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Il problema della violenza subita dalla donna all’interno dalle propria famiglia è comunemente conosciuto con il termine violenza domestica. Il fenomeno include abusi fisici, sessuali e psicologici sia all’interno che all’esterno dell’abitazione della vittima e tali episodi sono strettamente legati all’idea di inferiorità della donna rispetto all’uomo, tanto che tutte le forme di violenza descritte nei precedenti paragrafi possono essere ricomprese nella fattispecie di violenza domestica inflitta alle donne sulla base di credenze, pregiudizi e dinamiche di potere all’interno della società. Gli abusi includono forme di brutalità psicologica o fisica, tra cui percosse con oggetti contundenti, pugni, calci, strangolamento, bruciature e privazione di cibo. Gli abusi sessuali, spesso considerati un fenomeno legato a scenari di guerra e instabilità, sono comunemente compresi e ciò include lo stupro della vittima da parte dei componenti della famiglia. L’aspetto psicologico è egualmente grave e sfibrante per le donne, spesso confinate nelle loro case e isolate da amici e famiglia. Una recente analisi compiuta dall’OMS insieme alla London School of

Hygiene and Tropical Medicine e il Medical Research Council, basata sui

dati esistenti in oltre 80 paesi, ha riscontrato che a livello globale il 35% delle donne è stato vittima di violenze fisiche o psicologiche. Nella maggior parte dei casi, circa un terzo delle vittime nel mondo, gli abusi sono stati compiuti da parte del proprio compagno o marito e circa 38% degli omicidi viene commesso da membri della famiglia o dai compagni delle vittime80.

L’esistenza di maltrattamenti di tale portata rende necessario un ampliamento del significato del termine violenza sino a includere non solo tutte le situazioni in cui vi sia uso della forza contro la vittima, ma anche costrizioni non legate alla sfera fisica e che comprimono le libertà dell’individuo alla pari delle percosse. Diversi autori sostengono che non vi sia alcuna differenza tra un prigioniero in una cella e una donna

80WHO, Violence against women, Intimate partner and sexual violence against women, ottobre 2013, http://www.who.int, reperibile on line

costretta entro le mura domestiche, le pratiche attuate sono le medesime e hanno come scopo quello di annientare la volontà di resistere alla violenza. Si tratta di maltrattamenti imposti da chi dovrebbe essere più vicino alla vittima, ossia un componente della famiglia. Questo fattore è da considerare un’aggravante nella comparazione tra un prigioniero e una donna sottoposta a violenza domestica: nel primo caso l’individuo subisce molestie e violenze da parte di un carceriere, una persona sconosciuta alla vittima, mentre le donne che subiscono abusi si trovano a dover vivere tali violenze all’interno della famiglia. Il carnefice è proprio chi dovrebbe aver instaurato con loro un legame di fiducia e intesa e il trauma di subire tali percosse dal proprio marito può costituire un’aggravante a livello psicologico e di gestione del trauma81.

Un aspetto significativo da sottolineare in merito alla violenza domestica è il frequente fallimento delle autorità statali nel contrastare l’attività portata avanti dai membri della famiglia: la violenza si consuma nel silenzio della casa e spesso non sono fornite analisi e statistiche per evidenziare la diffusione del fenomeno nei diversi paesi e contribuire alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Questo fallimento può derivare dall’esistenza di una regolamentazione statale volta a tollerare la violenza all’interno della famiglia, ad esempio in diversi ordinamenti è prevista per legge la possibilità di difendere il proprio onore, concedendo al marito di infliggere una punizione alla consorte che sia anche solo sospettata di aver macchiato la reputazione dell’uomo. Non si tratta di leggi presenti solo nei paesi arabi: in Brasile il sistema giuridico giustifica e riduce la pena per chi si macchia del crimine di omicidio contro una donna per ragioni legate alla propria immagine.

Gli Stati si configurano come responsabili dei crimini compiuti nella sfera domestica anche qualora non esista una garanzia effettiva di protezione, sebbene una legislazione volta a contrastare gli abusi e le violenze contro le donne sia vigente all’interno del paese. Un caso peculiare è quello della c.d. dowry death, la morte per dote. Il rito del pagamento di una dote alla famiglia del marito della sposa è diffusa non solo in India, ma anche in Pakistan e Bangladesh e non è legata ad alcun dettame religioso. Tale pratica è diventata in molte comunità il mezzo per

81 R. COPELON, Intimate terror: Understanding Domestic Violence as Torture, in R. COOK (a cura di), Human Rights of Women: National and International perspectives, Philadelphia, 1994, p. 138

infliggere pene e sofferenze alle spose, che vengono sottoposte ad abusi fisici e psicologici qualora la dote non sia giudicata sufficiente dal consorte. Questo può portare al suicidio della vittima che non riesce a tollerare le pressioni inflitte alla sua famiglia o anche alla sua uccisione per mano del marito. Uno dei metodo più utilizzati è quello di bruciare il corpo senza vita della donna e poi giustificarne il decesso come il risultato di un guasto domestico.

Non essendo considerata una fattispecie di cui lo Stato sia competente a rispondere le autorità nel tempo non si dimostrano inclini a rispondere alle chiamate di aiuto delle donne o ad arrestare i mariti violenti, ritenendo le denunce fatte dalle consorti delle semplici lamentele. L’inottemperanza nel prevenire, controllare, punire o disciplinare tali atti tramite i propri organi legislativi e giudiziari rende gli Stati responsabili della violenza domestica inflitta alle donne che, vivendo in un contesto di diffusa tolleranza verso i crimini da esse subite, non saranno inclini a combattere e resistere alle violenze82.