• Non ci sono risultati.

A prima vista può apparire non veritiero il nesso secondo cui l’amicizia sia a fondamento dell’esito di una buona ricerca. Compito di questo breve intervento, che vuole essere soprattutto un sentito quanto affettuoso omaggio agli ottant’anni ben spesi di Sergio Zoppi, è quello di dimostrare che l’amicizia, a volte, è a fondamento di percorsi di conoscenza e di crescita formativa.

Sergio ebbi modo di conoscerlo quando ho cominciato a muovere i primi passi nell’accademica foresta entropica di Palazzo Nuovo. Erano gli anni in cui si cercava di uscire, a vario titolo, dall’ubriacatura di idealità rivoluzionarie mancate. Erano gli anni in cui cercavamo un indirizzo di senso, anche scientifico, dopo lunghe e non sempre fruttuose letture che avevano alimentato una prima biblioteca personale, ben presto finita in soffitta. Erano gli anni in cui Gian Luigi Bravo aprì, con alcuni amici, una prospettiva di studi che si è fatta scuola, volta a conoscere e a recuperare la cultura popolare e a patrimonializzare i beni culturali della tradizione, un percorso scientifico che, a prima vista, sembrava il frutto di una regressione ideologica, di un gramsciano torcicollo della nostalgia ma, nel contempo, un mezzo sicuro per non ritrovarci in un prossimo futuro con scientifiche patate bollenti che già in passato non avevamo sapientemente saputo far ballare in punta delle dita senza scottarci, come ci avevano insegnato i nostri nonni.

Che le vicende non siano andate così è cosa che la storia breve ha attestato compiutamente ed oggi, sempre più, si cercano nella tradizione, nei saperi dell’oralità, le ragioni logiche e affettive per spiegare e modellizzare l’incerto quanto inquietante presente postmoderno.

Fu in quel periodo di limine scientifico che conobbi Sergio Zoppi da Mongardino. Il fatto di venire tutti e due dalla campagna e dalle stesse libere colline del mito pavesiano permise ben presto di abbattere alcune profonde barriere accademiche che ci separavano. Fu l’inizio di un rapporto di fiducia e di rispetto che ci portò a frequentazioni scientifiche sempre più strette, declinate anche in piemontese, e ad un profondo lavoro di ricerca fondato su un’amichevole stima reciproca.

In quegli anni Sergio iniziò una lunga quanto innovativa traiettoria accademica, che trascorreva tra sempre più autorevoli impegni con il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) romano e l’Università di Torino, poiché fu tra i primi ad intendere i valori e le potenzialità scientifiche legate all’esplorazione culturale attraverso strumenti e media propri delle arti filmiche. Zoppi si fece interprete di una cultura in trasformazione, di una nuova sensibilità teorico-metodologica che si coglieva nelle ricerche etnografiche e visuali internazionali, come quella condotta in Francia,

il progetto “Aubrac 1964”, che indicava nuove applicative traiettorie di sviluppo dell’antropologia visiva. Grazie a Zoppi questa tensione ideale verso le nuove tecnologie audiovisive e successivamente multimediali si incardinò anche nell’Ateneo torinese, con la creazione del Centro Linguistico e Audiovisivi Interfacoltà (Clau), a metà degli anni Ottanta.

Il Centro non ha rappresentato solo un polo di eccellenza per la ricerca universitaria, ma soprattutto un luogo di confronto e di crescita, di riflessione sui temi dei beni culturali, della loro dimensione tangibile e intangibile, cogenti all’alto percorso di politica scientifica intrapreso nel CNR. È nel 1988 che nasce il XIII Comitato “per le Scienze e le Tecnologie dei Beni culturali”, di cui Zoppi fu Presidente dalle origini fino al 1994. Il Comitato è stato un’importante innovazione nei domini della conoscenza governati dal Consiglio Nazionale delle Ricerche perché, per la prima volta, si apriva e poneva in risalto l’importanza di uno sguardo transdisciplinare al tema dei beni culturali, al fine di unire la conoscenza qualitativa dei beni con il sapere tecnico legato agli strumenti per la raccolta, la catalogazione, la conservazione e la diffusione dei tratti di cultura. Al successo di quest’esperienza Sergio diede un fondamentale contributo, offrendo risorse e spunti di riflessione che hanno dato il via a quella stagione di dibattito nazionale ed internazionale incentrata sul tema dei beni culturali materiali e immateriali e soprattutto comprendendo in anticipo che i beni demoetnoantropologici andavano salvati quale subalterna memoria, preziosa per la costruzione di innovati futuri.

Il Clau è stato, dunque, sicuramente un polo di originale design scientifico, che ha anticipato l’istituirsi di centri di progettualità audiovisiva e multimediale che oggi rappresentano un solido tratto dell’orizzonte tecnologico.

In questo quadro di fattuale idealità scientifica, con l’amico Ambrogio Artoni, che ha curato la nascita e lo sviluppo del settore audiovisivi del Clau, trovammo il terreno accademicamente fertile per interpretare e declinare importanti tratti antropologici con nuove tecniche e metodologie che il video offriva, a partire da una tensione ideale per l’altro e l’altrove, che abbiamo tentato di innestare nell’originale e consolidata tradizione italiana degli studi demologici ed etnografici. Un progetto che trova solidi pilastri nell’interdisciplinare esperienza demartiniana, che nell’antropologia visiva individua il nuovo mezzo per documentare e interpretare stabilmente i grandi sistemi folklorici delle subalterne campagne del Mezzogiorno d’Italia, e nella sperimentale opera etno-cinematografica di Diego Carpitella, che generosamente ha dialogato con noi sulle condivise esperienze di documentazione filmica, in un momento storico in cui si iniziava a respirare un nuovo percorso rururbano, volto alla riscoperta ed al pendolare ritorno alle tradizioni popolari.

Nasce e si forma, dunque, nel Clau, un certo sguardo antropologico, che ha permesso di analizzare i giochi della tradizione, del ritorno, della ripresa e della re- invenzione dei teatri popolari, dei riti sacri e profani. La telecamera, il film, il documentario ci hanno permesso di interpretare in modo originale le storie di vita, le testimonianze orali e gestuali, i riti e i segni materiali e immateriali della condizione contadina.

Nell’arco di poche stagioni quell’esperienza crebbe, divenendo interprete di più vasti territori e più vaste umanità, costruendo memoria di un mondo che si andava rapidamente trasformando e globalizzando. Un grande convegno internazionale organizzato dal Clau, in collaborazione con il CNR, e dal VII Atelier del Réseau Européen de Coopération Scientifique et Technique en Ethnologie, dal titolo “Antropologia visiva e cultura della rappresentazione. Il tempo delle feste in Europa”, svoltosi presso l’Università di Torino nel 1992, divenne il luogo dove studiosi di tutta Europa analizzarono lo stato dell’arte dell’antropologia visiva e affrontarono i temi di confine di questa nuova disciplina, che in Italia ancora aveva necessità di epistemiche riflessioni. Questo percorso teorico e sperimentale originò un eccellente quanto anticipatorio laboratorio di antropologia visiva nel quadro degli studi nazionali e non solo.

Il Clau fu anche luogo di studio e ricerca sui rapporti fra tradizione e modernità nello sviluppo del cinema e del teatro dell’Africa centrale francofona e anglofona. In questo quadro va compresa la missione internazionale che risalì il fiume Congo – Zaire e Oubangui per circa 1400 chilometri da Brazzaville a Bangui nel 1990, al fine di analizzare alcuni aspetti che attengono all’oralità e alla scrittura in un difficile momento di transizione culturale del continente africano: un viaggio oggi impensabile, percorso alla vigilia di una stagione di conflitti civili che per diversi lustri hanno dilaniano l’ampia regione, una tragedia umanitaria che sembra non avere mai fine. Su quel battello alla fitzcarraldo, un mito flottante che solcava le acque primordiali che furono di Conrad e di Moravia, ci imbarcammo, Ambrogio, Mario e io. Un’avventura che ci portò a scoprire, come sostiene giustamente Conrad, che il cuore di tenebra è piuttosto un patrimonio della nostra civiltà e non di quella del fiume, che racconta di una innocente natura ancora alle origini dell’umanità.

Mario che, forse più di tutti, visse con maggior stupore la scoperta di un universo altro, l’incognito delle origini e delle ragioni, ci ha lasciati qualche tempo dopo. Troppo giovane per abbandonare i suoi cari e gli amici, ma anche quel mondo, che con la telecamera andava disvelando a se stesso e agli altri: uno sguardo altruistico mai dimenticato e che ci mancherà per sempre.

E a quel treno della notte che partiva da Porta Nuova per Parigi, verso l’Africa, c’era Sergio a salutarci, visibilmente emozionato e preoccupato per averci indicato e sostenuto in un’avventura scientifica e umana piena di inquietanti interrogativi. E a Porta Nuova ancora Sergio ad attenderci con un abbraccio a lui non solito, che rivelava tutto il peso del tempo dell’attesa e dell’amicizia.

Poche righe, dunque, per sintetizzare le affinità elettive che mi legano a Sergio e la speranza di aver dimostrato, attraverso l’immaginario che sottende un gran pezzo di vita condivisa, l’ipotesi di partenza, ovverosia come l’amicizia, a volte, è a fondamento di percorsi di conoscenza e di crescita formativa.

Grazie, Sergio.

L’Università di Torino e i Centri Linguistici: