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I. CAPIRE COS’È UNA FAVELA

I. 3 FAVELAS CARIOCA

I. 3.3 Percezione della favela

Per un occidentale medio l’associazione favela-violenza è quasi automatica. Le notizie, ma in particolar modo le immagini riguardanti i morros che ci arrivano, sono di armi, di sporcizia, di droga confiscata, di poliziotti eccessivamente armati e di persone di colore; aggiungerei quelle poche notizie che ci arrivano,

perché (a parte negli ultimi mesi, in cui con il pretesto dei Mondiali di calcio il mondo intero sembra interessarsi ed indignarsi per i problemi del Brasile) è raro che i nostri quotidiani, le nostre riviste ed i notiziari nazionali ci trasmettano notizie che hanno la favela come tema, e anche quando questo succede ne mettono in risalto solo gli aspetti negativi. Il blogger Davidson Pereira nel suo blog favelapotente.wordpress.com lo sottolinea, dicendo che le favelas non si sentono rappresentate dai grandi mezzi di comunicazione, poiché questi ultimi non fanno altro che dare priorità agli aspetti negativi, mostrando così al resto del mondo degli spazi dove regna la criminalità e celando tutto il buono ed il bello che c’è al loro interno. Scrive Pereira:

la funzione del giornalismo costituisce una parte importante nel processo di identificazione dei problemi fisici della città ed in particolar modo nella realizzazione di proposte che si convertano in trasformazioni strutturali di cui la città ha bisogno, oltre a rompere con la connotazione negativa che possiede la favela. Ma questi problemi si potranno risolvere solo con la partecipazione di tutta la comunità, incluso quella dei mezzi di comunicazione38.

Il potere della televisione e della stampa è quello di fungere da agente che attribuisce significato, nel senso che definisce la realtà, e spesso si trova ad essere l’unico mezzo di informazione accessibile e dunque diviene l’unico accreditabile.

Altro veicolo altrettanto efficace può essere il cinema. Il ruolo del cinema è essenziale poiché riproduce la realtà, che nel caso delle favelas è una realtà esotica, lontana e sconosciuta, e diviene dunque una maniera poco impegnativa ma molto coinvolgente di entrare in contatto con un nuovo mondo. L’esempio più clamoroso è quello del film del 2002 di Fernando Meirelles, Cidade de

                                                                                                               

38A função do jornalismo é parte importante no processo de identificação dos problemas físicos da cidade e principalmente na realização de propostas que cominem em transformações estruturais que a cidade necessita, além de romper com a conotação negativa que a favela possui. Mas esses problemas só poderão ser resolvidos se houver a participação de toda a comunidade, inclusive os veículos midiáticos”.  

Deus39 (in Italia conosciuto come City of God), pellicola basatasi sull’omonimo

romanzo di Paulo Lins del 1997 e che riscontrò un enorme successo mondiale40. Il film vuole rappresentare la scalata del traffico della droga nelle favelas ed il funzionamento del crimine organizzato al loro interno. La critica Ivana Bentes (2007) in un suo articolo evidenzia come il cinema passò da un’estetica della fame (teorizzata dal regista brasiliano Glauber Rocha) ad una cosmética da fome. Quando si parla di estetica della fame si fa riferimento a quei film brasiliani che vanno dagli anni ‘60 fino ai ’90, che non vogliono più semplicemente denunciare la povertà e vittimizzare i poveri mediante immagini dure e di alto impatto emotivo, ma che cercano di analizzare la sofferenza in maniera diversa, più leggera, trasformando la fame in folklore, in estetica non brutale ma come espressione di cultura e valori, ricordando il neo-realismo italiano. Secondo Bentes dagli anni Novanta in poi (e dunque un chiaro esempio ne è Cidade de Deus) si passa dall’estetica alla “cosmetica della fame”, perché vengono valorizzate solo le immagini belle e di qualità per rendere il cinema ancora più accessibile e globalizzato. Le immagini non cercano di mostrare una bellezza naturale come prima, ma devono essere belle in quanto fotogrammi, ed il glamour diviene protagonista del film. Così in City of God viene mostrata una favela colorata e dal ritmo incalzante, piena di persone belle, con il sottofondo di canzoni internazionalmente conosciute e mescolate con una bossanova od un samba scelti per piacere. Tutto è molto forzato ma senza dubbio il film riesce a catturare lo spettatore.

È inevitabile che in una società in cui il culto dell’immagine è stato creato dai mezzi di comunicazione di massa, siano le rappresentazioni che aiutano a costruire la visione del mondo di un individuo (Kellner, 2001). Il cinema degli ultimi due decenni, e questo film in particolare, ha contribuito in maniera fondamentale nel costruire l’immagine che l’occidentale si è fatto dei morros carioca. Egli non ha accesso al luogo fisico, ma grazie a questo potente strumento può comodamente accedere alla sua rappresentazione. Questo tipo di                                                                                                                

39 Cidade de Deus, favela realmente esistente, si trova a Rio de Janeiro nella Barra de Tijuca e prende vita nei primi anni ’60 come insieme di abitazioni di famiglie rimosse dalla zona Sud. Oggi vi abitano più di 42.000 persone.

40 Nel social network internazionale di critica di cinema filmaffinity, Cidade de Deus occupa il 25esimo posto, con un punteggio di 8.4, alla pari di grandi classici del cinema quali La febbre

accesso a distanza modella una falsa percezione della realtà, formando una visione distorta della favela e dei suoi abitanti. In questo modo lo spettatore cade in generalizzazioni e stereotipi indebiti, banalizzando e svuotando di significato una cultura che, a causa anche di queste distorsioni, incontra difficoltà a trovare riconoscimento.

Oltre che alla percezione del fenomeno favelas che si ha al di fuori del Brasile, è interessante cercare di capire come gli stessi brasiliani che non vivono nei morros concepiscano questo fenomeno. Cosa può pensare una persona che quotidianamente sente parlare di tiroteios (sparatorie), assaltos, invasões, revoltas, e che sfogliando i giornali legge di bambini uccisi per sbaglio, di scontri tra polizia e fazioni criminali, di case abusive che crollano dai monti durante un temporale? Da uno studio realizzato sugli studenti di Comunicazione sociale dell’Universidade Federal do Espírito Santo risulta che le parole che vengono menzionate di primo acchito pensando alle favelas, sono in ordine: sparatoria, disordine, mancanza di igiene e di pianificazione, traffico di droga, balas perdidas41, luogo di banditi, luogo dove non si deve andare. Gli stessi connazionali tendono a stigmatizzare i moradores anche in maniera molto più pesante rispetto a quanto farebbe un europeo per esempio: non c’è nessuna estetica né cosmetica dell’immagine che modifica l’aspetto della favela agli occhi dei brasiliani.

Sono rari i brasiliani, ed ancora meno i carioca, che sono interessati a conoscere a fondo questo fenomeno, proprio perché essendo bombardati di notizie tragiche che provengono da questi luoghi e dovendo convivere con questa realtà (ricordo che per chi vive a Rio spesso non esiste un confine fisico tra quartiere residenziale e favela) sorge una sorta di astio e rancore che crea un’ulteriore barriera tra la gente di città e la gente di morro. Tutte le guide turistiche che mi hanno accompagnata nei passeios in vari insediamenti mi hanno dato conferma di questo fatto: i turisti brasiliani che decidono di fare un tour nelle favelas non superano il 5% del totale. La causa è sia la paura che il disinteresse, ma talvolta anche un vero e proprio odio, in tutti i casi provocati dai mezzi di comunicazione che spaventano e demonizzano questi luoghi e che con la loro insistenza creano una sorta di “repulsione”.

                                                                                                               

41 “Proiettili vaganti”. L’espressione si riferisce all’avvenimento in cui una persona viene colpita da uno sparo la cui origine è sconosciuta.

Dal punto di vista dei brasiliani i favelados sono considerati “un capro espiatorio per una vasta gamma di problemi sociali, permettendo agli altri di sentirsi superiori”42 (Perlman, 2010, p. 150). Nonostante il Brasile sia uno dei Paesi più multiculturali del globo (47,7% bianchi, 43,1% mulatti, 7,6% neri, 0,4% indios, 1,1% asiatici)43, esiste un confuso sentimento razzista che non si rivolge più al colore della pelle, ma alla condizione economica: ed ecco quindi che gli abitanti delle favelas sono le prime vittime.

Secondo un’indagine del 2013 che intervistò 2.000 abitanti in 63 favelas sparse per il Paese44, circa il 30% dei moradores subisce i preconcetti della popolazione cittadina. Di questi, il 32% afferma che la motivazione è il colore della pelle, per un altro 30% è il fatto di vivere in una favela, per il 20% la mancanza di soldi e per il restante 7%, l’abbigliamento.

Altro dato che esce alla luce con questa ricerca è che il 66% della popolazione non desidera uscire dalla favela ed il 94% si considera felice. I moradores generalmente non vogliono lasciare la loro residenza. Posso confermare questo dato poiché tutti i favelados con cui ho avuto occasione di parlare amano il posto in cui vivono ed in aggiunta sperano che anche i loro figli in un futuro scelgano di rimanervi. Riguardo alla felicità degli abitanti, sebbene 94% possa sembrare una percentuale alta, è comunque un punto al di sotto della media nazionale. Si sa che il Brasile è un Paese conosciuto per il suo buonumore e che Rio de Janeiro in particolare è considerata una delle città più felici del mondo, ma è un Paese che deve sempre fare i conti con il problema della violenza. Nonostante tutto, nonostante il 73% degli abitanti consideri la favela, e dunque casa propria, violenta, e di questi il 18% la consideri molto violenta, questo risulta ininfluente nel modificare la loro felicità.

Per la maggior parte dei favelados vivere nella favela è uno stile di vita. L’ho capito in uno dei dibattiti cui ho assistito, del ciclo de debates “Fala Vidigal”, che si svolgeva nella piazza del morro do Vidigal per discutere assieme alla popolazione locale della gentrificazione della favela e di questioni di speculazione immobiliare. Quello che si sentiva ripetere più volte era che la favela non è un bairro (quartiere): “favela è favela”, dicevano, e come tale deve                                                                                                                

42 “a scapegoat for a wide array of societal problems, allowing others to feel superior”. 43 IBGE, 2010

mantenere le peculiarità che la differenziano dall’essere un quartiere di città. I favelados prima di tutto si sentono abitanti della favela e poi di Rio de Janeiro, vogliono mantenere il loro status di “diversi” perché è proprio in questo modo che hanno creato la loro identità, ossia tenendosi fuori dalla gerarchia sociale della città. Motivo per cui ora vengono stigmatizzati dal resto della società, ma motivo di grande orgoglio personale e comunitario. Le favelas più antiche hanno poco più di cent’anni e se ne formano in continuazione di nuove, sono dei luoghi giovani, che nascono grazie alle forze degli abitanti stessi, grazie alla solidarietà che si crea tra di essi.

Oggi la manodopera proveniente da quei luoghi si rende indispensabile soprattutto nel settore terziario delle grandi città, la classe media che vi abita continua a crescere facendo diminuire la fascia a reddito basso; quasi la metà degli abitanti possiede un computer ed una tv al plasma, il 41% possiede un conto corrente ed il 35% una carta di credito: lo status di favelado si sta sempre più integrando con il resto della città sotto diversi aspetti, ma essi continuano a “tenersi fuori”, costruendo una frontiera con il mondo dell’asfalto che li faccia sentire ancora diversi e unici, dato che nonostante questa vicinanza sociale sono ben lontani dal condividere quello stile di vita. Come nota Bauman “la modernità ha prodotto il livellamento delle differenze, almeno nel suo aspetto esteriore” (1998, p. 80)45. Facendo riferimento al popolo ebraico vittima dell’Olocausto, molti anni dopo la tragedia, egli scrive che esso ha dovuto trovare “un metodo moderno di tracciare frontiere, un metodo capace di supportare e neutralizzare l’impatto livellatore delle forze educatrici e civilizzatrici” (p.81)46. Ciò accade per tutti i popoli che, come quello ebraico, hanno subito una segregazione. Essi non possono semplicemente sottomettersi ed adattarsi alla forza della modernizzazione, infatti, essendo che la sofferenza della segregazione e della persecuzione ha contribuito all’origine della loro identità in quanto popolo, hanno bisogno di continuare a sentirsi differenti. Quello delle favelas brasiliane, pur non avendo a che vedere con la segregazione, è un caso in cui sono stati ricreati dei confini all’interno dei quali il popolo si                                                                                                                

45 “A modernidade produziu a nivelamento das diferenças - pelo menos na sua aparência exterior”. 46 “Nas condições da modernidade, a segregação exige um método moderno de traçar fronteiras, um método capaz de suportar e neutralizar o impacto nivelador e o poder supostamente infinito das forças educadoras e civilizadoras”.  

sente sicuro e all’interno dei quali riconosce i propri valori. Diviene dunque l’unico modo per preservarsi dall’acculturazione della modernità, che vorrebbe uniformemente democratizzare il mondo, senza spesso portare rispetto per la storia dei popoli.