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1.4 Gli approcci allo studio delle politiche pubbliche

1.4.3 Il paradigma dell‟economia del benessere

Il terzo paradigma che si presenta come strumento e ipotesi di valutazione e studio delle politiche pubbliche è quello che viene definito come paradigma dell‟Economia del benessere.

La nascita del paradigma si deve a Arthur C. Pigou, il quale, successore sulla cattedra che fu di Marshall, nel 1920 pubblica il testo che sarà il fondamento sul quale si inseriranno tutti gli studi che si occupano di finanza pubblica a di benessere sociale. Il testo “The economics of welfare”74

, già nel titolo, esprime il modo di approcciarsi di questo paradigma allo studio delle politiche pubbliche. Infatti, Pigou, nel suo testo di riferimento, aveva come obiettivo quello di riuscire a utilizzare gli studi dell‟economia neoclassica come strumento di perfezionamento e di indagine dei meccanismi allocativi dello Stato in ambito pubblico. Così, come nell‟ambito del sistema di mercato si possono studiare dei meccanismi per arrivare a situazioni di efficienza allocativa, anche

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in ambito pubblico si può cercare di arrivare a quel livello che potremmo definire come “efficienza sociale”.

L‟assioma da cui prende spunto l‟Economia del benessere è quello di considerare le preferenze individuali che si muovono lungo l‟asse della massimizzazione del proprio massimo utile. Gli economisti si pongono una domanda, partendo da una constatazione che notano nel campo delle dinamiche di mercato. Se a livello economico abbiamo un processo razionale degli individui che guida le diverse scelte e che, come sosteneva Adam Smith75, porta ad un efficienza allocativa dei beni e ad una stabilità del mercato, allora è possibile ottenere una efficienza allocativa del reddito e del benessere a livello sociale? E‟ questa la domanda che muove i teorici dell‟economia del benessere. I teorici dell‟economia del benessere si muovono su questa strada perché, a differenza di Adam Smith e della sua teoria della mano invisibile (secondo la quale il mercato è efficiente e si auto ri-organizza riportando l‟efficienza) ritengono, in primis Pigou, ma successivamente tutti gli altri, che il mercato non sia perfetto e che nel campo dell‟allocazione del benessere l‟efficienza allocativa potrebbe generare dei disturbi all‟equità e all‟uguaglianza, che sono i motivi principali per i quali si costruisce un sistema di welfare.

Intanto il primo assunto da cui muovono tutte le conseguenze teoriche di questo paradigma si basa sul fatto che, se da un lato è vero che il benessere in senso lato non può essere ridotto o confuso con il benessere economico, è pur vero, sempre per i Nostri, che il benessere economico è una parte rilevante di un benessere che è più

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ampio. Come conseguenza, un miglioramento del benessere economico sposterebbe in senso migliorativo anche quello generale. Qui lo spostamento non va inteso come se fossimo in presenza di un effetto moltiplicatore o addizionale del fattore economico su quello sociale, ma è certo, sempre per gli economisti, che se il benessere economico si muove in una direzione, nella stessa direzione si muoverà anche quello sociale.

Quindi, la necessità è quella di garantire l‟efficienza del benessere economico in chiave allocativa come motore del benessere sociale. Per questi motivi, l‟intervento dello Stato nella correzione allocativa del mercato diventa un fattore importante. Come detto poco sopra l‟intervento dello Stato è necessario in ragione di alcune inefficienze del mercato. Innanzitutto a differenza degli economisti neoclassici, i teorici dell‟Economia del benessere ravvisano il fatto che, all‟interno dei meccanismi di mercato, non si è sempre in presenza di informazioni perfette, spesso anzi ci si trova in condizioni di imperfezione delle informazioni e quindi l‟agire, che intenzionalmente sarebbe razionale, in realtà risulterebbe irrazionale per mancanza di informazioni corrette a propria disposizione. Inoltre vi sono altri sintomi che mostrano una inefficienza allocativa del mercato. Qui parliamo del concetto di

esternalità (scarico dei costi da parte di qualcuno sull‟intera

società), della presenza di una concorrenza che non necessariamente genera miglioramenti in ambito sociale e della ormai famosa “tragedia dei beni comuni76”, ovvero il fatto che una assenza di regolamentazione delle risorse pubbliche che vengono

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lasciate in gestione al mercato rischia di ridurre la presenza delle risorse senza una adeguata distribuzione delle stesse.

L‟intervento dello Stato quindi serve a correggere le disfunzioni che vengono generate dal mercato in quanto esistono dei beni, quelli collettivi e i tools good (sarebbero dei beni semipubblici) per i quali è necessario un intervento dello Stato.

L‟economia del benessere poggia sul concetto paretiano secondo il quale, se si interviene per migliorare il benessere di un individuo dentro la società senza peggiorare il benessere degli altri, l‟intera società entra in una fase di miglioramento.

Le tecniche utilizzate dall‟Economia del benessere per indagare le politiche sono quelle dell‟analisi costi-benefici e del rapporto mezzi-benefici. Come spiegano Howlett e Ramesh, “l‟analisi costi- benefici ha lo scopo di fornire allo stato e alle amministrazioni una tecnica per far sì che il governo replichi il più precisamente possibile il processo decisionale del mercato allo scopo di allocare risorse”77

In questo modo l‟analisi permette di capire come il governo può intervenire per corregger il mercato e riallocare le risorse (parliamo qui di redistribuzione del reddito e di altri interventi in ambito sociale). L‟intervento dello Stato è finalizzato al raggiungimento di un‟efficienza sociale allocativa, cioè un intervento che abbia come scopo quello della redistribuzione del benessere. Gli economisti del benessere, sono anche consapevoli che l‟intervento dello Stato non sempre è generatore di efficienza e che anche lo Stato presenta delle situazioni di inefficienza e di fallimento.

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Le tecniche e le teorie che appartengono all‟economia del benessere a mio avviso presentano due limiti. Il primo è di natura teorica: considerare lo Stato come il regolatore delle inefficienze del mercato e come il generatore di un‟efficienza allocativa attraverso metodi e tecniche come l‟analisi costi-benefici presuppone che coloro che operano all‟interno dello Stato siano esenti da influenze e pressioni, non abbiano proprie convinzioni ideali e siano diversi da coloro che operano all‟interno del mercato. Questo a mio avviso è errato in quanto come spiega bene la teoria della public choice, è impossibile che un soggetto che operi nel mercato in un modo operi altrove in modo differente. E‟ questo non è realistico. Il secondo problema che discende da questa impostazione teorica riguarda il fatto che l‟assunto fondamentale è quello di accrescere il benessere non solo in chiave economica; questo assunto presuppone una spiegazione di cosa sia il benessere e di come si produce. Come detto nel secondo paragrafo di questo capitolo citando Sen, il benessere economico è una parte del benessere sociale ma non l‟unico elemento che lo caratterizza. Come verrà misurato il benessere non è spiegato dai teorici dell‟economia del benessere. Ovvero, senza convinzioni ideali e morali su ciò che è benessere si rischia di misurarlo solo in un senso economico o quantistico. Cioè capire se il reddito aumenta o meno. Ma questo non dice nulla sul benessere. Perché non c‟è né una spiegazione di cosa sia il benessere né quindi come poterlo generare e migliorare. In ultimo ma non meno importante, mi pare che le politiche di benessere operate da soggetti esterni al mercato restino escluse dalle analisi dell‟economia del benessere. Anzi l‟economia del benessere non

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riesce a spiegare queste iniziative, perché queste iniziative non nascono dai fallimenti del mercato. Sono l‟esito di altre considerazioni.