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C ORDOBA E LA FONDAZIONE DELLA MONARCHIA “ MODERATA ” COSTITUZIONALE

Nel pueblo di Iguala, il 24 febbraio 1821, Agustín de Iturbide proclamò l’indipendenza dell’“America Settentrionale”, secondo i punti del Piano che firmava dopo mesi di minuziosa preparazione. Come molte delle vicende che ruotano intorno all’impresa dell’emancipazione messicana, anche quella della pubblicazione del Plan de Iguala non ebbe uno svolgimento né univoco né lineare. Jaime Del Arenal ha illustrato efficacemente l’avvicendamento di ben tre versioni del documento1: una prima, manoscritta e più grezza, probabilmente l’originale del 24 febbraio

sottoscritto da Iturbide; una immediatamente successiva, già più curata, pubblicata però solo il 17 marzo dal periodico indipendentista El Mejicano Independiente2 e trascritta da Carlos María de Bustamante nel suo Cuadro Histórico3; infine, quella “definitiva”, stampata dal periodico La Abeja Poblana, il 2 marzo4. Le differenze tra le sole due versioni destinate alla circolazione, quella pubblicata dal Mejicano Independiente e da Bustamante, e quella dell’Abeja Poblana, sono notevoli: nella prima esisteva un proclama preliminare, assente nella seconda, che però, in cambio, al contrario della precedente era estesamente titolata5; la prima era articolata in 23 punti, mentre la seconda in 24; infine, la seconda ampliava organicamente ciascuno dei punti della prima. Ciò indurrebbe a ritenere che la seconda versione fu redatta solo in seguito alla proclamazione del Piano, forse “ritoccata” da una mano più esperta nell’uso di un efficace linguaggio politico6.

Ad ogni modo, sarà necessario mettere a ulteriore confronto le due versioni a stampa del Plan, per cogliere tutte le peculiarità del fatidico Documento dell’emancipazione messicana.

Il proclama che precede la prima versione risulta sostanzialmente illustrativo della bontà dell’iniziativa indipendentista: è rivolto agli «Americanos», volendosi così appellare «no solo a los nacidos en América, sino a los Europeos, Africanos y Asiáticos, que en ella residen». Si tratta di un esordio già decisivo: la portata onnicomprensiva dell’“essere americano” non era spiegabile tanto con una prospettiva ideologicamente “cosmopolita”, quanto piuttosto con il tradizionale concetto ispanico della “vecindad”, ovvero la residenza e l’attività sociale che un individuo radicava in un certo luogo dell’orbe, appunto, ispanico. Tale vecindad agiva da presupposto per l’esercizio di diritti civili e

1 Si veda DEL ARENAL FENOCHIO, Un modo de ser libres… cit., p. 100 e ss.

2 Il periodico fu fondato da José Manuel de Herrera a Puebla, pochi giorni dopo la proclamazione del Plan. Cfr. ALAMÁN,

Historia de Méjico… cit., V – I, p. 107.

3 Cfr. BUSTAMANTE, Cuadro Histórico… cit., V, p. 115 – 118.

4 Per la precisione, il Plan di Iturbide fu pubblicato nel supplemento al n. 14 del periodico fondato proprio da Carlos María Bustamante. Questa sarebbe diventata la versione ripubblicata, poi, anche in innumerevoli foglietti a stampa e negli atti ufficiali del costituendo governo imperiale. Negli Agustin de Iturbide Papers è presente la versione del Plan diffusa dall’Abeja Poblana, nella ristampa prodotta dalla Imprenta de Diego Benavente y Socios di Città del Messico nello stesso 1821. Cfr. Library of Congress (da ora, LOC), Agustin de Iturbide Papers (da ora, AIP), Box 10 – “Broadsides or Printed

Matter”.

5 Il titolo recitava infatti: «Plan ó indicaciones para el gobierno que debe instalarse provisoriamente con el objeto de

asegurar nuestra sagrada religión y establecer la independencia del Imperio Mexicano: y tendrá el título de Junta Gubernativa de la América Septentrional, propuesto por el Sr. Coronel D. Agustin de Iturbide al Excmo. Sr. Virey de N. E. Conte del Venadito». Più che un’intitolazione, una vera e propria premessa, dal contenuto sapientemente rivelatore.

6 ROBERTSON, Iturbide de México… cit., p. 125 – 126; DEL ARENAL FENOCHIO, Un modo de ser libres… cit., p. 107. Secondo questo autore, il fatto che la circolazione della prima versione tramite il Mejicano Independiente sia successiva alla seconda da parte dell’Abeja Poblana non deve sorprendere: in quei momenti convulsi ci furono problemi con la stampa del Plan, cosicché fu probabilmente per una casualità che il Mejicano si trovò costretto a proporre la versione da 23 articoli. Si veda sul punto ivi, p. 107 – 108.

politici, per la partecipazione attiva alla res publica sulla scorta di un “interesse stabile” a farlo, indipendentemente dall’origine di sangue. Il presupposto della vecindad era, dunque, necessario e sufficiente per interessare l’“Americano” alla proposta politica formulata da Iturbide. Già dall’esordio del Plan si metteva in chiaro che la questione etnica, pur se da sempre onnipresente in una società della diseguaglianza come quella spagnola e, in particolare, novohispana, perdeva ogni rilevanza.

Qualche rigo dopo, Iturbide annunciava che la «tutela» della «Nación mas Católica y piadosa, heroica y magnánima», la Spagna, era finalmente terminata dopo trecento anni. L’uso di tante espressioni lusinghiere nei confronti della Metropoli appariva contrario all’ideologia insurrezionale del decennio precedente: questa infatti prevedeva l’inappellabile censura nei confronti del regime di governo della Penisola, disprezzato come un regime dispotico e schiavista a danno degli americani. Ora tale concezione veniva completamente ribaltata: Iturbide esaltava la Vecchia Spagna come una “madre”, che «educó» e «engrandeció» la Nuova, fornendole gli strumenti economici e culturali per conseguire la propria compiuta autoconsapevolezza nazionale. Questa raggiunta maturità, però, aveva consentito di realizzare che, essendo «la rama igual al tronco», sarebbe stato impossibile mantenere un rapporto di subordinazione tra la Spagna e la sua “creatura”, a maggior ragione perché la distanza geografica e politica tra le due era ormai insopportabile. Questo passaggio ricalcava la dottrina giustificativa delle proposte dei deputati americani alle Cortes del 1821, quella della distanza, appunto, tra l’una e l’altra sponda dell’Atlantico, che inficiava l’applicazione della stessa Costituzione. Da queste premesse, il proclama ricavava la logica conclusione che «la opinión pública y la general de todos los pueblos, es la independencia absoluta de la España y de toda otra Nación. Así piensa el europeo, y así los americanos de todo origen».

A questo punto, ecco un’altra svolta argomentativa sorprendente: la proclamazione dell’indipendenza veniva dichiarata in continuità con il movimento insurrezionale del cura Hidalgo del 1810, che pur peccando di una «moltitud de vicios» e causando i disastri della guerra civile, aveva avuto il merito inconsapevole di orientare l’opinione pubblica verso un nuovo sistema di governo, che tutelasse, al contrario di quanto avvenuto in passato, l’“unione” tra europei e americani (questi ultimi, sia «indios» che «indígenas», vale a dire, sia gli aborigeni precolombiani che, generalmente, i “nati in America”).

Impensabile che un colonnello creolo realista, feroce repressore degli insorti degli anni ’10, accreditasse dei meriti, per quanto inconsapevoli, alla rivoluzione dei diseredati che tanto aveva dimostrato di disprezzare. Eppure, tale riconoscimento era funzionale all’introduzione del primo caposaldo politico del discorso iturbidista: l’“unione”, appunto, tra europei e ultramarini. In effetti, proseguiva il proclama, andava riconosciuto che gli europei (residenti in America) avevano forti interessi economici e finanziari nel Nuovo Mondo e, d’altra parte, che nelle vene di ogni singolo americano scorreva sangue peninsulare. «Ved la cadena dulcísima que nos une, añadid los lazos de amistad, la dependencia de intereses, la educación é idioma, y la conformidad de sentimientos»: in questi termini, assicurare la continuità dell’unione tra europei e americani risultava del tutto fisiologico, allo scopo di conseguire la «felicidad del Reino».

L’unione diventava l’elemento propulsivo e finale dell’emancipazione: un’impresa, questa, che Iturbide, alla testa di un esercito valoroso e risoluto, esortava l’opinione generale a “ratificare”7.

In effetti, l’esplicita manifestazione dell’«uniformidad de (…) sentimientos» degli “Americani” nei confronti della proposta del Piano era considerata imprescindibile: l’America Settentrionale, esortava

7 A fronte della frequente precisazione della necessità che fosse «una sola opinión y una sola voz» ad assicurare la felicità del “Reino”, non si usava nel proclama alcun richiamo alla “volontà generale”.

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il proclama, «es ya libre, es ya Señora de sí misma, ya no reconoce ni depende de la España, ni de otra Nación alguna. Saludadla todos como Independiente».

Per concludere, ecco un richiamo a un elemento “collante” fino ad allora solo accennato: la religione cattolica. «No anima otro deseo al Ejercito, que el conservar pura la Santa Religión que profesamos, y hacer la felicidad general». La nuova Nazione sorgeva dunque geneticamente improntata come “cattolica”.

Proprio la religione sarebbe stato il primo elemento considerato all’interno delle «bases sólidas», il Plan vero e proprio enunciato di seguito. I 23 articoli del documento sono aggregabili in alcune “sezioni”, disciplinanti ciascuna specifiche materie. I primi tre contengono enunciati fondamentalmente di principio, occupandosi di descrivere le basi essenziali del nuovo soggetto politico nazionale: la religione Cattolica Apostolica Romana, con il corollario di un inderogabile principio di intolleranza (art. 1); l’indipendenza «absoluta» del Reino (art. 2)8; la forma di governo

monarchica, «templad[a] por una Constitución análoga al país» (art. 3).

Seguiva quindi una “sezione” dedicata all’ordinamento provvisorio dello Stato: si specificava (art. 4) che gli «Emperadores» sarebbero stati, in ordine di preferenza, Ferdinando VII, re di Spagna, oppure «en sus casos» i componenti della sua dinastia. La chiamata al trono di un membro di una dinastia reale era obbligata, proseguiva la disposizione, dalla necessità di evitare ogni ambizione personale tra i neoemancipati. Si noti che si definisce Ferdinando “imperatore” prima ancora che la forma del nuovo Stato sia mai stata qualificata come “Impero”: si tratta in effetti di una delle incongruenze logiche e terminologiche che risultano da questa prima versione ufficiale del Plan.

All’art. 5 si stabiliva la formazione di una junta, che avrebbe per il momento supplito a delle cosiddette “Cortes”, le quali in seguito avrebbero avuto il compito di rendere “effettivo” il Piano. Ecco dunque i primi, veri riferimenti istituzionali all’interno del progetto indipendentista: rispettivamente, un organo collegiale provvisorio subito operativo e una futura assemblea nazionale, battezzata col tradizionale nome ispanico. L’impiego del nome “Cortes” appare frutto dell’uso comune, della tendenza naturale ad attingere a un patrimonio culturale sedimentato, in qualche modo rassicurante e del tutto attuale. Più in là, all’art. 11, si informava che oggetto dei lavori delle “Cortes” sarebbe stata la “Costituzione dell’Impero Messicano”, ovvero la Carta “moderatrice” del governo monarchico preannunciata già nell’art. 3. Se si combina questa disposizione con l’inciso dell’art. 5, secondo cui le “Cortes” avrebbero dovuto “attuare effettivamente” il Plan, se ne può dedurre che il lavoro costituente dell’assemblea avrebbe dovuto seguire l’impostazione dello stesso documento di Iguala. In sostanza, questo veniva già imposto come limite essenziale al lavoro delle future “Cortes”. Il progetto iturbidista sembrava assumere il Plan come una sorta di compendio normativo super – costituzionale: perciò, la Costituzione avrebbe dovuto corrispondere, almeno nelle fondamenta, allo stesso Plan. Tale sillogismo, del resto, appare del tutto coerente con la sanzione di quelli che appaiono come i veri pilastri costitutivi della nuova Nazione, di cui agli artt. 1, 2 e 3.

Tornando sull’enunciato dell’art. 11, è curioso che solo lì, per la prima volta nell’articolato, venisse svelato il nome completo scelto per il nuovo Stato: Impero Messicano. È opportuna una breve riflessione su alcuni possibili presupposti ideologici di tale scelta. Secondo Alamán, la preferenza per la forma dell’“Impero” sarebbe derivata dalla grande considerazione che di sé e del loro Paese avevano gli indipendentisti: si sarebbe trattato, dunque, di una scelta quasi presuntuosa, del tutto

8 In un momento in cui il lessico politico ispanico ancora era indeciso sul significato incontrovertibile da dare alla parola “indipendenza”, era meglio essere chiari e specificare che, essendo essa “assoluta”, non esisteva possibilità di confonderla con una semplice “autonomia”.

autoreferenziale9. Ipotesi, questa dell’illustre testimone dell’epoca, di certo accettabile. Tuttavia, uno

sguardo giuridico – istituzionale sulla questione può proporre una prospettiva più complessa e non meno plausibile, considerando la schiera di intellettuali autonomisti, specialmente giuristi, che dovrebbe aver influito sulle bozze del Piano. Quella di “Impero” era stata la forma attribuita dalla tradizione di pensiero giuspolitico successiva alla Conquista all’entità azteca o, per meglio dire (in lingua náhuatl), méxica, denominata Anáhuac: così l’aveva riconosciuta Hernán Cortés, che aveva acquisito quell’entità alla Corona di Castiglia e i suoi abitanti al novero dei vassalli del suo re, allora Carlo I (V del Sacro Romano Impero). È celebre la versione di Cortés sulla traslatio imperii operata da Montezuma II nei confronti del monarca cristiano, così come l’accostamento comparativo del titolo di imperatore del Sacro Romano Impero a quello di “imperatore” della Nuova Spagna (il nome dato dal conquistador all’Anáhuac)10. Il patriottismo creolo, nel corso dei secoli successivi, avrebbe

rielaborato ed enfatizzato l’identità culturale e antropologica méxica, mentre, dal punto di vista giuridico – istituzionale, avrebbe sottolineato la sorta di continuità della soggettività giuridica internazionale dell’“Impero” azteco (messicano) nel Reino ultramarino della Nuova Spagna, considerato per ciò stesso del tutto equivalente a quella dei Reinos di Castiglia, di Aragona, di Napoli, etc. Questo aspetto avrebbe completato la costruzione ideale di un’autonoma “civiltà americana” all’interno della Monarchia spagnola, che però in Europa, soprattutto nel Settecento illuminista, con la diffusione nella Penisola del paradigma coloniale di stampo mercantilista, si sarebbe giudicata pretestuosa e inesistente11. Non di solo mito si era però alimentata questa concezione: la presenza sempre attuale di un’eredità giuspolitica imperiale méxica risultava testimoniata dal valore pagato dalla Corona castigliana, a titolo di indennizzo per lo spoglio subito, agli eredi di Montezuma II, uso che si ebbe a partire dal regno di Filippo III d’Asburgo e che comportava la rinuncia a ogni diritto sul trono dell’“Impero” (nome esplicitamente utilizzato nell’occasione) messicano12. Negli anni ’10

dell’Ottocento, i movimenti insurrezionali novohispanos connotarono con forti richiami al passato “imperiale” precolombiano le loro rivendicazioni13: la prima dichiarazione di indipendenza

dell’“America Settentrionale”, nel 1813, veniva non a caso resa dal Congresso dell’Anáhuac riunito

9 Cfr. ALAMÁN, Historia de Méjico… cit., V – I, p. 116.

10 La vicenda della traslatio imperii che, per quanto in maniera ingannevole e fittizia, Cortés raccontò a Carlo V di aver imposto a Montezuma II è ricostruita in: D. BRADING, Orbe Indiano. De la monarquía católica a la República criolla,

1492 – 1867 (titolo originale: The First America: the Spanish monarchy, Creole patriots and the Liberal state, 1492 – 1867), Fondo de Cultura Económca, Città del Messico 1991, pp. 42 – 43; J. H. ELLIOTT, Imperios del mundo atlántico.

España y Gran Bretaña en América (1492 - 1830) (titolo originale: Empires of the Atlantic World. Britain and Spain in America 1492 – 1830), Editorial Taurus, Madrid 2011 (3ª edizione), p. 30, p. 54 e p. 192.

11 Lo sviluppo di un paradigma della Nuova Spagna come Reino per “diritto proprio”, derivante da un “Impero”, doveva molto già alle ricostruzioni storiche sul mondo politico e culturale indigeno prodotte fin dalla seconda metà del Cinquecento, come la Monarquía Indiana del francescano Torquemada. Cfr. BRADING, Orbe Indiano… cit., pp. 314 e ss. 12 Questa interessante pattuizione è riportata nel classico studio di J. MANZANO MANZANO, La incorporación de las Indias

a la Corona de Castilla, Ediciones Cultura Hispánica, Madrid 1948, p. 308. L’autore afferma che l’indennizzo si

corrispondeva ancora nel 1820.

13 Si trattava di reminiscenze che avevano affascinato trasversalmente diversi personaggi al seguito di Morelos, tra cui Carlos María Bustamante: il futuro alfiere del repubblicanesimo scrisse per Morelos il discorso di apertura del Congresso di Chipalcingo, in cui esplicitamente fece riferimento al “ristabilimento” dell’antico impero messicano, “migliorandone il governo”: cfr. sul punto L. VILLORO, El proceso ideológico de la revolución de Independencia, Fondo de Cultura Económica, Città del Messico 2010, pp. 156 – 157. Proclamato il Plan de Iguala e con ormai a buon punto la campagna di indipendenza, Bustamante celebrò il passato imperiale azteca con intento “didattico” nei confronti dei nuovi governanti, quando scrisse un’opera in cui riassumeva le vite dei principi dell’epoca precolombiana, modello di virtù e moderazione: cfr. C. M. BUSTAMANTE, Galería de antiguos príncipes mexicanos dedicada a la suprema potestad nacional que les

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a Chipalcingo14. Il recupero di questa nomenclatura era così giunto fino al Plan de Iguala, che ora

parlava di “Impero messicano”15 fondendo il significato “patriottico” già noto con uno più moderno

e “politico”16; tuttavia, nei mesi a seguire non si sarebbe rinunciato a utilizzare il termine Anáhuac in contesti più celebrativi e retorici17.

Tra gli artt. 6 e 10 del Plan de Iguala si sviluppavano le caratteristiche ordinamentali della junta provvisoria: l’organismo si sarebbe appellato “Governativo”; avrebbe governato «en virtud del juramento que tiene prestado al Rey, ínterin este se presenta en México y lo presta, y entonces se suspenderán todas ulteriores ordenes». Nel caso in cui Ferdinando VII non si fosse risolto a venire in Messico, la «Junta ó la Regencia» avrebbero continuato a governare «a nombre de la Nación», mentre si fosse deciso chi incoronare18. Il governo sarebbe stato “sostenuto” dall’«Ejercito de las Tres Garantías»: certificandosi “super – costituzionalmente” il ruolo della forza armata, che del resto era la vera protagonista dell’estensione al pubblico del Plan, la si connotava specificamente con un appellativo, anche qui, qualificativo di una specifica funzione già istituzionale, “delle Tre Garanzie”. Tuttavia, curiosamente all’art. 9 non si specificava né cosa fossero le Garanzie, né cosa significassero nell’architettura complessiva del nuovo Impero.

L’art. 10 risolveva l’eventuale concorrenza tra Junta e future “Cortes”: le seconde, una volta in funzione, avrebbero stabilito se mantenere la prima in attività oppure se sostituirle una “Reggenza”, in attesa dell’arrivo di un Imperatore.

Non è semplice indovinare i modelli di riferimento di questo primo abbozzo di impalcatura istituzionale: si sa che le juntas erano generalmente considerate come tradizionali corpi collegiali di governo, dove per “governo” poteva intendersi la summa delle attribuzioni del potere pubblico19. I

precedenti ispanici più recenti legavano a queste istituzioni una caratterizzazione emergenziale, “rappresentativa” della Nazione o della massima autorità politica: gli esempi più illustri di juntas erano certo quelle del biennio 1808 – 1810, sia nella Penisola che in America. Tuttavia, nella Spagna

14 Cfr. Acta solemne de la declaración de la independencia de la América septentrional, in E. LEMOINE, Insurgencia y

República federal, Porrúa, Città del Messico 1987 (2ª edizione), pp. 219 – 220.

15 Per un sintetico spaccato sull’immaginario imperiale in Nuova Spagna tra la fine del Settecento e l’indipendenza, si veda R. ROJAS, La escritura de la independencia. El surgimiento de la opinión publica en México, Taurus – Centro de Investigación y Docencia Económica, Città del Messico 2010 (ristampa della 1ª edizione del 2003), pp. 66 – 74. 16 In DEL ARENAL FENOCHIO, Un modo de ser libres… cit., p. 165, si sottolinea che l’immaginario imperiale che Iturbide aveva davvero in mente, al di là della reminiscenza storico – culturale, era quella di uno stato che, in quanto appunto “Impero”, fosse forte e centralizzato, evitando la frammentazione interna e le minacce esterne. Sul punto, cfr. anche A. LEMPÉRIÈRE, De la república corporativa a la Nación moderna. México (1821 - 1860), in A. ANNINO, F. – X. GUERRA,

Inventando la nación. Iberoamérica siglo XIX, Fondo de Cultura Económica, Città del Messico 2003, p. 319.

17 Il termine Anáhuac non dava adito a confusione con il nome della capitale, che pure era abitualmente nominata México; anche per questo motivo, nel biennio 1821 – ’23 finì per diventare il preferito dei repubblicani: cfr. A. ÁVILA, México:

un viejo nombre para una nueva nación, in J. C. CHIARAMONTE (a cura di), Crear la Nación. Los nombres de los países

de América Latina, Editorial Sudamericana, Buenos Aires 2008, p. 282.

18 CUEVAS, El Libertador… cit., p. 193, riporta un versione differente dell’enunciato dell’art. 8 del Plan: invece di «la

junta ó regencia mandará á nombre de la nación», il testo trascritto in quella sede è «la junta de la regencia mandará…».

È possibile che si tratti di un refuso, poiché l’affidabilità della versione offerta da Bustamante, che poi è quella riproposta anche da ALAMÁN, Historia de Méjico… cit., V – II, p. 9 dell’“Appendice” (o anche nella compilazione ARCHIVO GENERAL DE LA NACIÓN (a cura di), Correspondencia y diario militar de Agustín de Iturbide. 1815 – 1821, vol. III, Talleres Gráficos de la Nación, Città del Messico 1930, p. 663, che include la copia del Plan conservata nell’Archivo General de la Nación) appare fuori questione. Eppure, M. CALVILLO, La consumación de la independencia… cit., p. 94, ripropone proprio quella che sembra la versione del Plan pubblicata da Cuevas (peraltro senza citarlo come riferimento),