• Non ci sono risultati.

1. CONVERGENZE E DIVERGENZE TRA I DUE APPROCCI

1.5 Una prima conclusione

Ad oggi l’Economia di comunione è una realtà che resiste ed è in crescita, piccola rispetto all’immensità dell’economia globalizzata ma costante, una realtà che ha dimostrato grande resilienza nella fase di crisi economica. Ritengo che l’EdC possa dare un grande apporto al Social Investment e che a sua volta il Social Investment lo possa dare all’Economia di comunione, incentivando e valorizzando le ricadute sociali che questa produce.

129

L’intento di questa tesi e di questa argomentazione non è tanto quello di affermare che il modello di Economia di comunione sia l’unico possibile o il migliore per l’approccio del Social Investment. Sarebbe estremamente riduttivo considerata la ricchezza del paradigma in cui si riconosce e da cui trae la propria legittimazione teorica: l’Economia civile. Ciò che intendo sostenere in questo primo paragrafo dell’ultimo capitolo di questo elaborato è che l’Economia di comunione, sotto gli aspetti qui sopra illustrati, è certamente un possibile modello per il Social Investment, per un suo maggiore radicamento e più profondo sviluppo. Il bilancio tuttavia non è totalmente positivo. Vi sono anche degli elementi che possono confutare questa tesi. Nel paragrafo che segue riporto le quattro possibili confutazioni da me individuate.

1.6 Quattro motivi per cui l’Economia di comunione non può rappresentare il modello economico per il Social Investment

Abbiamo fin qui visto gli elementi che sostengono un possibile accostamento del modello di Economia di comunione a quello del Social Investment. Tuttavia esistono anche degli elementi di possibile attrito, che possono rendere difficile la coesistenza dei due approcci. Il primo credo sia legato all’origine profonda dell’Economia di comunione. L’Economia di comunione nasce e si sviluppa entro il Movimento cattolico dei Focolari e ne assorbe in maniera pregnante i tratti. Nell’Economia di comunione si parla di fraternità, di amore, di anima, di unità, di spiritualità e provvidenza. Terminologia insolita per un modello economico. La prima obiezione a questa tesi dunque potrebbe riguardare l’impossibilità per una platea ampia di aderire a dei valori e principi religiosamente connotati. Un’obiezione di questo tipo è più che ragionevole e condivisibile e forse anche la più difficile cui trovar risposta dal momento che richiede di uscire dal proprio punto di vista per evitare forzature o semplificazioni. La domanda è: può una persona che non condivide il credo che sta alla base dell’EdC, adottare questo modello economico? La risposta è difficile, in quanto soggettiva. Certamente è più semplice aderirvi per una persona che condivide i valori di fondo e l’esperienza da cui nasce il modello. L’EdC da parte sua non impone caratteri discriminanti né per l’appartenenza al progetto né per i destinatari degli interventi. La questione riguarda il modo in cui i soggetti al di fuori

130

dell’orbita EdC rispondono alla proposta dell’Economia di comunione. Il fatto che essa si sia radicata in diverse culture indica una flessibilità ed esportabilità del modello. Ma alla domanda se l’EdC sopravvivesse nel momento in cui venisse privata della sua base più profonda risponderei di no. Questa base rappresenta il terreno fertile comune e ricco di nutrienti da cui le aziende e i lavoratori di EdC si alimentano e in cui operano insieme. Togliere il terreno fertile seccherebbe le piante che di questo si nutrono. Ritengo che questo terreno rappresenti uno dei maggiori elementi di forza e solidità del modello, nonché resistenza, anche in questa sua forma amplificata su scala ormai mondiale. Ma allora ancora una volta in questo elaborato siamo arrivati ad un punto cieco? Non proprio. Ritengo che a questa critica si possa rispondere dando il giusto peso al fine ultimo dell’EdC, che può e dovrebbe essere condiviso all’unanimità: intervenire contro la povertà e la trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze. L’Economia di comunione è un modello aperto, che non nasce fine a se stesso, ma per aprirsi alla condivisione della ricchezza e del bene che ciascuno nel proprio posto di lavoro può produrre e conferire in ogni luogo e verso qualsiasi persona, da un punto di vista sia professionale che umano. Il fine ultimo dell’Economia di comunione è il bene comune, concetto che sotto questo punto di vista non può essere attaccabile. Ciò che potrebbe essere accusato di essere connotato religiosamente e pertanto di ostacolo ad una condivisione ampia è piuttosto il mezzo attraverso cui raggiungerlo e il linguaggio utilizzato per rappresentarlo. Non essendo obiettivo di questa tesi sostenere il modello EdC quale unico modello possibile e buono per il Social Investment, potrebbe rappresentare una risposta utile sostenere che chiunque può prendere spunto dal modello EdC nelle modalità per raggiungere il medesimo obiettivo. Ciò che è importante a mio avviso è provare che un modo di agire economico diverso è possibile. Il ruolo dell’Economia di comunione non sarà e non deve essere quello di soppiantare qualsiasi altro modello economico, ma quello di diffondere e rendere credibile la possibilità di portare valori tradizionalmente non economici entro il mercato. La creatività umana potrà ingegnarsi e generare migliaia di altri buoni modelli e sarà un risultato eccellente, perché generativo. L’Economia di comunione è uno dei modelli economici nati dal più ampio paradigma dell’Economia civile, un modello che ha resistito ed è cresciuto per 25 anni,

131

che si è espanso enormemente e ha permesso, e permette tutt’ora, di portare il cambiamento entro le aziende, alla portata di ogni imprenditore e lavoratore. Se è vero che oggi l’economia rappresenta una dimensione preponderante anche al di fuori dei confini della disciplina, è vero anche che l’EdC opera entro i confini della cellula più piccola dell’economia, l’azienda, per modificare i geni e le dinamiche dell’intero corpo. Il motivo per cui in questo elaborato ho scelto di portare l’Economia di comunione sta nel fatto che, prima di cominciare una ricerca approfondita ne ho colto molti punti di somiglianza e di potenziale alleanza con il Social Investment. Essa potrebbe diventare per questa sua compatibilità con la gran parte degli assunti del Social Investment, oltre che per la forte e vasta critica costruttiva che muove alle strutture più profonde dell’attuale ordine socio-economico, un modello di partenza, da cui attingere esperienze e idee per creare nuovi modelli economici e aziendali conformi alle necessità di una società che cambia rapidamente e ad uno Stato Sociale che ha bisogno di ritrovare la via della sostenibilità.

Uno sviluppo di questa prima critica potrebbe poi chiedere: se l’Economia di comunione è un modello aperto come sostenuto qui sopra, come si spiega allora la costituzione in poli produttivi adiacenti alle cittadelle del Movimento dei Focolari? Si spiega per le difficoltà pratiche che derivano dal gestire aziende secondo questo modello. Dal vantaggio che ne deriva in termini di avvio e mantenimento dell’attività e di realizzazione del principio di unità proposto dal modello. Per aziende che decidono di mettere al servizio il profitto conseguito e decidono di dare eguale importanza alla dimensione etica dell’azienda, il mercato può rivelarsi luogo estremamente ostile. Operare in stretta collaborazione rafforza l’operato di queste aziende. Nulla esclude tuttavia che aziende aderenti all’Economia di comunione si possano sviluppare al di fuori dei poli e soprattutto (sarebbe economicamente impensabile e insostenibile) non è possibile che queste possano commerciare esclusivamente tra di loro. Al contrario è esattamente tra gli obiettivi dell’EdC entrare in contatto con altre realtà economiche e istituzionali, esterne all’EdC, al fine di contribuire alla diffusione di comportamenti economici differenti. Quella dei poli produttivi dunque è una struttura che permette di realizzare nel concreto il principio dell’unità, ma anche di facilitare l’avvio delle aziende nel mercato.

132

L’Economia di comunione non chiede di tornare a chiudersi entro i confini nazionali, tanto meno entro poli. L’Economia di comunione chiede di unirsi. Chiede di tornare consapevoli del proprio operato e responsabili delle sue conseguenze. Chiede di tornare presenti e vigili verso le persone che vivono e lavorano in uno stesso ambiente, verso le persone con cui si entra in contatto, chiede che faccia la differenza se nel mondo pochi detengono moltissimo. L’Economia di comunione ci richiama alla responsabilità verso chi ci sta accanto, chi ci sta lontano, chi verrà dopo di noi e l’ambiente in cui avrà la possibilità di vivere. La struttura del polo rappresenta un punto di partenza e di riferimento, un trampolino di lancio solido da cui aprirsi al mondo intero.

Una seconda critica potrebbe essere avanzata in merito alla tipologia di lavori promossi. Il Social Investment punta ad aumentare i lavori nell’ambito dei servizi e quelli ad alta qualifica professionale per sfuggire alla concorrenza globale. L’Economia di comunione in realtà, sebbene promuova la formazione continua e l’innovazione non esclude in alcun modo tipologie di lavoro che richiedono bassa qualifica, anzi, cerca di promuovere l’attività in tutti quei settori dell’economia che producono beni fondamentali. Settori che spesso non richiedono elevata qualifica, come possono essere panifici, lavanderie, aziende di costruzioni, ecc. ecc. La presenza di questa tipologia di posti di lavoro tuttavia permette l’inserimento produttivo di persone che in passato non hanno investito nel proprio capitale umano, o non ne hanno avuto la possibilità, e che rimarrebbero escluse da un mercato del lavoro che richiede elevata qualifica. In un mercato di questo tipo diventerebbe difficile l’inserimento produttivo di persone provenienti da categorie svantaggiate. Ritengo dunque che la confutazione a questa critica consista nel fatto che, almeno nella situazione attuale in cui la povertà non è stata sradicata e le disuguaglianze persistono, garantire posti di lavoro che richiedono bassa qualifica non sia uno svantaggio, ma un elemento necessario per l’integrazione produttiva.

Un’ultima critica tra quelle da me individuate potrebbe essere legata al fatto che i due approcci hanno idee differenti di mercato del lavoro. Il Social Investment accetta la flessibilità, mentre l’Economia di comunione promuove un mercato del lavoro maggiormente stabile. La risposta si avvicina molto a quella data alla critica numero tre e in un certo senso completa il quadro. Ho già argomentato al paragrafo 1.3 di questo

133

capitolo come a mio avviso le due posizioni potrebbero essere complementari e andare a servire fasce diverse di popolazione, permettendo così al Social Investment di intervenire all’interno del mercato del lavoro e di alleggerire la spesa per i sussidi di disoccupazione. Flessibilità e stabilità potrebbero convivere e permettere un accesso più ampio al mercato del lavoro.

2. ECONOMIA DI COMUNIONE, UN MODELLO PER UN CAMBIAMENTO