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P ARS DISTRUENS : CONCEZIONE DELLA LEGGE E DELLA POTESTAS

1. U N POTERE ASSOLUTO ?

1.4 P ARS DISTRUENS : CONCEZIONE DELLA LEGGE E DELLA POTESTAS

Ma c’è un altro freno che impedisce qualunque deriva assolutista: la concezione della legge tipica del Medioevo trova conferma anche nel Principato, dove per circa un secolo – da Arechi ad Adelchi – non viene promulgata una sola legge. Neanche due principi accentratori come Sicone e Sicardo osano intervenire in un campo, quello giuridico, lasciato all'azione regolatrice della tradizione e della prassi. In questo lungo periodo è dato trovare solo due capitolari che, però, non sono leges ma foedera pacis. La legge positiva è solo una delle fonti con cui la società è regolata. La sua emanazione rappresenta un fatto raro, cui si fa ricorso in ipotesi particolarmente delicate. Essa convive con gli usi, di cui molto spesso è semplice consolidazione. Il pensiero medievale, infatti, rigetta la concezione volontaristica della legge propugnata dal tardo diritto romano (D. 1.4.1pr: “quod principi placuit legis habet vigorem”) per abbracciare una nozione sostanziale: è legge ciò che soddisfa determinati parametri contenutistici, aderendo alle esigenze fattuali, ma rispondendo alla ragione e alla natura. “Lex (…) non è mera volontà o atto

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d'imperio, ma lettura delle regole ragionevoli scritte nella natura delle cose” : così nel

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Medioevo ancora acerbo di Isidoro , così nel Medioevo ormai maturo di

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Tommaso d'Aquino . Il principe ha allora il compito di sancire una legge, ma

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non può crearla dal nulla; agisce “prudenter atque humiliter” e si pone più come lator legis che non come conditor legis: dallo ius naturale che Dio ha scritto nelle cose, egli ricava lo ius humanum. Questo principio è ben chiaro anche ai legislatori beneventani. Nella Divisio Radelchi fa riferimento a quanto “si conviene per ragione ed uso”, mentre nel prologo del Pactum Sicardo specifica la necessità che “le parti obbediscano a ciò che è precetto di Dio”. L'ultimo legislatore della Storia longobarda, il principe Adelchi, nel prologo del suo Capitolare fa esplicito riferimento all'“Omnipotens universitatis dispositor” e specifica la funzione stessa della legge positiva: “quibus omnis iniquus suam malitiam et iniquitate retundare et refrenare debeat”. Nonostante l'invocazione iniziale

381 G

ROSSI 2000, p. 138.

382 “Erit autem lex honesta, iusta, possibilis, secundum naturam, secondum consuetudinem patriæ,

loco temporique conveniens, necessaria, utilis (…) nullo privato commodo, sed pro communi civium utilitate conscripta”: ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiarum, V, XXI.

383 È il contenuto della celebre Quæstio 90 secondo la quale la legge è “quendam rationis

ordinatio ad bonum commune”: TOMMASO D'AQUINO, Summa Theologica, Prima Secundæ.

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all'unico vero Legislatore cosmico, è chiaro che nella concezione di Adelchi la legge non riveste nessuna finalità palingenetica, né tantomeno rivendica il suo monopolio giuridico. Come aveva consigliato Isidoro, il Princeps non fa altro che “stornare dal male il suo popolo, inducendolo a vivere rettamente in virtù delle leggi”. Un atteggiamento minimalista, frutto di quella concezione negativa dello

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Stato propugnata dai Padri della Chiesa, ma sicuramente poco invasivo . Il monarca, pertanto, non si prefigge la felicità dei sudditi o la salvezza delle loro anime: piuttosto, si preoccupa di assicurare la pace sociale tramite la deterrenza. A questo scopo è finalizzata la legge, a cui peraltro è sottoposto il

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re stesso . La ridondanza legislativa è un problema della Modernità, che ha fatto della legge positiva l'arma più affilata per affermare il suo concetto di sovranità. Ma la Verfassung altomedievale non conosce affatto l'idea di

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sovranità . Solo Dio è onnipotente, mentre l'ordine terreno è costituito da potestates con giurisdizione più o meno ampia. A questa intrinseca limitatezza non sfugge neanche la più nobile delle istituzioni temporali, l'Impero, perché secondo la Formula gelasiana anche la spada imperiale è stata affidata a Cesare da Cristo. E, d'altra parte, resta scolpita nel marmo la celebre massima paolina “non est potestas nisi a Deo” (Rm 13, 1). Queste idee, grazie all’insegnamento ecclesiastico, circolavano ovunque nell'Alto Medioevo. Anche i principi beneventani sapevano che il potere terreno doveva conformarsi ad un senso più elevato di giustizia: basti guardare l'Epitaffio di Radelchi che ricorda come il defunto “publica iura regens sed sacras maxime leges explevit iugiter corde manuque gerens”, oppure la XIII legge di Arechi dove è richiamata la “divinæ legis auctoritas”. Questa legge divina e naturale costituisce, in fin dei conti, il fondamento assiologico su cui si edifica l’ordinamento medievale. A Benevento leggi, sentenze ed atti pubblici vennero sempre redatti in nomine Domini Dei Salvatoris nostri Iesu Christi e non il nome del re o del popolo: segno che l'unica vera fonte del potere è Dio stesso.

385 I

SIDORODI SIVIGLIA, Sententiae, III, 47. Cfr. CARLYLE 1956, pp. 230-238; BOBBIO

1976, pp. 60-61.

386 Come precisa Isidoro, seguito da molti ecclesiastici di età carolingia. Un principio

coerente col carattere tralatizio o patteggiato di una lex positiva di cui il principe non è unico artefice. Cfr. CARLYLE 1956, pp. 249-257. Sul re come garante della pax, cfr. ARCARI 1968, pp. 557-585.

387 Sulla concezione del potere e del diritto presso i Longobardi, cfr. C

ALASSO 1954, pp.121-125.

Tutti questi rilievi spingono ad una, inevitabile, conclusione. Negli anni di Sicone e Sicardo la svolta autoritaria ci fu: i due principi tentarono di ribaltare la tradizionale costituzione mista spingendo per una trasformazione che premiasse il ruolo del princeps. Ma, nonostante gli enormi sforzi, la loro strategia era destinata all'insuccesso. L'ordinamento longobardo aveva in sé tutti gli anticorpi per reagire alle pretese monarchiche. Aristocrazia, Chiesa, Impero, concezione del potere e della legge: queste forze contrarie – benché oscurate dal protagonismo del principe – operarono incessantemente, impedendo il successo definitivo della politica dei Siconi. Il Principato di Benevento non divenne mai una monarchia assoluta o despotica, neanche negli anni della svolta.