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IL MITO DELLA SPECIALITÀ
DEL DIRITTO PORTUALE
La promozione del sistema portuale fra scelte di
regolazione e scelte di politica economica
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INDICE
Prologo ... 5
PARTE I – PORTI E LOGISTICA ... 14
Capitolo I – La portualità e le scelte di politica dei trasporti per il rilancio della competitività del settore ... 14
1.1 Gli assetti evolutivi del sistema portuale ... 14
1.2 I limiti alla potestà pianificatoria delle Autorità di sistema portuale nel contesto della logistica integrata ... 20
1.3. Il Piano strategico nazionale della portualità e della logistica ... 25
1.4. Modelli di governance dei centri logistici ... 31
1.5 Ruolo dell’Autorità di Sistema Portuale nella promozione dei sistemi logistici ... 39
1.6 Notazioni conclusive ... 51
PARTE II – PORTI E PIANIFICAZIONE URBANISTICA ... 55
Capitolo II – La evoluzione della nozione di porto e prospettive di riforma del regime giuridico delle aree portuali ... 55
2.1. La nozione di porto ... 55
2.2 Prospettive di superamento del regime demaniale... 63
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2.4. Asimmetria tra principio di demanializzazione tacita e sdemanializzazione
espressa ex art. 35 cod. nav. ... 80
2.5 Circolabilità delle concessioni portuali: sub-concessione e sub-ingresso ... 90
2.6 Rilevanza del terminalista in una logica di sistema di rete e di logistica
integrata: le concessione del demanio portuale come occasione per la
realizzazione c.d. cluster logistici ... 101
Capitolo III – Attività portuali di interesse nazionale
e rapporti con i piani urbanistici ... 105 3.1. Pianificazione portuale e urbanistica: un dialogo difficile ... 105
3.2 La componente strutturale del piano portuale ... 112
3.3 Tecniche di superamento del mancato raggiungimento dell’intesa
con gli enti territoriali ... 125
3.4. Il modello toscano: gli accordi di pianificazione ... 138
3.4.1 Segue: pianificazione portuale e istituti di partecipazione
secondo il modello toscano ... 144
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PROLOGO
Il settore portuale, il cui studio va condotto necessariamente in chiave
interdisciplinare, si configura come un “laboratorio privilegiato” per la verifica delle
dinamiche del rapporto tra livelli di governo diversi, tra pianificazione e attività
economica, anche con riferimento alla discussa attualità del regime dei beni pubblici,
nonché tra poteri pubblici e privati nell’economia.
Per una riflessione sufficientemente approfondita in materia non può prescindersi da
un esame della normativa, anche in ottica retrospettiva, muovendo altresì da una sua
contestualizzazione di segno fenomenologico, secondo quella coscienza storicistica
che – come è stato esattamente affermato – permette di “rendersi conto del vero
significato che si cela sotto ogni affermazione giuridica, pena il distacco della scienza dalla vita e quindi dalla sua stessa ragion d’essere”1.
La prima riforma organica del settore portuale, avvenuta con la legge n. 84/1994 sotto
l’influsso del diritto comunitario2 - alla quale si deve il passaggio da un modello di governance portuale puramente pubblicistico (c.d. comprehensive) al modello c.d. landlord port authority, a seguito della separazione tra l’attività di programmazione e controllo, affidata in mano pubblica, e quella di gestione dei traffici, passata alla mano
privata – ha conosciuto una rapida obsolescenza, rivelandosi presto inadeguata al
confronto con i nuovi compiti che le Autorità portuali sono state chiamate ad
1 Così F. MERUSI, In Ricordo di Vittorio Ottaviano, in Riv. Trim. dir. Pubb., 2007, 249.
2Corte Giustizia, 10.12.1991, causa C. 179/90, Merci convenzionali Porto di Genova c. Soc. Siderurgica
Gabrielli, in Foro it., 1992, IV, 225 ss, che ha condannato senza riserve l’illegittimità della
discriminazione sulla base della nazionalità contenuta negli artt. 152 e 156 reg. nav. mar. (allorché riservano ai soli cittadini italiani la partecipazione alle compagnie portuali) ma soprattutto ha rilevato la piena applicabilità delle regole della concorrenza al settore delle operazioni e del lavoro portuale, condannando come incompatibile con le norme previste dal Trattato CE il regime di monopolio disposto al riguardo dal codice della navigazione, in quanto generatore di abusi.
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assolvere, con particolare riferimento alla necessità di promuovere la espansione delle
aree portuali e retroportuali con investimenti a lungo termine.
Alla rapida evoluzione del sistema di trasporto marittimo, a partire dalla massiccia
diffusione del container che ha accelerato l’avanzamento del processo di
globalizzazione nel settore in esame fino al fenomeno del c.d. gigantismo navale, non
è seguito un altrettanto rapido mutamento della normativa di riferimento, la quale, alla
prova dei fatti, ha evidenziato numerosi nodi critici, tra i quali: la eccessiva
articolazione dell’iter di approvazione del piano regolatore portuale tra plurimi livelli
di competenza, in assenza di adeguati strumenti di coordinamento e collaborazione;
l’elefantiasi burocratica della programmazione e realizzazione delle opere; la
frammentazione dell’offerta portuale in un numero esorbitante di micro-porti, a cui fa
da pendant il problema legato alla polverizzazione degli investimenti; l’assenza di
reale autonomia finanziaria in capo alle Autorità portuali e l’iniquità del meccanismo
di ripartizione delle risorse attraverso fondi unici e di solidarietà fonte di inefficienza
del sistema; la instabilità delle condizioni di governance delle Autorità Portuali.
Ai difetti della normativa portuale si combina la mancanza di una politica dei trasporti
unitaria. Pensare che il mercato si autoregoli attraverso la concorrenza tra terminali,
anche molto vicini tra loro, costruiti senza una riforma di insieme, costituisce un grave
errore di prospettiva.
Attesa la prolifica e frastagliata realtà portuale nazionale, se ognuno dei porti italiani
volesse costruire grandi terminal container sarebbe impossibile un’adeguata
reddittività dell’investimento.
Un caso emblematico, espressione della mancanza di una politica dei trasporti unitaria
e fonte di inevitabile spreco di risorse pubbliche, è rappresentato dalla realizzazione a
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maggiore terminal italiano e uno dei maggiori nel Mediterraneo, “per far un piacere
alla maggiore società di navigazione mondiale, Maersk, e al suo braccio operativo nei porti, l’Apmt (Ap Moeller Terminal)”. L’opera ha richiesto circa 300 milioni di Euro di denaro pubblico. Ma, già nel corso dei lavori, l’Apmt ci ha ripensato: il traffico era
in calo, i conti del Gruppo non erano più floridi e ha cominciato a guardarsi in giro,
finendo per vendere ai soliti cinesi, Cosco e il porto di Quingdao, che hanno acquistato
il 49,9% delle quote della società che avrà in concessione il terminal. Se nei prossimi
anni la domanda non cresce e il mercato dei porti liguri non sia allarga, avremo due
terminal vicinissimi che si faranno concorrenza a suon di sconti.
Può un Paese dove il traffico marittimo dei container è stagnante da 15 anni,
moltiplicare le infrastrutture dedicate? O non è giunta l’ora di dire “alt” e di impostare
finalmente una politica nazionale, organica, razionale, lungimirante?3
La riforma di recente approvazione, malgrado una gestazione durata un decennio,
dimentica quasi del tutto di affrontare gli annosi problemi che affliggono la normativa
su cui interviene, non rispondendo alle pressanti richieste provenienti dal mondo dei
porti (Autorità portuali, Assoporti, comunità locali, Regioni), finalizzate all’adozione
di misure significativamente più coraggiose in grado di ripensare l’intero sistema,
producendo, invece, solo un limitato impatto sull’impianto legislativo originario.
In altri termini, la straordinaria lunghezza dei tempi di approvazione di una riforma del
settore non è stata affatto compensata da un intervento normativo adeguato ai bisogni
progressivamente emersi nella realtà di riferimento, come una maggiore autonomia
finanziaria delle Autorità portuali congiuntamente al superamento dell’attuale
meccanismo di finanziamento pubblico, che appare fondato su basi del tutto casuali,
disancorato com’è da una visione strategica del settore che possa sviluppare le reali
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potenzialità espansive del sistema tenuto conto dei porti che costituiscono veri e propri
nodi intermodali. E infatti, se le risorse derivanti dalle tasse portuali e dai canoni
concessori sono sufficienti a coprire la spesa corrente, gli investimenti di lungo
termine per l’adeguamento infrastrutturale degli scali marittimi maggiori restano,
invece, al di fuori della portata degli enti portuali, richiedendo necessariamente il
finanziamento statale e regionale, con tutti i vincoli di spesa pubblica ad essi
applicabili e le connesse lungaggini per l’approvazione dei progetti, per giunta in
perdurante (colpevole) assenza di un piano generale dei trasporti.
Secondo le tendenze evolutive affermatesi a livello internazionale ed europeo, le
Autorità portuali dovrebbero acquisire una crescente autonomia funzionale e
finanziaria, che le caratterizzi in un senso più accentuatamente manageriale,
coerentemente con il processo di globalizzazione in atto che suggerisce l’assunzione di
un ruolo più marcatamente attivo e propositivo nello sviluppo della competitività dei
porti. In letteratura a questo proposito è stato elaborato il concetto di Community
manager, con ciò intendendosi riferire ad un’autorità portuale, indipendente dal potere politico e munita di autonomia finanziaria, con un orizzonte operativo più ampio
rispetto al semplice perimetro portuale, che sia dotata di potere negoziale per
promuovere il porto di riferimento, dentro e fuori i confini nazionali, attraverso
politiche di marketing, accordi e partecipazioni societarie strategiche con altri
operatori economici, nonché medi tra gli interessi economici e sociali della propria
comunità, assumendo un ruolo di coordinamento nella risoluzione dei problemi di
interesse collettivo.
Il legislatore delegato, in assoluta controtendenza con le richiamate spinte evolutive e
con i bisogni che il mondo dell’economia evidenzia nel comparto della logistica (di
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elementi) ha optato per un ri-accentramento allo Stato del governo dei porti,
spogliando le Autorità di Sistema Portuale, succedute alle precedenti Autorità
Portuale, di ogni ibridazione, in quanto espressamente ricondotte nel novero degli enti
pubblici non economici di rilevanza nazionale, sia pure a ordinamento speciale,
sottoposte ai poteri di indirizzo e vigilanza del Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti. Unico elemento di ambiguità, che contraddice, sia pure parzialmente, con
questa volontà, è la previsione della facoltà per esse di “assumere partecipazioni, a
carattere societario di minoranza, in iniziative finalizzate alla promozione di collegamenti logistici e intermodali, funzionai allo sviluppo del sistema portuale”4. C’è chi polemicamente ha sostenuto che, a seguito della riforma, le odierne Autorità
portuali si siano trasformate in amministratori di condominio (‘housekeepers’),
avvalendosi a questo fine dell’efficace paragone effettuato da Patrick Verhoeven con
riferimento a quelle Autorità che svolgono le tradizionali funzioni di landlord,
regulator e operator 5 esclusivamente a livello locale e secondo un’impostazione di tipo conservativo, limitandosi a svolgere le attività di ordinaria amministrazione, come
la manutenzione e gestione delle aree portuali, la meccanica applicazione delle
disposizioni normative vigenti in tema di rilascio ed efficacia delle concessioni nonché
di sicurezza sul lavoro e nei porti6.
4 Così statuisce il nuovo art. 6, comma 11, L. n. 84/1994, come di recente sostituito dall’art. 7, comma 1, D.lgs. n. 169/2016.
5 P. VERHOEVEN, Segretario dell’ECSA, distingue tra le seguenti funzioni: a. Landlord functions
b. Regulator functions c. Operator functions
d. Community Manager Functions
6 Il riferimento è precisamente a quanto esposto ed elaborato da P. VERHOEVEN, Economic
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E di fatti, a discapito del tenore testuale della normativa, le odierne Autorità di Sistema
Portuale sono prive di una reale autonomia finanziaria e funzionale, in quanto enti
pubblici non economici sottoposti al potere di indirizzo e controllo
dell’amministrazione centrale: non è nemmeno stato modificato il meccanismo di
finanziamento delle stesse per mezzo di fondi unici o di solidarietà che tanta
inefficienza ha generato sinora.
La principale novità della riforma, ampiamente sponsorizzata dal Governo, risiede
nella riduzione del numero delle Autorità Portuali, passate dalle originarie 24 agli
attuali 15, per effetto di un’operazione di accorpamento che lascia tuttavia nei porti
accorpati, non più sede di Autorità, un ufficio territoriale con il compito di esercitare le
funzioni delegate dal Comitato di Gestione, di coordinare le operazioni di porto, di
rilasciare le concessioni di durata non superiore a quattro anni nonché di svolgere
compiti relativi alle opere minori di manutenzione ordinaria in ambito portuale.
Ad essa si aggiunge lo snellimento del Comitato portuale, ore ridenominato Comitato
di Gestione, del quale non fa più parte la pletora di stakeholders prima ivi
rappresentati, che certamente può costituire una semplificazione se non fosse che ad
esso ora si affianca l’Organismo di partenariato della risorsa mare, con funzioni
consultive in materia di adozione del piano regolatore del sistema portuale e del piano
operativo triennale, di determinazione dei livelli dei servizi resi nell’ambito del
sistema portuale, di progetto di bilancio preventivo e consuntivo e di composizione
degli strumenti di valutazione dell’efficacia, della trasparenza, del buon andamento
della gestione dell’Autorità di Sistema Portuale, nel quale trovano collocazione i
rappresentanti delle categorie interessate, delle associazioni dei datori di lavoro e delle
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Una corretta ed integrata politica di infrastrutturazione deve necessariamente
prevedere un collegamento efficiente delle aree portuali con le reti ai fini dello
sviluppo degli scali marittimi e, in particolare, dei porti maggiori: ciò non può che
passare da una logica complessiva di sistema a carattere generale sulla base di un
criterio di riparto del traffico che tenga conto, in primis, della localizzazione in
contesti portuali idonei, serviti dai corridoi europei, ben collegati all’entroterra. Ciò
dovrebbe portare al potenziamento dei sistemi portuali alla radice dei corridoi europei
(Reti TEN-T), che consentirebbe anche di concentrare gli interventi infrastrutturali
secondo i bisogni che il mondo dell’economia evidenzia nel comparto della logistica.
La trasformazione dei porti in segmenti della catena trasportistica e logistica impone di
guardare, quindi, al settore marittimo-portuale con una visione più ampia e articolata,
magari rilanciando il settore su nuovi mercati, che non possono che essere
internazionali ed europei, dato che la domanda interna non tira.
Lo stesso Piano Strategico Nazionale per la Portualità e la Logistica (PSNPL) offre
significativi spunti a livello di sistemi portuali. In primo luogo, assumendo il “ritardo
diffuso” che contraddistingue l’assetto di governo e le dotazioni infrastrutturali del
sistema portuale italiano7, indica la necessità di dare vita ad un “Sistema Mare” (porto,
territorio circostante e nazionale, relazioni internazionali) in grado di garantire
l’inserimento dei porti italiani non solo nel contesto internazionale, ma anche – e
prima ancora - in un modello nazionale di sviluppo economico competitivo, incentrato
su un’adeguata offerta di servizi e infrastrutture, su semplificate e celeri procedure
amministrative e su reali integrazioni polifunzionali tra ambiti portuali e territorio
circostante. Altrimenti detto, il riferimento è alla creazione di “aree logistiche
7 Che ne hanno determinato la collocazione al 49° posto della classifica mondiale e precisamente al 26° per infrastrutture e al 55° posto per la qualità delle stesse.
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integrate”, includenti aree portuali, retroportuali, terminal e interporti, che presuppone una radicale revisione del modello di governo pubblico.
In secondo luogo, censura le diseconomie generate dal sistema finanziario e il corto
circuito a livello amministrativo in senso lato per la presenza di troppi decisori e per
l’assenza di strumenti pianificatori integrati, capaci di “definire relazioni stabili con
industria ed economia”, di riconosce rilievo primario alla logistica e di orientate il sistema portuale verso politiche di sostenibilità ambientale.
In terzo luogo, alla luce del contesto europeo e sovranazionale, con particolare
riferimento alla politica europea in materia di “spazio unico europeo trasporti”,
evidenzia come l’assetto normativo e disciplinare del settore portuale sia datato e
inadeguato, fondato com’è su anacronistici criteri di riparto delle competenze, su
documenti programmatori spesso virtuali e su piani troppo rigidi, incapaci di adeguarsi
ai tempi dello sviluppo portuale e del territorio.
Con il presente lavoro si indagano le conseguenze di segno giuridico del processo di
cambiamento innescatosi nel settore dei trasporti marittimi, con particolare riferimento
all’avvicinamento del trasporto marittimo alle altre modalità di trasporto e della
terminalistica portuale a quella retroportuale, interportuale e inland, al fine di
elaborare soluzioni giuridiche che possano condurre ad una rilancio del sistema, in
un’ottica non più solo settoriale.
Innanzitutto, partendo da un’accezione funzionale di porto, concepito come nodo di un
rete plurimodale di trasporto di merci e passeggeri, verrà presa in esame la interazione
del sistema portuale con quello della logistica, evidenziando la necessità di congegnare
un sistema di rete, con un adeguato modello di governance.
Si passerà poi ad analizzare il porto da un punto di vista per così dire statico,
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superamento della demanialità, in quanto regime ormai del tutto anacronistico sul
piano internazionale.
Infine, si analizzeranno i profili problematici in tema di pianificazione territoriale, con
particolare riferimento alla questione della concorrenza sul medesimo ambito (quello
portuale) di strumenti di pianificazione di livelli di governo diversi, approfondendo in
14
PARTE I – Porti e Logistica
Capitolo I – La portualità e le scelte di politica dei trasporti per il rilancio della competitività del settore
1.1 Gli assetti evolutivi del sistema portuale
In difetto di una definizione giuridica di porto, al fine di delimitare l’area di indagine del presente lavoro, occorre considerare l’ambito portuale in un’accezione non
solamente statica, ancorata alla riconducibilità di tale complesso di beni al demanio
necessario, ma altresì dinamica, che valorizzi il lato funzionale del porto come luogo
economico, connesso ai pubblici usi del mare8, e come “sistema” nel quale sono
esercitate diverse attività di impresa9.
Con la globalizzazione dei traffici e la crescita esponenziale della domanda di servizi
logistici da parte delle imprese i porti non possono più considerarsi - alla stregua dei
porti antichi - come realtà a sé stanti ma devono essere adeguatamente trattati come un
sub-sistema della catena logistica, all’interno del quale gli operatori sono spinti a
integrare e coordinare le operazioni portuali con le fasi del trasporto che si svolgono a
monte e a valle.
8 Così art. 35 cod. nav., il quale individua la cifra del demanio marittimo nel concetto di “utilizzabilità” per i “pubblici usi de mare”.
9 Cfr. art. 2, comma 1,lett. a) D.Lgs. n. 203/2007, rubricato Attuazione della Direttiva 2005/65/CE relativa al miglioramento della sicurezza nei porti, che definisce il porto come “una specifica area
terrestre e marittima, comprendente impianti ed attrezzature intesi ad agevolare le operazioni commerciali di trasporto marittimo (…)”. Sotto questo aspetto, la norma nazionale ha riprodotto
pressocché integralmente la definizione contenuta nella direttiva che, all’art. 3, intende il porto come “una specifica area terrestre e marittima con confini definiti dallo Stato membro in cui il porto è
situato, comprendente impianti e attrezzature intesi ad agevolare le operazioni commerciali di trasporto marittimo”.
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L’evoluzione che si è riscontrata nel campo dei traffici spinge, quindi, a rivedere i
confini del mercato geografico e merceologico presupposto dalla legge n. 84/1994 - di
recente incisa dalla mini-riforma ispirata, sia pure solo parzialmente, alle linee di
indirizzo indicate dal Piano Strategico Nazionale per la Portualità e la Logistica - nel
senso di istituire e favorire sistemi pluri-ambito, assistiti da una pianificazione e programmazione strategica (nazionale, regionale e locale) in grado di creare “aree
logistiche integrate”, includenti aree portuali, retroportuali, terminal e interporti,
servite da connessioni stradali e ferroviarie alla rete multimodale europea10.
In questa direzione va anche la normativa di livello europeo, e in particolare il
Regolamento UE 1315/2013, diretto alla creazione di uno spazio unico europeo dei
trasporti, coerentemente con i risultati della consultazione lanciata con il libro verde
sulle future TEN-T nel 200911.
In questo quadro, l’Italia ha dovuto e deve fare ancora i conti con un sistema portuale
nazionale arretrato, inefficiente ed eccessivamente burocratizzato, resistente ai
mutamenti ordinamentali, caratterizzato da una imprenditorialità portuale debole e frazionata, incapace di competere con le grandi case di spedizione dell’Europa centrale
10 Secondo il PSNPL “Una debolezza strutturale dei porti italiani è relativa alle dimensioni complessive
delle aree portuali, vincolo che ne limita fortemente le possibilità di ampliamento. In particolare nel confronto con i principali porti europei, emerge come la superficie complessiva dei dieci porti italiani più grandi sia dell’ordine di grandezza della superficie del solo porto di Anversa, Le Havre o Rotterdam. Negli scali esteri vengono spesso comprese anche grandi aree utilizzate per attività logistiche, che rappresentano spazi per la creazione di valore aggiunto; questo fatto sottolinea in misura ancora più evidente come l’integrazione tra porti e aree logistiche e retroportuali sia un indirizzo strategico da perseguire”. L’interazione tra sistema portuale e logistico è stata oggetto negli
ultimi anni di attenzione da parte del legislatore; si vedano, ad esempio: l’art. 46 del d.l. n. 201/2011 conv. in L. n. 214/2011 in tema di “Collegamenti infrastrutturali e logistica portuale”; l’art. 1, comma 236, della L. n. 190/2014 (legge di stabilità 2015).
11 Libro verde “Verso una migliore integrazione della rete transeuropea di trasporto al servizio della
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e con i grandi terminalisti tedeschi ed asiatici, e da un home carrier ferroviario ancora
incapace di aggredire il mercato tedesco in modo efficace12.
A fronte di questa situazione nazionale, l’istituzione con il Regolamento UE
n.1316/2013 (“Connecting Europe Facility” o CEF) di quattro corridoi multimodali
che attraversano l’Italia può rappresentare per il nostro Paese un’arma a doppio taglio.
Si pensi al corridoio multimodale Reno-Alpi, che può costituire un’opportunità perché
il Mediterraneo possa giocare un ruolo strategico di alimentazione del continente, ma
anche un grave rischio. E infatti, se non viene intrapresa una politica dei trasporti
decisa, con investimenti infrastrutturali importanti e la volontà di superare i nodi di
riforma (si pensi al sistema ferroviario), il corridoio può trasformarsi in una via di deflusso dei traffici in favore dei porti del Nord Europa anziché in un’occasione per un
loro rilancio.
Alla arretratezza del nostro sistema nazionale si accompagna una politica nazionale dei
trasporti debole e frammentaria: il principale strumento attraverso il quale sono state
finora adottate le scelte di politica dei trasporti è rappresentato dalla pianificazione,
che si è rivelata tuttavia incapace di ridurre a coerenza tutti gli interventi statali in
questo ambito.
Il primo Piano generale dei trasporti, previsto dalla L. n. 245/1984, approvato con
D.P.C.M. del 10.10.1986 e aggiornato con d.P.R. 29.08.1991, si presentava come un
12 In argomento M. MARESCA, La Governance dei sistemi portuali, Linee di una riforma di
dimensione europea, Il Mulino, 2006, 12. In particolare, sulla necessità di rafforzare il vettore
ferroviario nazionale l’Autore ha rilevato quanto segue “Contemporaneamente il nostro paese dovrà
rafforzare il vettore ferroviario nazionale, pur nel rispetto della normativa interna e comunitaria in tema di concorrenza, consentendo a Trenitalia, in virtù delle nuove basi portuali – che costituiranno un elemento decisivo anche sotto il profilo competitivo – di servire il mercato svizzero, tedesco e del centro Europa attraverso gli opportuni investimenti. Per rendere competitivo il sistema industriale italiano e per consentire ai porti di alimentare l’Europa è infatti necessario un vettore nazionale “cargo” forte e presente in ambito internazionale nonché strettamente integrato con i diversi anelli della catena logistica”.
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atto di indirizzo e di coordinamento, dotato di un limitato grado di normatività in
ordine a talune prescrizioni.
La prevalenza di previsioni con valore solo ricognitivo e di valutazione dei presupposti
e degli elementi di base dell’assetto dei trasporti ha reso tale strumento scarsamente
efficace, in quanto agevolmente superabile da interventi normativi successivi gerarchicamente più forti. Sembra, tuttavia, da accogliere positivamente l’obiettivo dal
quale era ispirato, che si identificava con la volontà di attuare una riorganizzazione
generale e sistemica delle competenze in materia di trasporti che assicurasse una
coerenza complessiva del quadro ed un intervento pubblico coordinato ed efficiente.
Tale impostazione ruotava intorno all’idea generale che le scelte di investimento in
opere infrastrutturali avrebbero dovuto essere mirate e coerenti con il sistema, al fine
non solo di rispondere alla crescita della domanda ma anche di assicurare la fluidità
dei corridoi, eliminando le strozzature. Modello unitario di attuazione di tale
impostazione era individuato nei sistemi portuali13, da non intendersi come semplici
aggregazioni amministrative settoriali ma quali “complessi economico-territoriali,
costituenti un modello organico integrato di trasporti marittimi, stradali ferroviari, idroviari nell’ambito di un disegno produttivo di insieme”14. C’era chi sosteneva che i
sistemi portuali si identificassero con soggetti istituzionali intermedi, aventi per scopo
di superare la frammentazione della portualità italiana e di saldare la frattura tra porti,
coste e territorio, dando vita a “sistemi di trasporti integrato”15.
13 Sia il D.P.C.M. 10 aprile 1986, emanato in attuazione della L. n. 245/1984, che il successivo D.P.R. 29 agosto 1991 individuavano nel sistema portuale un complesso di infrastrutture marittime ed intermodali guidate da una programmazione unitaria estesa a coordinare spazi ed aree litoranee tra loro, con i trasporti marittimi ed interni, nonché con quelle zone dell’”hinterland” comunque gravitanti nell’orbita funzionale del sistema.
14 D.P.R. 28 agosto 1991.
15 U. MARCHESE, I sistemi portuali, considerazioni e proposte sotto il profilo economico, in Porti,
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Il riferimento al piano dei trasporti da parte della Legge di riforma del settore portuale
n. 84/1994 limitatamente agli obiettivi generali da esso posti, con l’abrogazione della disposizione di cui al comma 4° dell’art. 1 del D.L. n. 863/1986, conv. in L. n.26/1986
(che prevedeva l’istituzione di un Comitato interministeriale con il compito di studiare
e proporre le linee programmatiche per l’organizzazione e lo sviluppo delle
infrastrutture dei singoli sistemi), dimostra un netto superamento del modello dei
sistemi portuali proposto dal precedente piano generale, sostituendo ad esso nuovi
principi direttivi.
Nel solco di tale tendenza, tesa all’abbandono del modello dei sistemi portuali quale
strumento attuativo a carattere unitario, retto da un solo gestore con compiti di
programmazione riguardo ai singoli segmenti di una rete intermodale, si è inserito il
Piano generale dei trasporti e della logistica di cui al D.P.R. 14 marzo 2001, nel quale
non si trova più traccia del riferimento al modello dei sistemi portuali.
L’accantonamento di un disegno di rete unitario derivava, probabilmente, dalla
circostanza che le istituzioni, sia in Italia che nell’Unione Europea, non erano ancora
articolate per modalità di trasporto, il ché rendeva particolarmente difficile alle politiche per la logistica l’individuazione di un soggetto istituzionale unico deputato
alle decisioni nella pubblica amministrazione.
Il piano della logistica deliberato dal CIPE con provvedimento 22 marzo 2006 n. 44, sempre nella prospettiva di riorganizzare la portualità e l’aeroportualità, in luogo dei
sistemi portuali indicava l’istituzione di macro aree di interesse logistico, definendo “piattaforme logistiche” sette zone geografiche sostanzialmente coincidenti con le
precedenti otto localizzazioni dei sistemi portuali e individuando undici poli di
concentrazione dei traffici per il “combinato marittimo”, rafforzati dalle strutture
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dimensione degli spazi portuali non [fosse] tale da consentire il massimo livello di integrazione con il territorio di influenza”.
Il D.P.C.M. n. 188/2015, contenente il Piano per la portualità e per la logistica -
temporaneamente inoperativo a seguito della pronuncia della Consulta n. 261/2015
che ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 29 del D.L. n. 33/2014 “nella parte in cui non [prevedeva] che il piano (…) [fosse] adottato in sede di
Conferenza Stato-Regioni”, ma poi confermato ex post con un consenso reso dalle
Regioni in sede di Conferenza Stato Regioni in data 30.03.201616 - prevede linee di
indirizzo generale che indicano come opzione di politica dei trasporti l’accorpamento
delle attuali Autorità portuali in Autorità di Sistema, richiamando di nuovo il concetto di sistemi portuali, in un’ottica di programmazione ed azione coordinata e sinergica.
Ma, lungi dal realizzare un vero sistema di rete integrato, l’accorpamento delle
precedenti Autorità portuali in quindici Autorità di Sistema, ad opera del D.lgs. n.
169/2016, si rivela nella sostanza solo un’aggregazione di carattere amministrativo,
che in poco varia rispetto alla situazione previgente (con un marginale risparmio di
spesa pubblica) e che è ben lungi dal rappresentare un reale fattore di ristrutturazione dell’assetto portuale vigente, in grado di concretizzare “complessi
economico-territoriali, costituenti un modello organico integrato di trasporti marittimi, stradali ferroviari, idroviari nell’ambito di un disegno produttivo di insieme” .
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1.2 I limiti alla potestà pianificatoria delle Autorità di sistema portuale nel
contesto della logistica integrata
Ogni indagine sulle varie funzioni connesse alla logistica deve necessariamente
condursi con riguardo ai piani regolatori portuali, che allo stato attuale della normativa
non possono estendersi oltre i confini loro propri, anche se non mancano, come vedremo, tentativi di estendere l’area degli ambiti portuali fino al punto di farne un
modello sostitutivo dei sistemi portuali mai attuati.
Come già anticipato in premessa, antecedentemente alla riforma dell’ordinamento
portuale effettuata con la L. n. 84/1994, i piani generali dei trasporti e della logistica auspicavano la istituzione di sistemi portuali, che, secondo l’opinione largamente
prevalente della dottrina marittimista, dovevano prevedere solo in capo a pochi enti le
funzioni pubblicistiche di carattere programmatorio e pianificatorio e riservare ad una pluralità di organizzazioni portuali, anch’esse di natura pubblica, l’esercizio delle
attività di carattere imprenditoriale. E infatti, nel quadro normativo previgente le
organizzazioni portuali erano qualificate alla stregua di enti pubblici economici; ne
consegue che un simile disegno andava nella direzione di valorizzare la vocazione
imprenditoriale di tali soggetti, auspicandosene la trasformazione in vere e proprie
imprese pubbliche con veste di società commerciali.
Tale opzione si innestava in un contesto istituzionale che consentiva un marcato
accentramento delle funzioni, legislative e amministrative, in capo allo Stato.
Con l’avvento della vigente normativa dell’ordinamento portuale c’è stato un radicale
mutamento di registro che ha portato a individuare nell’Autorità un’amministrazione
21
di regolazione e controllo, da un lato, e scelte di promozione lato sensu di politica dei trasporti, dall’altro, non potendo, viceversa, svolgere attività di impresa.
La separazione tra le funzioni di regolazione e le attività di gestione (ora consacrata
dall’art. 6, comma 11, L. n.84/199417), unitamente alla trasformazione del regime
abilitativo delle operazioni portuali, ha reso inattuabile l’obiettivo cui tendeva il
progetto incentrato sulla istituzione dei sistemi portuali.
Questo mutamento ordinamentale è stato promosso a seguito di una pressante censura
comunitaria (CGCEE in causa C-179/90)18, secondo la quale l’ordinamento portuale
italiano non rispettava i principi comunitari di concorrenza e trasparenza, principi
applicabili anche a questo settore in quanto identificabile con un mercato rilevante.
La definizione di porto quale mercato è contenuta, oltre che nella pronuncia appena
citata, anche in una serie di decisioni della Commissione nonché nelle due proposte –
entrambe decadute - di direttiva sui servizi portuali (cosiddette “de Palacyo”).
Tale nozione, tuttavia, non risulta dissimile da quella di porto azienda utilizzata con
riferimento alla realtà previgente, allorché le organizzazioni portuali, oltre alle funzioni di regolazione, svolgevano, fors’anche in modo prevalente, attività
imprenditoriale.
La qualificazione del porto come mercato è, invece, ripudiata dalla dottrina
marittimista più attenta al dato normativo interno e comunitario, sul duplice presupposto che, da un lato, nell’ambito portuale possono coesistere più mercati e,
17 Il previgente art. 6, comma 6, della L. n. 84/1994 stabiliva che “Le autorità portuali non possono
esercitare, né direttmente né tramite la partecipazione di società, operazioni portuali ed attività ad esse strettamente connesse. Le autorità portuali possono costituire ovvero partecipare a società esercenti attività accessorie o strumentali rispetto ai compiti istituzionali affidati alle autorità medesime, anche ai fini della promozione e dello sviluppo dell’intermodalità, della logistica e delle reti trasportistiche”.
18 Corte Giustizia, 10.12.1991, causa C. 179/90, Merci convenzionali Porto di Genova c. Soc.
22
dall’altro, frequentemente il mercato rilevante comprende una pluralità di scali
marittimi.
In disparte il dibattito sull’inquadramento del porto come mercato rilevante, esso
costituisce comunque un “locus oeconomicus” nel quale “vengono svolte attività
imprenditoriali, benché soltanto di natura e funzione portuale”19.
Il riferimento al sistema portuale della vigente disciplina di settore, come anticipato,
identifica un fenomeno diverso da quello ipotizzato dal primo piano dei trasporti: esso
realizza solo un accorpamento di carattere amministrativo, ben lungi dal presentarsi
come un complesso economico-territoriale costituente un modello organico integrato di trasporto intermodale nell’ambito di un disegno produttivo di insieme.
Nel testo previgente della Legge n. 84, invece, non era dato individuare alcun cenno al sistema portuale: quanti auspicavano un’organica sistemazione della logistica integrata
hanno cercato di sopperire a tale lacuna interpretando estensivamente la nozione di “ambito portuale” come spazio che disegna un determinato mercato infrastrutturale,
geografico e merceologico, nel quale il porto è funzionalmente connesso alla
complessità delle operazioni di porto e retroporto20.
Ma una simile lettura si spingeva troppo oltre il dato normativo, ponendosi più come
una proposta di riforma de iure condendo che come esegesi della legislazione di
settore: e infatti, mentre da un lato si affermava che la L. n. 84/1994 avrebbe descritto una nozione assai avanzata di “ambito portuale” (per cui le scelte pianificatorie di
attività e di opere materializzerebbero un disegno di area che si estende ben al di là della circoscrizione territoriale fissata con decreto ministeriale), dall’altro si dava atto
della difficoltà di applicare al di fuori di tale circoscrizione le regole stabilite solo
23
dall’Autorità e si prospettava la possibilità di pervenire alla definizione di un ambito
corrispondente al mercato solo attraverso necessarie future modifiche legislative.
La mini-riforma di cui al D.lgs. n. 169/2016 non è in tal senso davvero innovativa: infatti, al di là del riferimento letterale al sistema portuale, l’integrazione del porto e/o
dei porti con gli altri anelli della catena logistica è stata demandata alla definizione e approvazione di un Accordo quadro nazionale nell’ambito delle attività cui è preposta
la Conferenza nazionale di coordinamento delle AdSP 21, in sede di Conferenza
Stato-Regioni, volto “a sostenere attività di interesse comune in materia di sviluppo
logistico di area vasta a supporto del sistema delle AdSP, in ambiti territoriali omogenei (…)” (art. 11 ter L. n. 84/1994, introdotto dal D.lgs. n. 169).
Inoltre, nelle intenzioni del legislatore delegato, la connessione alla catena logistica è
agevolata dalla facoltà riconosciuta alle AdSP di acquisire o mantenere partecipazioni,
sia pure minoritarie, in società costituite al fine di promuovere collegamenti logistici e intermodali, funzionali allo sviluppo del sistema portuale, rinviando all’art. 46 D.L. n.
201/2011, che prevede la possibilità per le Autorità portuali di concludere atti di intesa
e di coordinamento con le regioni, le province e i comuni interessati nonché con i
gestori delle infrastrutture ferroviarie al fine di costituire sistemi logistici.
Si tratta, tuttavia, di una previsione dagli scarsi risvolti pratici, dal momento che, già
sotto il vigore della L. n. 84/1994, era possibile utilizzare gli strumenti propri delle
intese, degli accordi di programma e delle conferenze di servizi per ampliare i poteri
regolatori e pianificatori delle autorità portuali.
E tuttavia, la grande assente a continua ad essere una unitaria politica nazionale dei trasporti: l’opzione normativa è andata nel senso opposto al rafforzamento
21 Scelte strategiche in materia di grandi investimenti infrastrutturali, scelte di pianificazione urbanistica in ambito portuale, strategie di attuazione delle politiche concessorie del demanio marittimo, strategie di marketing e promozione sui mercati internazionali del sistema portuale nazionale.
24
dell’autonomia delle moderne Autorità portuali, le quali continuano a scontare una
forte dipendenza dal governo centrale ed una scarsa autonomia programmatoria e
finanziaria..
La potestà pianificatoria delle Autorità di Sistema Portuale, come delle precedenti
Autorità portuali, continua ad essere astretta, da un lato, dalla competenza statale in
punto di opere di interesse strategico, nelle quali sono riconducibili taluni opere
infrastrutturali di importanza strategica per il rilancio del settore dei trasporti, non solo marittimi, e quindi dai penetranti vincoli di bilancio nazionale, e dall’altro, dal
potere pianificatorio comunale, con riferimento all’uso delle aree estranee al demanio
marittimo e ricadenti nel territorio comunale, dal momento che il dissenso
eventualmente espresso dal comune o dai comuni interessati continua a costituire un ostacolo insuperabile nell’adozione del piano regolatore portuale, come si evince dal
disposto di cui all’art. 5, comma 3, L. n. 84, come di recente modificato dal D.lgs. n.
169/2016..
La necessità, positivizzata dal decreto legislativo richiamato, di creare una “leale collaborazione” tra le varie amministrazioni ed enti è sempre stata avvertita molto in
questo settore, in specie per le interferenze in materia di governo del territorio.
Il governo del territorio solleva, infatti, notevoli problematiche in punto di scelte di
25
1.3. Il Piano strategico nazionale della portualità e della logistica
Il Piano Strategico nazionale della portualità e della logistica22, malgrado il suo
apparente travolgimento - nei termini che vedremo - ad opera della sentenza della
Corte Costituzionale n. 261/2015, con cui è stata dichiarata la illegittimità
costituzionale dell’art. 29, comma 1, D.L. n. 133/2014 “nella parte in cui non prevede
che il piano (…) sia adottato in sede di Conferenza Stato-Regioni”, offre, unitamente alle evidenze delle criticità, indicazioni utili a livello di pianificazione portuale o di
“sistemi portuali”.
Esso si configura come un programma per obiettivi, che passa attraverso l’indicazione
di dieci obiettivi strategici per il “Sistema Mare” (porto, territorio circostante e
nazionale, relazioni internazionali) e l’individuazione delle connesse azioni correttive,
la cui concretizzazione dovrà avvenire attraverso successive attività normative e
amministrative23.
Nella relazione illustrativa dello schema di decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri trasmesso alle Camere e contenente il Piano in oggetto, si trova specificato
che l’adottando strumento avrebbe costituito uno dei Piani di settore da inserire in un
documento programmatico più ampio, plurisettoriale e plurimodale, ossia il
documento di programmazione pluriennale, la cui predisposizione e approvazione è di
competenza del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ai sensi del D.lgs. n.
228/2011.
22 Piano previsto dall’art. 29, comma 1, del d.l. n. 133/2014 (convertito con l. n. 164/2014) ed approvato con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 26 agosto 2015.
23 Gli obiettivi strategici sono stati indicati in: semplificazione e snellimento; concorrenza, trasparenza e upgrading dei servizi; miglioramento accessibilità dei collegamenti infrastrutturali; innovazione; sostenibilità; certezza e programmabilità delle risorse finanziarie; coordinamento nazionale e confronto partenariale; attualizzazione della governance del sistema.
26
Nel Piano viene condotta un’ampia analisi sulla situazione e le tendenze del settore
marittimo e portuale, a livello sia nazionale che internazionale, con l’individuazione
dei punti di forza e di debolezza, nonché delle opportunità e delle minacce del sistema
italiano.
Significativamente, nel dare atto del “ritardo diffuso” del sistema portuale nazionale
per ciò che riguarda specificamente l’assetto di governo e le dotazioni infrastrutturali
per l’accessibilità portuale e i servizi per il controllo e la movimentazione delle merci,
il Piano strategico indica come finalità caratterizzante quella di dare vita ad un Sistema
Mare in grado di garantire l’inserimento dei porti italiani non solo nel contesto
internazionale, ma anche, e prima ancora, in un modello nazionale di sviluppo
economico competitivo, incentrato su un’adeguata offerta di servizi e infrastrutture, su
semplificate e celeri procedure amministrative e su reali integrazioni polifunzionali tra
ambiti portuali e territorio circostante.
Il Piano, quindi, indica la necessità di realizzare un sistema plurilivello, policentrico,
programmato, pianificato e integrato, che presuppone una radicale revisione del
modello di governo pubblico congiuntamente ad un rafforzamento, coessenziale, dello
strumento della pianificazione portuale (Piano Regolatore di Sistema Portuale), da
rapportarsi ad una dimensione estesa alle aree logistiche e retroportuali.
La vicenda relativa alla elaborazione e approvazione di tale piano è riconducibile alla impostazione propria della c.d. “chiamata in sussidiarietà”, giustificata dalla rilevanza
strategica del settore della portualità e della logistica per l’economica nazionale. Tale
principio è stato confermato dalla stessa sentenza della Corte Costituzionale già
richiamata (n. 261/2015), con cui è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1, del d.l. 133/2014 nella parte in cui disponeva che il piano
27
del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto legge, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri”: la Consulta ha, infatti, ricordato che “allorché sia ravvisabile un’esigenza di esercizio unitario a
livello statale di determinate funzioni amministrative, lo Stato è abilitato, oltre ad accentrare siffatto esercizio ai sensi dell’art. 118 Cost., anche a disciplinarlo per legge, e ciò anche quando quelle stesse funzioni siano riconducibili a materie di legislazione concorrente o residuale”.
Singolare, tuttavia, della fattispecie in esame è che alla pronuncia della Corte
Costituzionale indicata non sia conseguita la decadenza del Piano strategico nazionale
della portualità e della logistica, ovvero che ne è seguita la reviviscenza a seguito della
ratifica postuma da parte delle Regioni in sede di Conferenza unificata.
La Consulta a sostegno della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 29 d.l. 133 cit. ribadisce che, per giurisprudenza costante, l’espansione dell’intervento statale
nelle materie concorrenti è talvolta tollerata purché “siano previste adeguate forme di
coinvolgimento delle Regioni interessate nello svolgimento delle funzioni allocate in capo agli organi centrali, in modo da contemperare le ragioni dell’esercizio unitario di date competenze e la garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite alle Regioni”.
Ebbene, un parere acquisito sul testo del Piano già elaborato non pare idoneo a sostituire la procedura partecipata imposta dall’attuale ripartizione delle competenze
Stato-Regioni.
Sembra piuttosto una scelta di compromesso, la cui legittimità costituzionale pare quanto meno dubitabile. È vero, però, che il meccanismo della “chiamata in
28
alla eccessiva complessità del sistema di riparto delle competenze legislative tra Stato
e Regioni, come uscito dalla riforma costituzionale del 2001. Nell’insieme complesso
dei rapporti legislativi tra Stato e Regioni, il principio di leale collaborazione ha
rappresentato un elemento di razionalizzazione e semplificazione della struttura,
venendo declinato nella pratica dei rapporti tra centro e periferie, in un insieme fluido
di strumenti compositivi, che oscillano dal semplice scambio d’informazioni sino all’intesa “debole” e all’intesa “forte”, passando attraverso previsioni legislative di
altre forme di interazione, quali il parere, del cui grado di vincolatività si continua a
dibattere24.
Se, come già evidenziato, il parere reso in Conferenza unificata a posteriori, quindi nella fase successiva alla predisposizione dell’atto pianificatorio, non può ritenersi
idoneo a sostituire le forme di concertazione orizzontale tra Stato e Regioni che deve precedere la c.d. “chiamata in sussidiarietà”, e pertanto l’accentramento in capo alla
Stato dell’esercizio della potestà legislativa in materie di competenza concorrente,
occorre, tuttavia, indagare più approfonditamente il contenuto di questo Piano per valutare l’effettiva aderenza delle suesposte conclusioni al caso che ci riguarda.
Il Piano in questione, ad un primo approccio, mostra un contenuto ibrido, in parte
programmatorio, in quanto atto di indirizzo, in parte precettivo-ordinamentale, in quanto propone una riforma globale dell’ordinamento portuale con la
razionalizzazione, il riassetto e l’accorpamento delle Autorità portuali, tanto che in
sede di Conferenza si è parlato di “confusione tra livello programmatorio e livello
ordinamentale”. Il contenuto parzialmente precettivo del Piano sembrerebbe anche
24 Sull’argomento si segnala F. MONCERI, La “reviviscenza” del Piano strategico nazionale della
Portualità e della logistica a seguito dell’intesa raggiunta in sede di Conferenza Stato-Regioni. Considerazioni sul “seguito” della sentenza n. 261/2015 della Corte Costituzionale, in
29
confermato dalla Consulta nella pronuncia richiamata là dove invoca come proprio
precedente la sentenza n. 163 del 2012, concernente le disposizioni statali che
regolavano, in forza di chiamata in sussidiarietà, il progetto strategico per l’individuazione degli interventi tesi alla realizzazione dell’infrastruttura della
telecomunicazione, così incidendo sulla materia di competenza legislativa concorrente costituita dall’”ordinamento delle comunicazioni”.
La Corte Costituzionale, tuttavia, non si è soffermata sul carattere “strategico” di tale
piano, non adeguatamente valutando la valenza solo “strategico-programmatoria” del
riferimento operato in esso all’ordinamento del sistema delle Autorità portuali.
Il carattere strategico del piano in questione individua, infatti, uno strumento non
assimilabile, per le ragioni che vedremo, alla pianificazione classica.
La nozione di pianificazione strategica, originariamente derivata dall’ambito militare,
è stata adottata in economia aziendale per poi essere trasferita all’ambito della
pianificazione territoriale.
In quest’ultimo ambito, in senso opposto ai primi due (militare-economico), il termine
strategico è divenuto rilevante nel senso di accentuare la centralità del consenso da parte di tutti gli attori istituzionali interessati nell’adozione di una prospettiva
condivisa di programmazione. Quindi, altrimenti detto, mentre nella pianificazione
tradizionale lo strumento utilizzato ha carattere prescrittivo e obbligatorio, nella
pianificazione strategica il documento ha carattere direttivo-volontaristico25.
Più precisamente, il piano strategico è tale in quanto mia a costruire una visione
condivisa dal maggior numero di attori istituzionali, che si sostanzia nella promozione
25 Cfr. F. DELLO SBARBA, Pianificazione infrastrutturale: dal piano generale dei trasporti al piano
strategico nazionale della portualità e logistica, Volume PRIN Porti, Ed. Scientifica, (in corso di
30
di azioni e progetti, suscettibili, in virtù del suo carattere flessibile, di subire
aggiustamenti e successive revisioni.
Secondo questa chiave di lettura, il coordinamento necessario con riferimento a tale
pianificazione non andrebbe, dunque, ricercato nella fase di predisposizione del
documento, bensì in quella successiva di sua attuazione, in quanto il fine della
pianificazione strategica non è costituito dalla redazione dell’atto programmatorio ma dalla predisposizione di un “processo pianificatorio permanente” attraverso la
strutturazione di una rete di relazione tra i soggetti coinvolti che dovranno coordinarsi
nella fase di “gestione” del piano26.
Altra ricostruzione, mantenendosi fedele al dictum della Consulta nella sentenza n.
261/2015, evidenzia, invece, come il parere acquisito in sede di Conferenza unificata in via successiva alla predisposizione dell’atto, non sia idoneo a sanare ex post la
procedura di approvazione del piano, in quanto sarebbe carente, in forza della natura
additiva propria della pronuncia in esame, di un referente normativo: più specificatamente, a seguito della pronuncia di incostituzionalità l’art. 29 rimane ancora
in piedi ma, dal momento che il piano è stato approvato in maniera non rispettosa della
nuova formulazione dell'art. 29 stesso, pare più logico che la procedura di
approvazione del piano divenga illegittima per sopravvenuto contrasto con la norma
che lo prevede, con la conseguente necessità di ritirarlo per avviare ex novo la
procedura in maniera coerente con le indicazioni provenienti dalla Corte27.
26 Così, sempre F. DELLO SBARBA, Pianificazione infrastrutturale, art.. cit.
27 Cfr. F. MONCERI, La “reviviscenza” del Piano strategico nazionale della Portualità e della
31
1.4. Modelli di governance dei centri logistici
Prima di passare a esaminare i modelli di governance dei centri logistici, e degli
interporti in specie, si rende utile un chiarimento sul concetto di logistica e di centro logistico. La logistica, nella sua accezione più moderna, viene concepita come “il
processo di pianificazione, implementazione e controllo dell’efficiente ed efficace flusso e stoccaggio di materie prime, semilavorati e prodotti finiti e delle relative informazioni dal punto di origine al punto di consumo, con lo scopo di soddisfare le esigenze dei clienti”28 . Con riferimento al concetto di centro logistico manca un quadro definitorio chiaro e condiviso, potendo essere inteso in modo più o meno ampio in virtù della prospettiva teorica adottata o dell’obiettivo di analisi.
La confusione semantica è riconducibile in primo luogo all’assenza di una teoria
consolidata sul tema, nonché alla relativa scarsità di contributi scientifici e studi
empirici dedicati a questa tipologia di infrastrutture.
Il concetto di centro logistico è inoltre cambiato nel tempo, per effetto di tre
fondamentali percorsi evolutivi: a) i cambiamenti dei bisogni logistici espressi dalla
domanda e del contenuto delle attività logistiche e di supply chain management29; b)
l’evoluzione dei paradigmi tecnologici-produttivi dei cicli di trasporto; c) il diverso
ruolo giocato dal soggetto pubblico e, in particolare, le trasformazioni dell’internazionalizzazione delle imprese e delle politiche volte all’attrazione di
investimenti.
28 G. SATTA, L’evoluzione del concetto di centro logistico: definizione del campo di indagine, in P. GENCO (a cura di), Centri logistici per la competitività delle imprese. Profili Strategici e di Governo, Franco Angeli, 2015, 47.
29 Supply chain management è la filosofia di gestione della catena logistica integrata dal processo di approvvigionamento alla distribuzione fisica verso il mercato; in tale ottica ogni step è considerato un anello di una grande catena, così T. VESPASIANI, Glossario dei termini economici e giuridici dei
32
All’assenza di un concetto universalmente condivisibile di “centro logistico”
contribuiscono altresì il valore semantico assunto dal termine nelle varie nazioni, le
caratteristiche orografiche e socio-demografiche che contraddistinguono i territori, i
contesti normativi-istituzionali di riferimento.
Con riferimento alla mutevolezza semantica nei vari Paesi basti considerare che il “centro logistico” viene prevalentemente definito freight village in Gran Bretagna,
plate forme logistique o platforme multimodale in Francia, mentre è diffuso in Germania il termine Guterverkehrszentrum. In Italia il termine centro logistico viene spesso associato (fino a farlo coincidere) all’espressione “interporto”.
Dal punto di vista geografico, si veda per esempio che le nazioni caratterizzate dalla
presenza di pochi centri urbani di grandi dimensioni, come la Germania, sono servite
da un numero esiguo di nodi intermodali collocati lungo corridoi ad alta intensità di
traffico, e tali da assicurare il raggiungimento di elevate economie di scala.
Al contrario, una forte dispersione della popolazione sul territorio, può condurre ad
una eccessiva frammentazione degli investimenti infrastrutturali e alla nascita di un
ampio numero di strutture logistiche de-specializzate e inadeguate al raggiungimento delle soglie dimensionali minime efficienti. Indicativo è il caso dell’Italia: la
dispersione della popolazione e dei centri urbani, unitamente al prevalere di spinte
localistiche e di una pianificazione infrastrutturale e territoriale miope, ha causato la
proliferazione di un ampio numero di nodi logistici, incapaci di assolvere un concreto
ruolo di catalizzatore di elevati flussi di traffico.
Quanto al quadro normativo, a livello europeo la Commissione UE ha da tempo
avviato una riflessione circa la necessità di programmare un sistema di centri logistici
intermodali a supporto delle reti TEN-T. L’UE ha identificato i corridoi logistici e di
33
realizzazione delle infrastrutture. A supporto di ciò l’UE ha anche avviato una serie di
programmi di finanziamento orientati essenzialmente a rafforzare il trasporto
combinato intermodale.
Anche con riferimento ai centri logistici, analogamente a quanto si verifica nell’ambito
delle strutture portuali, è possibile riscontrare nei vari paesi soluzioni organizzative e
giuridico-contrattuali variegate. Le aree e le infrastrutture infatti possono essere date in
locazione o concessione, oppure addirittura cedute.
Un primo elemento da considerare nella individuazione del modello di governance dei
centri logistici è la separazione/coincidenza tra gestione dell’infrastruttura e gestione
dei servizi logistici.
Pertanto, è possibile che tutte le attività riconducibili al centro logistico
(pianificazione, realizzazione delle infrastrutture, gestione operativa diretta delle
strutture e gestione/manutenzione degli spazi comuni) siano di esclusiva responsabilità
di un unico soggetto, solitamente una società privata la cui compagine azionaria può
avere natura pubblica, mista o privata. Sono parimenti riscontrabili casi in cui l’ente gestore dell’infrastruttura si occupa della pianificazione, realizzazione e
concessione/locazione (o vendita) delle infrastrutture nonché della gestione e
manutenzione degli spazi comuni e uno o più soggetti, ai quali siano state date in
concessione o locazione le infrastrutture e le strutture logistiche, si occupano della
gestione operativa delle strutture del centro e offrono servizi diversi sul mercato. Con riferimento agli assetti proprietari dell’ente gestore dell’infrastruttura è possibile
identificare tre tipologie ricorrenti nella pratica comune, nazionale e internazionale: 1. Centro logistico di proprietà di un ente pubblico che assicura l’accesso a tutte le parti
public-34
private partnership; 3. Centri logistici di proprietà di un’impresa privata, che soddisfa
principalmente i propri interessi.
Ai fini del presente contributo mi occuperò solo delle prime due tipologie.
Alla prima tipologia sono riconducibili, a livello nazionale, i centri logistici regionali
di servizio pubblico e le piattaforme di imprese di trasporto pubblico.
Possono darsi due modalità di gestione da parte del soggetto pubblico della
infrastruttura: il soggetto pubblico può limitarsi a realizzare l’infrastruttura e metterla
a disposizione di soggetti privati (prevalentemente imprese di logistica e trasporto)
oppure la gestione dei servizi può configurarsi, dal punto di vista giuridico, “destinabile alla vendita”, come avviene nella grandi infrastrutture di trasporto come i
porti. Emblematici sono i magazzini generali e i mercati generali. I magazzini generali
sono infrastrutture di pubblica utilità, frequentemente inserite in nodi logistici dove
vengono forniti servizi doganali, fiscali e amministrativi.
Quando la proprietà dell’infrastruttura è prevalentemente pubblica, può darsi la
partecipazione di più attori istituzionali, come le Regioni, le Province, i Comuni, le
Camere di Commercio, le Ferrovie, le società finanziarie pubbliche.
A livello nazionale, significativo è l’esempio fornito dalle società proprietarie e gestori degli interporti, in cui è rilevante la presenza del soggetto pubblico e l’adozione di
soluzioni miste pubblico-private. Anche quando la totalità o la maggioranza del
capitale sociale è detenuta dal pubblico, è previsto il coinvolgimento di più soggetti pubblici, ciò in quanto l’interporto è lo snodo di una pluralità di interessi e, pertanto,
utile per la loro convergenza è la partecipazione dei vari shareholder e stakeholder in
merito alle linee di indirizzo degli interporti. Rilevante, almeno dal punto di vista
qualitativo se non da quello quantitativo, è la partecipazione nella compagine
35
interporti: Padova, Parma, Orte, Torino, Novara, Livorno e Bologna) in quanto rappresenta un’opportunità per incrementare le connessioni tra sistema interportuale e
sistema ferroviario.
Nella realtà nazionale possono identificarsi anche casi in cui il soggetto pubblico
partecipa come proprietario ad altri centri logistici, diversi dagli interporti, come i
distripark30 e le infrastrutture che richiedono un elevato coordinamento e integrazione con il sistema portuale. Significativa è la partecipazione delle Autorità portuali nello
sviluppo e realizzazione di distripark e altre infrastrutture retroportuali. Esempi si possono trovare nella partecipazione dell’Autorità portuale di Taranto come azionista,
insieme al comune di Taranto e la Provincia, del Distripark di Taranto, mediante il
consorzio costituito per la realizzazione e gestione della relativa opera infrastrutturale. Analogamente, l’Autorità portuale di La Spezia è azionista del retroporto di S.Stefano
Magra, gestito dalla società Spedia S.p.A. con una partecipazione superiore al 6%.
Quanto alla seconda tipologia, essa implica il coinvolgimento sia del soggetto pubblico che di quello privato nell’assetto proprietario dell’ente gestore
dell’infrastruttura. Tra gli esempi di partenariato pubblico-privato nella realizzazione e
30 Complesso logistico retro portuale (detto anche retroporto), dotato di strutture di stoccaggio e di distribuzione delle merci in grado di fungere da elemento di interscambio tra diverse modalità di trasporto e da anello di congiunzione tra un’area industriale o di servizi logistici e un centro di scambio modale. Nei Distripark le merci possono essere manipolate, cioè imballate, etichettate, smistate. Secondo S. BOLOGNA il retroporto può intendersi “una struttura di continuità territoriale dove uffici
doganali, uffici sanitari, operatori, regole configurano una sorta di ‘allungamento del porto’, di satellite ove possano essere svolte operazioni che rendono più fluida ed efficiente l’operatività del porto, operazioni di reimbarco all’export e di varia natura all’import, per esempio la sosta prolungata di una merce containerizzata, in attesa di essere venduta, l’apertura di un container con collettame e il ritiro di singole partite per l’opera dei ricevitori o dei clienti finali, la sosta di container contenenti merce sottoposta a controlli speciali, la logistica dei vuoti, le riparazioni, il ricovero di merci con arrivo concentrato in alcuni picchi stagionali per l’alleggerimento della congestione […].Un sito quindi collocato in prossimità dell’area portuale, a una distanza che non incida pesantemente sui costi di trasferimento, nettamente da distinguere dall’inland terminal che consiste in una “struttura collocata in prossimità dell’area di mercato di destinazione; […] il retroporto è al servizio del porto, l’inland terminal è al servizio del cliente”, cfr. T. VESPASIANI, Glossario dei termini economici , op. cit., 45.