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3.2 L’impostazione assiomatica e gli indicatori di povertà

3.2.1 Povertà multidimensionale

Accanto all’approccio tradizionale unidimensionale troviamo l’approccio di povertà multidimensionale caratterizzato da diverse variabili qualitative/quantitative, la povertà multidimensionale non si misura unicamente in funzione del reddito, ma attraverso un insieme di indicatori che tengono conto della salute, delle condizioni di lavoro, della minaccia di violenze ecc. le misure di povertà che superano l’utilizzo esclusivo di indicatori monetari sono state sviluppate in contesti concettuali diversi, facendo riferimento di volta in volta all’esclusione, all’inclusione o alla coesione sociale, alla deprivazione, anche per gruppi, o alla capability poverty. L’approccio capability poverty, che nasce dal contributo fondamentale di Amartya Sen (1993), è quello che definisce il riferimento concettuale più completo e robusto per lo sviluppo di misure di povertà multidimensionali. Esso si basa sui concetti di capacità e funzionamento: il funzionamento comprende due componenti: una dinamica, poiché richiama alle azioni che l’individuo compie, e una statica, laddove il concetto rimanda all’idea di uno stato di esistenza o di essere. La capacità esprime invece un’idoneità o abilità di carattere generale, ma può essere intesa anche come potenzialità e opportunità. La società, quindi, dovrebbe garantire il benessere degli individui, assicurando un equo accesso alle risorse e il rispetto della dignità umana, in termini di diversità, autonomia individuale/collettiva e partecipazione responsabile. La critica di Sen si basa sul fatto che giudicare un individuo sulla base dei livelli standard di vita della collettività non è sufficiente per poter definire un individuo povero. Egli focalizza il concetto di povertà e quindi degli standard di vita sulle “capacità” del bene, e non sul bene stesso. Lo standard di vita non viene determinato dal bene con le sue caratteristiche, ma dall’abilità di fare svariate azioni attraverso il suo utilizzo. Sen spiega la differenza tra capacità e caratteristica di un bene attraverso l’esempio della bicicletta: “La caratteristica della bicicletta è il trasporto e

la capacità è la possibilità di spostarsi da un luogo all’altro […]” (Sen, 1983).

I contributi presenti in letteratura che fanno riferimento a misure multidimensionali della povertà sono numerosi, come ad esempio “Multi dimensional Poverty Index” (MPI), l’indice della povertà multidimensionale sviluppato da Oxford Poverty and Human development Initiative (OPHI) in collaborazione con il programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, tale indice ha sostituito l’indice di povertà umana (HPI) ed è disaggregato per fasce di età e aree geografiche per mostrare la povertà all’interno dei paesi, inoltre, indica il numero di

36 persone che sono povere multidimensionalmente attraverso dieci parametri suddivisi per le tre dimensioni quali salute, educazione e standard di vita. Il MPI segue la metodologia multidimensionale formulata da Alkire e Foster (2007) e rappresenta una risposta metodologica alla visione multidimensionale della povertà originariamente proposta da Anand e Sen (1997). Per ogni dimensione si definisce il livello che discrimina la condizione di povertà, ad esempio la povertà educativa può essere rappresentata dal non aver completato il ciclo di istruzione obbligatorio; in questo modo può essere calcolato il livello di povertà, cosiddetto punteggio individuale, sommando i pesi di tutte le dimensioni in cui l’unità risulta deprivata. In questo modo è possibile determinare un valore soglia (cut-off) per tale punteggio così da poter classificare tutte le unità in povere e non povere; infatti, se il punteggio individuale è inferiore al valore soglia, l’unità è povera se al contrario è superiore non risulta povera. Tale classificazione dicotomica consente di calcolare il valore dell’incidenza (head count ratio, ossia la porzione di popolazione povera) e l’intensità (ottenuta come somma dei punteggi di deprivazione individuali rapportata al numero totale dei poveri). L’indice è ottenuto dal prodotto dell’incidenza per l’intensità. La stima dell'MPI per ciascun paese si basa sui dati più recenti e affidabili che presentano gli indicatori obbligatori disponibili dal 2000, tuttavia, i sondaggi sono condotti in anni differenti. Tale indice identifica ogni persona come deprivata o non deprivata utilizzando qualsiasi informazione disponibile per i membri di ciascuna famiglia; questo approccio viene utilizzato molto in quanto utilizza una logica chiara.

Anche questo approccio presenta dei limiti, come ad esempio i dati vincolanti, infatti a livello internazionale i sondaggi comparabili non dispongono di informazioni a livello individuale per tutti gli indicatori IMP ma bensì a livello familiare e questo risulta essere un limite in quanto, ad esempio, in termini di malnutrizione, se un membro di una determinata famiglia risultasse malnutrito, tutti i membri di quella determinata famiglia risulterebbero a loro volta malnutriti. Un ulteriore limite, potenzialmente comune a tutti gli indici sintetici provenienti da approcci multidimensionali, viene individuato nell’eccessiva aggregazione di dimensioni e indicatori tale da condurre a ridurre l’indice ad un’unica dimensione. Ancora troviamo altre criticità riguardanti la scelta delle dimensioni, dei relativi indicatori, del sistema di ponderazione e la scelta arbitraria delle soglie minime. Tuttavia, nel tempo sono state messe a punto raccomandazioni a livello internazionale al fine di costruire un frame- work comune di riferimento (UNECE, 2017).

37 Un ulteriore approccio è quello “Integrated and Relative Fuzzy”, approccio degli insiemi sfumati, introdotto nello studio della povertà da Cerioli e Zani (1990), tale approccio abbandona l’obiettivo di voler suddividere la popolazione in due gruppi e definisce un continuo di posizioni caratterizzate da gradi diversi di povertà. Il concetto centrale di tale teoria è quello di funzione di appartenenza, tale approccio può essere applicato sia nel caso in cui la povertà viene definita in uno spazio ad una dimensione come ad esempio il reddito, sia ad un ambito multidimensionale con variabili quantitative e qualitative. La funzione di appartenenza incide sulla specificazione quantitativa del grado di appartenenza di ciascuna unità elementare all’insieme sfocato dei poveri, il valore può assumere qualsiasi valore tra 0, nessuna appartenenza, cioè totalmente non povero, e 1, completa appartenenza, totalmente povero. La povertà quindi, piuttosto che un attributo presente o assente, viene considerata come una questiona di grado, una volta individuate le dimensioni e i relativi indicatori, il grado di appartenenza di ciascuna unità elementare viene calcolato per ogni singolo indicatore e l’indice sintetico è ottenuto come media ponderata delle funzioni di appartenenza individuali, con un sistema di pesi che tiene conto della diffusione nella popolazione degli indicatori di povertà considerati e della correlazione tra essi. Grazie all’utilizzo di questo approccio si elimina l’arbitrarietà connessa alla scelta dei valori soglia per i diversi indicatori considerati; inoltre, poiché viene superata la dicotomia tra poveri e non poveri, gli indici ottenuti, essendo calcolati sull’intera popolazione e non soltanto su quella classificata come povera, godono di una maggiore robustezza ed affidabilità.

Gli approcci multidimensionali non sminuiscono l’importanza e la portata informativa degli indicatori strettamente monetari come reddito, consumo o ricchezza, ma si propongono come misure complementari in grado di aggiungere informazioni su aspetti e dimensioni del disagio che le sole variabili monetarie non riescono a catturare. In particolare, il reddito viene frequentemente considerato come misura a sé stante e gli altri indicatori rappresentano misure supplementari. Mantenere distinte le dimensioni o considerare loro opportune aggregazioni può infatti consentire di individuare le criticità e gli aspetti più gravi o rilevanti della povertà e di porre in essere politiche di intervento più mirate ed efficaci.

Concludendo, un elemento molto importante sullo studio della povertà è chiarire quale sia l’unità di analisi e l’ambito spazio-temporale osservato, per quanto riguarda quest’ultimo

38 notiamo che spesso è legato al momento della realizzazione della rilevazione; mentre per il primo elemento abbiamo a disposizione due possibili alternative:

- Unità di analisi individuale: utilizzata dall’approccio empirico standard in quanto si ritiene che l’esperienza di povertà si collochi a questo livello evitando di sottostimare la gravità del fenomeno nelle famiglie più numerose; - Unità di analisi familiare: nonostante quanto sopra riportato, la tradizione più

consolidata si riferisce alla famiglia come unità di analisi in quanto, consente di considerare le diverse economie di scala che ampliano così la valutazione alle risorse culturali, relazionali, simboliche e sociali. Dal punto di vista economico per standardizzare le eterogeneità demografiche dei familiari viene utilizzata una scala di equivalenze che consente di comparare il reddito di famiglie che possono avere dimensione, struttura e composizione molto diverse. La scala di equivalenza viene definita come il rapporto tra il costo sostenuto da una famiglia con determinate caratteristiche demografiche, per il raggiungimento di un certo tenore di vita, ed il costo sostenuto da una famiglia di riferimento per raggiungere il medesimo benessere. Esistono scale costruite a partire dai giudizi espressi dalle famiglie circa la valutazione di quale ammontare di reddito corrisponderebbe ad un tenore di vita basso, medio o elevato (scale soggettive); poi scale costruite sulla base di specifici panieri di consumo che mettono le famiglie di composizione diversa in grado di ottenere lo stesso benessere (scale di equivalenza desunte dai minimi nutrizionali) ed ancora scale che sono basate sui redditi familiari (scale di equivalenza pragmatiche).

Un ulteriore tassello fondamentale in una prospettiva di concettualizzazione della povertà è la definizione dello spazio geografico di riferimento, infatti, risulta essere una caratteristica centrale in quanto, da un lato, definisce il contesto socio economico culturale, elemento centrale nella definizione di povertà, e dall’altro individua il livello di riferimento che quel contesto offre come la presenza di strutture sanitarie, sociali, servizi pubblici e dall’altro ancora ha valenza geopolitica in quanto guarda alle disuguaglianze tra gli Stati. A livello mondiale possiamo trovare individui poveri a causa delle profonde disuguaglianze di reddito, vi sono Paesi che godono di condizioni di sviluppo solide e hanno un reddito medio

39 relativamente elevato; vi sono poi Stati poveri, caratterizzati da un prodotto interno lordo così basso da offrire scarse opportunità di benessere alla popolazione, anche nelle migliori ipotesi di distribuzione ugualitaria dei beni e dei servizi prodotti. La Banca mondiale ha classificato 210 nazioni e territori per livello di reddito pro-capite, distinguendoli in quattro gruppi: ad alto reddito, a reddito medio di fascia alta o bassa ed a basso reddito. Fanno parte del gruppo a basso reddito ben 49 Stati, caratterizzati da reddito pro-capite pari o inferiore a 935 dollari, tra questi troviamo molti Stati africani, l’Afghanistan, il Pakistan, la Cambogia, il Vietnam, la Corea del Nord, il Myanmar, il Bangladesh, il Nepal, alcune delle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, Haiti, lo Yemen e Papua Nuova Guinea. Per quanto riguarda gli Stati africani, si tratta di Stati di nuova indipendenza, con istituzioni ancora fragili, segnati da un passato comune di economie rurali, precedentemente devastate dalla tratta degli schiavi e soggette alla colonizzazione; in Asia invece, il gruppo dei Paesi a basso reddito comprende Stati segnati nella storia recente da conflitti devastanti o da dittature. Inoltre, possiamo notare che nei Paesi emergenti la povertà significa esclusione dai settori trainanti della crescita; mentre nei Paesi produttori di materie prime energetiche, la povertà significa disuguaglianza, spesso estrema, tra ricchi e poverissimi, e può essere ulteriormente aggravata dal cattivo uso delle rendite minerarie.

Oltre ad esserci nette differenze tra i vari Stati mondiali, troviamo differenze interne ad ogni singolo Stato: i poverissimi vivono prevalentemente nelle campagne dei Paesi in via di sviluppo; in questi Paesi, nel 2002 l’incidenza globale della povertà estrema era valutata al 30% tra la popolazione rurale e al 13% tra quella urbana (Chen e Ravallion, 2007). Nei Paesi in via di sviluppo, le due macroregioni dell’Asia meridionale e dell’Africa subsahariana concentravano rispettivamente il 39,4% e il 22,3% degli urbani poveri, e il 46,2% e il 33,9% di quelli poverissimi. Anche la Cina era caratterizzata da una grossa fetta di povertà, dove l’incidenza era stimata al 22,4% della popolazione rurale. Al contrario in India la povertà estrema era alta anche nelle città, pur con incidenza inferiore a quella delle campagne (39,3% contro 43,6%). Faceva eccezione l’America Latina, dove la maggioranza dei poveri (65,5%) e poverissimi (59%) viveva nelle città (World Bank, 2008).

Anche in Italia troviamo una netta differenza di povertà tra le aree geografiche del Nord e quelle del Sud: risiedere al Sud, infatti, aumenta in modo significativo il rischio di povertà, soprattutto quella relativa. Il modello italiano della povertà ha evidenziato due declinazioni

40 principali entrambe radicate nell’insufficienza di reddito, ma al contempo differenti in quanto, mentre nel Mezzogiorno la scarsità di risorse economiche si unisce ad una relativa abbondanza di carichi familiari, che portano quindi ad un ulteriore aggravo della situazione economica, al Nord, è più elevata la quota di poveri che si trovano nella condizione di pensionati.

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