• Non ci sono risultati.

106 Sentenza della Corte d’appello degli Stati Uniti, 1st Circuit, del 24 luglio 2003, causa 02-2344, Said Guirguis Khalil, Petitioner v. John Ashcroft ,Attorney General,

Respondent

Il richiedente asilo ai sensi della Convenzione di Ginevra deve avere come oggetto del timore ben fondato il rischio di subire un trattamento pregiudizievole tale da poter essere definito persecutorio, tuttavia la nozione non è sufficientemente precisata dal contenuto convenzionale. Tale indeterminatezza secondo alcuni avrebbe lo scopo di garantire una maggiore flessibilità e libertà agli Stati contraenti, convinzione rafforzata dal fatto che sin dai lavori preparatori dello stesso Comitato ad hoc sull’apolidia è possibile riscontrare lo scopo di migliorare la protezione internazionale rispetto agli strumenti esistenti all’epoca:

«In drafting this convention the Committee gave careful consideration to the provisions of previous international agreements. It sought to retain as many of them as possible in order to assure that the new consolidated convention should afford at least as much protection to refugees as had been provided by previous agreements. In some cases the Committee has deviated from the provisions contained in previous conventions where this was deemed necessary in view of social and economic developments or where the experience has shown that the previous provisions were not adequate to the needs of refugees. Moreover the draft convention contains provisions on certain subjects not covered by previous Conventions where the Committee felt that it was necessary or desirable to regulate these subjects specifically in the convention»108.

La Convenzione fornisce alcune indicazioni agli articoli 31 e 33, aventi ad oggetto rispettivamente i rifugiati presenti illegalmente sul territorio e il principio di non-refoulement

L’articolo 31, par. 2 afferma:

«The Contracting States shall not impose penalties, on account of their illegal entry or presence, on refugees who, coming directly from a

108 UN Economic and Social Council, Report of the Ad Hoc Committee on Statelessness

and Related Persons,17 February 1950, http://www.refworld.org, par. 5, reperibile on

territory where their life or freedom was threatened in the sense of article 1 [...]».

L’articolo 33, par. 1, inoltre, sostiene che:

«No Contracting State shall expel or return (“refouler”) a refugee in any manner whatsoever to the frontiers of territories where his life or freedom would be threatened on account of his race, religion, nationality, membership of a particular social group or political opinion».

Entrambi gli articoli fanno riferimento a individui la cui vita o libertà siano minacciate per le ragioni enumerate dalla Convenzione: razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale particolare e opinione politica. Ne consegue, data l’identica nozione di rifugiato presente nei suddetti articoli e nell’articolo 1, che una minaccia alla vita o alla libertà di un individuo sia sempre identificabile come persecuzione. Questa posizione è sostenuta dallo stesso Handbook quando al par. 51 specifica:

«There is no universally accepted definition of “persecution”, and various attempts to formulate such a definition have met with little success. From Article 33 of the 1951 Convention, it may be inferred that a threat to life or freedom on account of race, religion, nationality, political opinion or membership of a particular social group is always persecution».

Il paragrafo si conclude con una frase significativa:

«Other serious violations of human rights – for the same reasons – would also constitute persecution».

Da questa citazione emerge come il contenuto minimo della nozione di persecuzione sia da ritenere la minaccia alla vita o alla libertà del richiedente, ma che il riconoscimento dello status non debba essere limitato a tale fattispecie: la prassi si è diretta verso un’interpretazione più estensiva fino a considerare persecuzione la violazione di tutti i diritti garantiti a livello internazionale, a patto che sia sufficientemente grave quando non riguardi diritti la cui violazione non richieda un comportamento reiterato109.

Esiste in capo agli Stati l’obbligo sia di natura generale che pattizia di rispettare e garantire tali diritti e per individuarli è possibile fare riferimento a diversi strumenti: sono ricompresi nella protezione offerta non solo i principi sanciti dal diritto internazionale consuetudinario, ma anche quelli sanciti da strumenti pattizi e dai singoli ordinamenti statali (che possono conferire protezione particolarmente elevata ad alcuni diritti) senza contare l’evoluzione del diritto internazionale che potrebbe portare in futuro ad un ulteriore ampliamento del catalogo dei diritti tutelati110.

Nell’Handbook viene aggiunto un ulteriore elemento di riflessione: il timore ben fondato di subire persecuzioni può configurarsi anche laddove il richiedente sia stato sottoposto a misure che singolarmente considerate non siano ritenute sufficienti a configurare un atto persecutorio, ma che poste in essere contemporaneamente nei confronti del singolo individuo possono giustificare un ragionevole timore di persecuzione on cumulative

grounds. I trattamenti particolarmente titolati a determinare un atto

persecutorio sono, ad esempio, limitazioni al diritto di esercitare il proprio credo religioso o il diritto ad accedere al sistema educativo111.

Tali affermazioni portano ad ampliare ulteriormente il grado di tutela in quanto si considerano suscettibili di influenzare il riconoscimento dello

status di rifugiato non solo le violazioni dei diritti fondamentali, ma

109 F.LENZERINI, op. cit., p. 236-243 110 F.CHERUBINI, op. cit., p. 10

anche qualsiasi forma di oppressione sistematica che leda la salute psicofisica del ricorrente112.

Per quanto riguarda la discriminazione è poi necessario aggiungere dei chiarimenti aggiuntivi: nell’Handbook viene precisato che trattamenti differenziati riservati ai vari gruppi all’interno della società non siano sempre qualificabili come persecuzione e solo nel caso in cui vengano riscontrate serie restrizioni a livello religioso, educativo e lavorativo è possibile ravvisare un atto persecutorio e un timore ragionevole di subirlo. Tutto, dunque, dipende dall’analisi del caso particolare senza possibilità di individuare una regola universalmente valida in tali circostanze113.

In secondo luogo, il riconoscimento dello status deve essere conseguenza di un atto o di atti persecutori direttamente rivolti al richiedente e non quindi la conseguenza di un contesto di violenza generalizzata, escludendo la possibilità di riconoscimento dello status a vittime della cosiddetta persecuzione “indiretta”.

Non solo l’attuazione di politiche governative, ma anche un’azione posta in essere da gruppi privati può essere suscettibile di determinare un timore ben fondato, come specificato anche dalla sentenza Canada

(Attorney General) c. Ward del 1993:

«Persecution is normally related to action by the authorities of a country. It may also emanate from sections of the population that do not respect the standards established by the laws of the country concerned. A case in point may be religious intolerance, amounting to persecution, in a country otherwise secular, but where sizeable fractions of the population do not respect the religious beliefs of their neighbours. Where serious discriminatory or other offensive acts are committed by the local populace, they can be considered as persecution if they are knowingly

112 F.LENZERINI, op. cit., p. 247

tolerated by the authorities, or if the authorities refuse, or prove unable, to offer effective protection»114.

L’opinione secondo cui una persecuzione possa essere originata non solo dalle autorità statali ma anche da privati nel caso in cui lo Stato non possa fornire protezione adeguata ai cittadini è contenuta nella cosiddetta

protection theory, progressivamente affermatasi nella prassi rispetto alla accountability theory secondo la quale solo una persecuzione ad opera

delle autorità statali sia da ritenere rilevante per il riconoscimento dello

status di rifugiato. La preferenza nei confronti della prima posizione

deriva dal fatto che l’obiettivo della Convenzione è quello di fornire una protezione sostitutiva a quella dello Stato di origine o di residenza abituale qualora esso sia unable o unwilling: la protezione della comunità internazionale si inserisce in contesti dove non è possibile aspettarsi uno standard di protezione nazionale adeguato, indipendentemente dall’autore della persecuzione. In tal senso nel caso Horvath v Secretary

of State for the Home Department (2001) Lord Hope of Craighead ha

affermato:

«[...] the word 'persecution' implies a failure by the state to make protection available against the ill-treatment or violence which the person suffers at the hands of his persecutors. In a case where the allegation is of persecution by the state or its own agents the problem does not, of course, arise. There is a clear case for surrogate protection by the international community. But in the case of an allegation of persecution by non-state agents the failure of the state to provide the protection is nevertheless an essential element. It provides the bridge between persecution by the state and persecution by non-state agents which is necessary in the interests of the consistency of the whole scheme»115. 114 Sentenza della Corte suprema canadese del 30 giugno 1993, caso 689, Canada

(Attorney General) Canada (Attorney General) v. Ward par. 65

115 International Refugee Consulting, Analytical Compilation of Australian Refugee Law

Jurisprudence (Part III), febbraio 2006, http://www.refworld.org/, par. 55-58, reperibile

Nel caso in cui l’autorità statale sia venuta meno (è il caso dei c.d. failed

States) sorge il problema di collegare la persecuzione ad uno Stato,

condizione essenziale per garantire l’applicazione dell’art. 1, par. A, n. 2. La nozione di persecuzione è ugualmente valida alla luce dell’obbligo positivo di proteggere e tutelare tutti gli individui all’interno della

jurisdiction statale116: i failed States restano quindi soggetti di diritto

internazionale pur non avendo più la capacità di esercitare le proprie funzioni ed è possibile per chi fugga da tali paesi richiedere il riconoscimento dello status di rifugiato. Non si tratta di una presa di posizione uniforme: la posizione prevalente segue il Refugee Review Tribunal australiano che riguardo alla situazione dello stato somalo ha affermato che la persecuzione debba avere una c.d. official quality, ossia che sia ufficialmente tollerata o non contrastata dalle autorità del paese d’origine. La minaccia di subire un grave danno non deve essere necessariamente il prodotto dell’azione statale, è sufficiente che il governo abbia fallito o sia incapace di fornire protezione adeguata dalle persecuzioni117.

Un ulteriore chiarimento va fatto in relazione all’internal flight

alternative: il diritto d’asilo mira a fornire una protezione surrogata

rispetto a quella che lo Stato di origine o residenza abituale ha l’obbligo di assicurare e il ricorrente ha diritto al riconoscimento dello status solo nel caso in cui sia considerato l’unico mezzo per ottenere una protezione adeguata. Di conseguenza, la domanda di asilo verrebbe giudicata infondata qualora risulti che il soggetto sia in grado di ricevere tutela in

116 Sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo dell’8 luglio 2004, ricorso n. 48787/99, Ilaşcu e altri c. Moldova e Russia, par. 333 dove la Corte definisce gli obblighi degli stati parte «The Court considers that where a Contracting State is prevented from exercising its authority over the whole of its territory by a constraining de facto situation, such as obtains when a separatist regime is set up, whether or not this is accompanied by military occupation by another State, it does not thereby cease to have jurisdiction within the meaning of Article 1 of the Convention over that part of its territory temporarily subject to a local authority sustained by rebel forces or by another State.»

alcune zone dello Stato di appartenenza118. Per valutare se sia possibile

negare una richiesta d’asilo sulla base dell’internal flight alternative (IFA) devono essere considerati principalmente quattro criteri: l’accessibilità della zona sicura per il richiedente, se l’IFA sia la soluzione per eliminare il fondato timore di persecuzione, se vi siano probabilità che nuovi rischi di persecuzione si verifichino all’interno dell’IFA e se in essa sia possibile riscontrare almeno uno standard minimo di protezione statale119.

Per concludere, come enunciato anche dalla High Court australiana, la persecuzione può originare anche da motivi che non siano riconducibili a malignità o inimicizia: anche nel caso in cui una persecuzione venga paradossalmente posta in essere con l’obiettivo di conferire un beneficio alla vittima ciò non sarebbe rilevante nell’ambito del procedimento di riconoscimento. La mens rea del soggetto autore della persecuzione non rileva rispetto allo status che deve essere riconosciuto a chiunque si trovi fuori dal paese d’origine o residenza abituale e abbia timore ben fondato di esser sottoposto a persecuzione per uno dei motivi presenti nella Convenzione120.