgimento del servizio a tutela
dell’interesse pubblicistico avuto di mira dall’amministrazione. Tale qualificazione
delle operazioni in esame (di sbarco, trasbordo, deposito e movimentazione delle
merci) non comporta l’applicazione della medesima disciplina prevista ad esempio per
80
svolgersi secondo una disciplina ed un’organizzazione determinata in via autoritativa –
proprio in quanto il rispetto del principio di libertà di iniziativa economica ne consente
solo la regolazione.
2.4. Asimmetria tra principio di demanializzazione tacita e sdemanializzazione
espressa ex art. 35 cod. nav.
Nella prospettiva di una privatizzazione dei beni del demanio portuale occorre
indagare i diversi modelli di privatizzazione dei beni pubblici, anche in un’ottica di
valorizzazione, e non già unicamente di alienazione, del patrimonio immobiliare
pubblico.
Preliminarmente, occorre considerare che la sdemanializzazione si distingue dalle altre
forme di privatizzazione per il fatto che nel caso in questione il bene, pur rimanendo di
appartenenza della pubblica amministrazione, viene a perdere la sua precedente
destinazione a realizzare l’interesse pubblico e viene assoggettato ad un regime
giuridico di (prevalente) diritto privato, con conseguente alienabilità. Si tratta di una
forma di privatizzazione sostanziale dal momento che il bene perde la sua destinazione
pubblicistica. Qualora alla sdemanializzazione segua l’alienazione il bene diverrà
anche soggettivamente privato.
Secondo l’art. 829 c.c. la sdemanializzazione deve essere conseguenza di un’apposita
dichiarazione dell’Autorità e dello stesso atto deve essere data pubblicità con valore di
notizia sulla Gazzetta Ufficiale. Secondo la medesima disposizione, per quanto
riguarda i beni delle Province e dei Comuni, il provvedimento che dichiara il
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comunali e provinciali. Relativamente ai beni del demanio marittimo è l’art. 35 del
Codice della navigazione a richiedere un atto espresso di sdemanializzazione,
prevedendo a questi fini un decreto del Ministero dei trasporti e della navigazione di
concerto con quello per le finanze81.
Così pure per i beni patrimoniali indisponibili può essere perduto il vincolo di
destinazione con lo stesso passaggio al patrimonio disponibile.
Si tratta, dunque, di una forma di privatizzazione dei beni pubblici attraverso la quale i
beni pubblici di interesse pubblico “si convertono” in beni pubblici di interesse
privato, assoggettabili al diritto comune, e quindi liberamente circolabili.
Con specifico riguardo al demanio marittimo, abbiamo già visto come la
identificazione e individuazione dei beni appartenenti a tale categoria sia caratterizzata
da una profonda incertezza, che riflette l’incertezza stessa nella decodificazione
dell’attributo di demanialità. E infatti, la qualificazione di un bene come demaniale
risulta l’esito di un preciso processo interpretativo, di tipo estensivo o sistematico,
disancorato da un atto espresso di c.d. demanializzazione, dal momento che
caratteristica di tali beni sarebbe per definizione il possesso di determinate
caratteristiche intrinseche, per così dire ontologiche.
E tuttavia, come la demanializzazione può essere tacita, in quanto frutto di
un’operazione ermeneutica che può sfociare in atti amministrativi con efficacia solo
ricognitivo-dichiarativa alla stregua di atti di scienza, così la sdemanializzazione,
almeno riguardo ai beni del demanio necessario, può essere, per costante
giurisprudenza, solo espressa, previa emanazione di un provvedimento a cui deve
essere data adeguata pubblicità. In questa ottica, gli atti amministrativi di
81 L’art. 35 del Cod. nav. così statuisce “Le zone demaniali che dal capo del compartimento non siano
ritenute utilizzabili per pubblici usi del mare sono escluse dal demanio marittimo con decreto del Ministero dei Trasporti e della navigazione di concerto con quello per le finanze”.
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sdemanializzazione sembrano avere più un’efficacia costitutiva, in quanto da essi
viene fatta dipendere l’estinzione della qualità demaniale di un bene.
L’insegnamento della giurisprudenza è del tenore appena indicato là dove afferma che
“siccome la demanialità necessaria di un bene è qualità che deriva originariamente
ad esso dalla corrispondenza con uno dei tipi normativamente definiti (art. 822 cod. civ. comma 1 e art. 28 cod.nav.) la natura demaniale (del ben) permane anche qualora una parte di esso sia stata utilizzata per realizzare una strada comunale, atteso che ciò non implica né la sdemanializzazione della restante parte, quella meno vicina al mare, né la libera occupabilità da parte dei privati; poiché il possesso delle cose di cui non si può acquistare la proprietà è senza effetto, l’attitudine (del bene) a realizzare i pubblici usi del mare, costituente presupposto della sua appartenenza al demanio marittimo, non può dirsi venuta meno per il semplice fatto che il privato abbia iniziato ad esercitare su di esso un potere di fatto, realizzandovi opere e manufatti, per di più senza il permesso della competente amministrazione”82. E quindi, secondo la giurisprudenza di legittimità, per quanto qui interessa i beni del demanio
marittimo, non è ammissibile alcuna ipotesi di sdemanializzazione tacita, a ciò ostando
il disposto di cui all’art. 35 cod. nav.. che, a tal fine, richiede un formale ed espresso
provvedimento della competente autorità a efficacia costitutivo-estintiva. Se è vero,
infatti, che il presupposto della declassificazione è pur sempre il venir meno
dell’attitudine a realizzare i pubblici usi del mare, tale giudizio, contrariamente a
quanto accade nel caso opposto, richiede che intervenga una valutazione tecnico-
discrezionale dei caratteri naturali del bene.
Una simile conclusione pare confermata in una certa misura proprio dal peculiare
regime giuridico che caratterizza tali beni, in quanto non circolabili liberamente né
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usucapibili. Al contrario, tutto ciò che viene edificato sul bene demaniale passerà in
proprietà pubblica in virtù dell’istituto dell’accessione.
Come visto in apertura di questo paragrafo, la sdemanializzazione non rappresenta
l’unica ipotesi di privatizzazione dei beni pubblici, ma a fianco ad essa si possono
individuare altri modelli di privatizzazione, che possiamo qualificare formale, per la
ragione che non fanno venire meno l’interesse pubblico dei beni privatizzati e il loro
assoggettamento a disciplina pubblicistica.
In tale ultima prospettiva, occorre considerare che i modelli da ultimo considerati
possono leggersi come l’alternativa alle politiche di dismissione dei beni pubblici
invalse a partire dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso per ridurre i costi di
gestione dell’immenso patrimonio immobiliare pubblico e fare cassa nell’ottica di
ridurre il deficit del bilancio pubblico.
Tali politiche dismissive si sono dimostrare un sostanziale insuccesso, in quanto, in
assenza di una visione strategica di medio-lungo periodo, si sono giustificate sull’onda
della continua emergenza, avviando un percorso che è l’esatto opposto rispetto a
quello che la ragionevolezza e il buon senso avrebbero dovuto ispirare, e in definitiva,
in prospettiva, inefficiente e costoso. E infatti, con le dismissioni sono stati ceduti i
“pezzi” più pregiati del nostro patrimonio immobiliare pubblico, spesso a prezzi
irrisori o quasi (come si è verificato per la dismissione dei beni immobili degli enti
previdenziali). Sono rimasti invece nei bilanci degli enti pubblici beni per lo più in
cattivo stato di manutenzione o per i quali non s’intravedono prospettive immediate
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nuovi usi, e quindi nuove destinazioni appetibili per il mercato, in un contesto in cui
gli investimenti pubblici e soprattutto quelli privati latitano83.
Come è stato osservato, nel settore dei beni pubblici si è andato affermando il
principio “che ogni bene di appartenenza pubblica, anche demaniale, deve essere
utilizzato in modo tale da essere redditizio o, quanto meno, economicamente